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sabato 30 gennaio 2010

Un saluto ad un amico: ciao Ruggero

I giornali sono spesso una grande famiglia. Un crogiuolo di passioni, di originalità, di grandi maestri di umanità. Oggi noi di Bresciaoggi abbiamo salutato Ruggero Marani, 85 anni, corrispondente dalla Valcamonica da oltre vent'anni. Se n'è andato per una banale caduta mentre era in vacanza in Tunisia e ieri a Breno, dove abitava, erano in tanti ai funerali. Per noi della redazione, quel poliziotto in pensione stregato dal giornalismo e dalla voglia di raccontare era come un padre, uno zio, prodigo di gentilezze e di cortesie. Un padre e uno zio che non dava lezioni, ma, al contrario, ne prendeva volentieri, consapevole che nel giornalismo c'è sempre da imparare, soprattutto se la squadra è affiatata e se lo spirito è quello giusto. Ruggero in ciò era un maestro e, lo confesso, anche se tutte le volte che mi chiamava chiudeva la conversazione con un "ti do una buona notizia: ti saluto", mi mancheranno le sue telefonate.
Noi di Bresciaoggi in chiesa abbiamo salutato Ruggero con questi ispirati pensieri del collega Massimo Tedeschi. Una lettera-tributo ad un uomo proprio speciale.

Caro Ruggero
questa non dovevi farcela. Ti aspettavamo per riprendere le solite telefonate, le corrispondenze, le chiacchierate sulla Valcamonica e sui paesi di cui ti occupavi. E invece, l’altra settimana, in redazione è arrivata come un fulmine a ciel sereno quella brutta notizia e al centro della brutta notizia c’eri tu: il tuo incidente, le tue condizioni di salute.


Sei entrato in redazione a Bresciaoggi tanti anni fa, lo ricordi, e all’inizio ti guardavamo anche con un po’ di sospetto: ma come, ci chiedevamo, un poliziotto che va in pensione e che vuole fare il giornalista?

Tu, come al solito, hai fatto alla svelta a vincere le nostre resistenze. Abbiamo capito subito che ti portavi, dentro, un senso della notizia un po’ speciale, un gusto della scoperta e un piacere del racconto che pochi di noi hanno. E poi, la semplicità: “Correggetemi, correggetemi che ne ho bisogno” dicevi portando le tue prime corrispondenze battute a macchina. E noi ti correggevamo, e qualche volta l’abbiamo fatto anche negli ultimi tempi. Lo sai. Però adesso che non possiamo più pronunciare mezze bugie, lascia che ti diciamo tutta la verità: per noi tu sei stato un maestro. E’ inutile che ti schermisci con la tua cadenza emiliana. E’ inutile che arrossisci. Lo sai che è così.

Ci hai insegnato l’umiltà, ci hai fatto capire che nessuno è solista, che una redazione – un giornale – è una squadra, in cui l’apporto di ciascuno è prezioso e arricchisce il lavoro di tutti.

Ci hai insegnato il senso dell’avventura. Mentre noi diventavamo un po’ impiegati da scrivania, tu salivi in Adamello con il pellegrinaggio degli alpini. Pochi di noi, forse nessuno, l’ha fatto. Tu sì. E se la fatica in montagna è preghiera, quanti rosari hai pronunciato su quei sentieri, sudando e prendendo appunti, e alla fine tornando a valle felice come un ragazzino. Un po’ inviato speciale e un po’ alpino anche tu, promosso sul campo.

Ci hai insegnato la disponibilità. Anche se passavano gli anni, non hai mai pensato che una notizia fosse troppo piccola, una persona troppo poco importante per occupartene con lo scrupolo e la passione di sempre.

Ci hai insegnato il senso della fratellanza. Quasi ognuno di noi conserva un tuo biglietto, un tuo telegramma che l’ha raggiunto nel momento di una gioia familiare, nel momento di un lutto. E ognuno di noi, in quel momento, grazie a te si è sentito meno solo.

Ci hai insegnato l’entusiasmo. Mentre noi diventavamo ogni giorno un po’ più grigi, tu portavi sempre ventate di novità, nuovi travolgenti impegni: le passeggiate, il computer, la musica, i viaggi. Una carica che, nei momenti di stanchezza, ci lasciava ammirati. E un po’ ci contagiava.

Ci hai insegnato il calore umano. Quando arrivavi in redazione e dispensavi pacchetti di caramelle, abbracci, saluti a ognuno di noi, era bello sentirti un po’ il nonno di tutti. Non te l’abbiamo mai detto ma i tuoi incoraggiamenti, i tuoi complimenti, ci hanno sempre fatto un gran bene.

Ci hai insegnato, soprattutto, l’umanità. Ci hai ricordato che il nostro mestiere è fatto prima di tutto di rapporti umani, di passione per le persone di cui ci occupiamo, di amore per la nostra gente e la nostra terra.

Per questo ci sei stato maestro e sai che ti porteremo sempre dentro di noi

Ciao, Ruggero
I “tuoi” giornalisti di Bresciaoggi

venerdì 29 gennaio 2010

Esiste ancora il giornalismo di inchiesta: la sfida di Big Journalism

Al capezzale del giornalismo e dell'editoria si discute da tempo sul futuro del giornalismo di inchiesta, per alcuni morto e sepolto dal giornalismo delle conferenze stampa, dei comunicati e delle veline, per altri pronto ad una seconda vita, magari correndo lungo la rete.
Certo è che le difficoltà in cui versano molte aziende editoriali (soprattutto negli Stati Uniti) hanno sottratto risorse preziose a questo tipo di giornalismo che richiede tempo (spesso non legato ad una produttività quotidiana), uomini capaci e un budget che latita sempre di più. Così c'è già chi lancia l'idea di commissionare inchieste pagate direttamente dai lettori con una sorta di sottoscrizione a tema e c'è chi invece è pronto a rigenerarsi in una nuova interessante sfida.
 La nuova sfida si chiama, negli Usa, bigjournalism.com e la sua storia è stata recentemente raccontata da Anna Masera su La Stampa nella sua rubrica la Cucina dei giornali. La scommessa di bigjournalism sta tutta nella testa del giornalista-blogger americano Andrew Breitbart. Un professionista che in passato ha lavorato come editorialista del Washington Times, cronista del Drudge Report per poi dar vita a quattro blog giornalistici fra i più frequentati negli States. Breitbart spiega così la sua ultima creatura: «Punto sulla scommessa  - dice nella sostanza - che i media siano in guerra fra di loro. Grandi media contro piccoli media; vecchi media contro nuovi media; media di sinistra contro media di destra. La pratica del giornalismo non sarà mai più la stessa». Insomma ora i media, per sopravvivere, si contrappongono anche politicamente (l'esempio italiano è emblematico) a scapito di quel giornalismo che racconta storie e le interpreta in modo obiettivo. Insomma a detrimento della base primaria di ogni inchiesta giornalistica degna di questo nome. Così Bigjournalism punta a «riempire quel vuoto di mercato enorme per la minoranza silenziosa in giro per il mondo che chiede lunga vita allo spirito della libera inchiesta, giornalismo basato sui fatti con scrittura originale».
Ci riuscirà? Per ora prende di mira i media americani e li punzecchia sulle cose non dette, gli argomenti non coperti, gli errori. Sarà questo il futuro della Rete?
Domanda a cui è difficile rispondere soprattutto dopo che Jaron Lainer considerato un guru della rete spiega che il Web.2 quello, per intenderci, dei blog e dei social network, invece che dibattiti, analisi, approfondimenti ha scatenato fino ad ora una tempesta di copia e incolla, di frivolezze, di cazzate in ordine sparso, con un appiattimento tale e una saga di inattendibilità da far quasi ricredere un teorico spinto del web come lui. Il dibattito sul punto è aperto anche in Italia, con un lungo articolo di Gianni Riotta sul Sole24ore che punta anche ad evidenziare anche una ricerca del Pew Research Center in cui si spiega come la fonte di buona parte delle notizie che approdano online altro non sono che i media tradizionali, cioè i giornali. Una rivincita per la carta stampata? Non so, ma a me sembra di più un'occasione mancata per i teorici del web. A meno che le sfide sulla rete alla Bigjournalism, magari contrapposte ad un sano risveglio del giornalismo di inchiesta sui media tradizionali non ci facciano ricredere in tempo reale.

giovedì 28 gennaio 2010

La fetta del disonore e la crisi nei rapporti di lavoro


La notizia è di qualche giorno fa "Licenziata per una fetta di formaggio. Ma il giudice condanna Mc Donald's"
e racconta di una dipendente olandese della nota catena di fast food messa alla porta per aver arricchito con una fetta di formaggio il panino acquistato da un altro dipendente. In pratica l'azienda ha contestato una sorta di "indebita usurpazione del cheeseburger" e la condanna, in realtà si è tradotta in 4.200 euro pari ai cinque mesi di lavoro persi per l'interruzione anticipata della rapporto di lavoro a tempo determinato. Il caso è diventato l'altro giorno lo spunto di un Buongiorno di Massimo Gramellini (la rubrica che il giornalista tiene in prima pagina su La Stampa), una riflessione amara di come siano diventati i rapporti di lavoro in questo mondo globalizzato, senza anima, e spesso senza rispetto per quello che gli industriali di un tempo ritenevano un bene prezioso al pari di immobili e macchinari: l'operaio.
Vale la pena di leggerla questa riflessione, è un buon viatico per affrontare un anno che sarà pure di ripresa, ma che a detta di molti non promette nulla di buono sul fronte occupazionale.
Buona lettura, la riflessione si chiama: La fetta del disonore.







da la Stampa del 27 gennaio 2010

La fetta del disonore

Cosa stiamo diventando? A Lemmer, in Olanda, una commessa di McDonald’s è stata licenziata per aver integrato l’hamburger di una collega, regolarmente pagato, con una fettina di formaggio. Ma in tal modo, ha spiegato la multinazionale con assoluta serietà, il panino cambiava status, rientrando nella categoria, più costosa, dei cheeseburger. Il giudice, di sicuro un vecchio arnese del garantismo, ha sostenuto che il corpo del reato - la sottiletta - non fosse paragonabile al danno inferto alla lavoratrice - il licenziamento. Se la sciagurata avesse spruzzato sopra il panino anche un po’ di ketchup, l’avrebbero giustiziata nella friggitoria delle patatine? La ladra di formaggio ha vinto la causa, ma non ha riavuto il posto. Solo 4.500 euro, equivalenti a cinque mesi di stipendio. L’altro ieri avevamo appreso che un altro marchio del consumismo globale, Carrefour, stava disciplinando le pause-pipì per il personale. Una per turno e i prostatici si aggiustino con i pannoloni. Chissà se la norma varrà anche per le evacuazioni dei capi. E chissà se i manager di McDonald’s pagano i loro hamburger fino all'ultimo cent, ammesso che non si concedano di meglio a spese dell’azienda.
Quand’ero ragazzo imperavano il permissivismo e l’egualitarismo: il lavoratore era sacro sempre e comunque, non si licenziavano neanche i disonesti e gli ignavi. Adesso stiamo tornando a uno sfruttamento che, con le dovute proporzioni, ricorda certe pagine di Dickens. Così il pendolo della storia continua a oscillare, senza mai fermarsi dove dovrebbe: nel giusto mezzo.

mercoledì 27 gennaio 2010

27 gennaio 2010: perchè ricordare... La storia di un castagno


"Quelli che non sanno ricordare il passato sono condannati a ripeterlo".
George Santayana (da "La vita della ragione")

Oggi, nel giorno in cui al termine della seconda guerra mondiale (era il 1945) le truppe alleate entrarono nel campo di Auschwitz e liberarono ciò che rimaneva di un genocidio, si celebra la "Giornata della Memoria". Si celebra e molti si chiedono ancora cosa voglia dire ricordare quegli anni e quei massacri. Basta sfogliare i giornali di questi giorni per scoprire che un vescovo polacco, tale Tadeusz Pieronek (non un prelato qualunque, ma l'ex presidente della conferenza episcopale di quel paese), avrebbe usato (il condizionale è d'obbligo nel consueto balletto tra dichiarazioni e successive precisazioni, tentando di accreditare il principio che se le cazzate si dicono non necessariamente si pensano) parole non troppo eleganti a commento dell'Olocausto. Basta parlare ai ragazzi del Terzo millennio e anche a quanti ragazzi non lo sono più per riscoprire propositi turpi e mai sopiti che assomigliano troppo alla voglia di pulizia etnica.
Ecco quindi la necessità di non spegnere il lume del ricordo e della ragione su ciò che è stato. Elena Loewenthal   offre su La Stampa un interessante decalogo di domande e risposte sulla Shoah che con semplicità aiuta a ricordare il distastro delle coscienze che si consumò in quegli anni e che nessuno vorrebbe rivivere oggi.
Esiste on line un monumento interattivo che aiuta a ricordare: è un castagno, il castagno che Anne Frank vedeva dalla sua casa rifugio. E' un albero al quale ognuno può posare una foglia a perenne memoria. Su quell'albero io e i mei figli qualche tempo fa abbiamo messo la nostra foglia che ora convive con quelle di bambini e uomini americani e spagnoli, danesi e brasiliani, australiani e inglesi in un'unica grande comunità del ricordo. Sotto l'albero poi fioriscono contributi e riflessioni ispirate alla piccola Anne, disegni, poesie, fotografie su bontà, libertà, altruismo. Così capita di leggere, nelle parole di Ivana Rocco (napoletana classe 1995) che:

"Libertà è il rumore delle foglie che si muovono al vento
libertà è un aquilone nel cielo
libertà è quando sull'altalena voliamo fin quasi a toccare il cielo
libertà è quel sentimento che nessuno può toglierci
libertà è tutto ciò che di bello c'è in questo mondo
libertà è tutto quello che rimarrà alla nostra anima dopo la morte".

L'albero di Anne insomma continua a far crescere spiriti liberi. Spiriti liberi che oggi vogliono fermarsi a ricordare.




ECCO ALCUNI LINK SULLA GIORNATA DELLA MEMORIA:
Ucei - Unione delle comunità ebraiche italiane
Il museo della Shoah del centro di documentazione ebraica contemporanea
Guida ai 10 film più belli sulla Shoah
Il centro internazionale di studi Primo Levi

VIDEO RICORDI SULLA SHOAH:

MILANO: IL BINARIO 21
Il 30 gennaio 1944 dal binario 21 della Stazione Centrale di Milano una umanità dolente, composta di cittadini italiani di religione ebraica di ogni età e condizione sociale, veniva caricata tra urla, percosse e latrati di cani su vagoni bestiame. All'alba di una livida domenica invernale più di 600 persone avevano attraversato la città svuotata partendo dal carcere di San Vittore su camion telati e avevano raggiunto i sotterranei della Stazione Centrale con accesso da via Ferrante Aporti. Tutti loro, braccati, incarcerati, detenuti per la sola colpa di esser nati ebrei partivano per ignota destinazione. Fu un viaggio di 7 giorni passati tra sofferenza e ansia. I bambini da 1 a 14 anni erano più di 40, tra di loro Sissel Vogelmann di 8 anni e Liliana Segre di 13. La signora Esmeralda Dina di 88 anni era la più anziana. All'arrivo ad Auschwitz la successiva domenica 6 febbraio circa 500 fra loro vennero selezionati per la morte e furono gasati e bruciati dopo poche ore dall'arrivo. Dal binario 21 era già partito un convoglio con quasi 250 deportati il 6 dicembre del 1943, ne sarebbero partiti altri fino a maggio del 1944. Il binario 21 è ancora lì in disuso. E' di oggi la notizia che diventerà il fulcro di un memoriale milanese della Shoah.


RICORDO DI PRIMO LEVI (guarda anche la playlist su You Tube)



 MUSICA E CINEMA







martedì 26 gennaio 2010

Finalmente una buona notizia: Busi all'isola dei famosi


"Perché mai dovrei desiderare di essere Flaubert quando ho la fortuna di essere Aldo Busi?"
(citato in Gino e Michele, Matteo Molinari, "Anche le formiche nel loro piccolo s'incazzano" - Mondadori 1997)



Finalmente una buona notizia: Aldo Busi va all'isola dei famosi. Ci va e, al solito, promette scintille. Lo spiega oggi sul Corriere della Sera ad Aldo Cazzullo che lo intervista a poche ore dalla firma del contratto che lo impegna a partire per i Caraibi a febbraio. Le premesse per un'isola scoppiettante ci sono tutte, almeno nelle intenzioni del 63enne scrittore di Montichiari. Conquistato da una Simona Ventura di cui ha apprezzato i fianchi da pin-up, ha preteso che venisse tolta la clausola che gli imponeva di non parlare in modo offensivo di politica e di religione ("Altrimenti cosa dovrei dire tutto il giorno?")  e promette: " Risolto il problema della sopravvivenza, sull'isola terrò un simposio al giorno alla maniera platonica. Parleremo del rapporto tra bellezza e potere.... Non ho nulla da nascondere, altrimenti sarei in parlamento".
E sui suoi possibili compagni di naufragio dice: Sandra Milo? "Bene. Ci divertiremo. Giocheremo al gattino e alla topolina: resta da stabilire chi sia il gattino"; Claudia Galanti e Nina Senicar, show-girls del Paraguay e della Croazia? "Benissimo. Darò loro del lei. Sono migliori dei critici letterari. Anche se in pubblico la snobbano o la criticano , in privato gli intellettuali vanno pazzi epr Belen"; Dennis Dallan, ex azzurro di rugby? "Ottimo. Mi dicono sia un bonazzo e pure simpatico. Si innamorerà di me. Purtroppo non sarà ricambiato... Da decenni non provo più desideri. E poi dopo una notte ormai ti chiedono di intestargli un appartamento. Il solo modo per salvare la passione è avere tutte le cose da dire, le parole per dirle, e tacere".
Busi tra le palme parlerà anche di politica? "Io sono contro Berlusconi - spiega ad Aldo Cazzullo sul Corriere -, ma anche contro chi gli si oppone invano: perchè sono Berlusconi bonsai, quindi falliti":
Insomma le premesse per un' isola scoppiettante ci sono tutte e vuoi vedere che un Aldo Busi fuori dal coro (come lo è stata Vladimir Luxuria nell'ultima edizione) potrebbe finire per conquistare l'Italia dei reality a colpi di televoto?
 

sabato 23 gennaio 2010

Fede e scienza: Margherita Hack e il vescovo di Verona

Giorni fa a Verona l'astrofisica Margherita Hack e il vescovo di Verona, monsignor Giuseppe Zenti hanno dialogato su scienza e fede. Un dibattito partecipato e interessante.



Ecco cosa è accaduto nel video integrale postato su Youtube da "TeleChiara Produzioni", che ringraziamo per averci segnalato il filmato.

Processo breve, quando è l'inizio di una lunga agonia


Mettereste un motore Ferrari alla vostra auto senza adottare una serie di accorgimenti per evitare di uscire di strada alla prima curva?
Comprereste un diamante da migliaia di euro Se a malapena arrivate alla fine del mese?
Certo che no, che domande.
Eppure in Italia si fa anche questo. C'è un settore della pubblica amministrazione, quello della giustizia, che è arrivato al punto da non avere la carta igienica per i bagni, i soldi per le ore straordinarie dei dipendenti, i denari per pagare chi trascrive ciò che succede nelle udienze dei processi. Eppure a questa Cinquecento male in arnese gli si impone di andare come una Ferrari, di celebrare i processi in termini rapidi e precostituiti, pena l'estinzione dei reati. Eppure quella Ferrari imposta per legge dovrà continuare anche a percorrere le vecchie e tortuose strade di sempre, fatte di procedure farragginose, curve continue e stop inattesi come un errore di notifica, manna per gli avvocati sempre in cerca di un rinvio.
Ma perchè davanti ad una riforma tanto importante come quella di una giustizia dai tempi certi, non si è arrivati dopo una complessiva opera di rivitalizzazione dell'intero sistema (più risorse, più personale, procedure più snelle e meno farragginose, riforma dei comportamenti penalmente rilevanti - in Italia si processa anche chi abbandona un frigorifero per strada senza pensare che, forse, sarebbe meglio una salatissima sanzione amministrativa)?
La domanda andrebbe rivolta ai senatori della repubblica che hanno approvato la proposta del governo sul Processo breve, che eccezionalmente avrà anche efficacia retroattiva (giusto per comprendere alcuni processi a carico del premier) e rappresenterà, così, un bel colpo di spugna per tante indagini, anche importanti, non ancora arrivate in Cassazione.
Cosa accadrà con il processo breve?
Ecco il quadro catastrofico dipinto da Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera.
"FRETTA ERRORI E CONSEGUENZE: MANCA UNA RIFORMA DI SISTEMA"

Anche Carlo Federico Grosso su "La Stampa" traccia un panorama non edificante sul tema:
"LA SFIDA DELLA POLITICA"

QUI SOTTO; INFINE, LUCIANA LITIZZETTO PARLA DEL PROCESSO BREVE A MODO SUO.

venerdì 22 gennaio 2010

Avatar sì, ma di chi...


Ho visto Avatar e nella battaglia del popolo Na'vi, nella ribellione del marines Jake Sully al destino di Pandora, saranno stati forse gli occhialini per il 3D, ho capito, nel momento del discorso al popolo prima della resa dei conti finale, qual era l'origine di tutti gli Avatar: ... Ernesto Che Guevara. Non credete?



mercoledì 20 gennaio 2010

Immigrazione e Comuni: altra bocciatura. Non era meglio pensarci prima?


Dopo il Tar. il tribunale ordinario. Non c'è pace per i comuni bresciani e per le loro delibere che prevedono borse di studio e assegni di merito per soli italiani. E' arrivata dal Tribunale di Brescia nei giorni scorsi la bocciatura dei bandi e delle delibere dei comuni di Castelmella e Chiari. Il principio? Il testo unico sull'immigrazione laddove prevede che deve essere considerato discriminatorio «ogni comportamento che direttamente o indirettamente comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata su razza, colore, ascendenza, origine nazionale o etnica, convinzioni e pratiche religiose». Prevedere, dunque, una distinzione basata sulla cittadinanza italiana è - per i giudici - discriminatorio.
E non si tratta di buonismo, ma di buon senso, di quella regola che sta alla base - si diceva una volta - della civile convivenza democratica. E i comuni censurati? Castelmella, solo a sentir parlare di ricorso in tribunale aveva già riaperto i termini del bando e modificato le regole di accesso, mentre l'avvocato-senatore leghista sindaco di Chiari, Sandro Mazzatorta, ha abbozzato una linea difensiva talmente poco convinta che non farà barricate davanti alla decisione dei giudici. Allora sorge spontanea una domanda: se si era così sciettici sulla correttezza giuridica di quelle delibere, non sarebbe stato più responsabile evitare di enunciare principi palesemente discriminatori?

lunedì 18 gennaio 2010

Immigrazione e Comuni: leggi la bocciatura di Trenzano


La sentenza è uscita venerdì scorso e il tar, cassando una delibera presa dal sindaco di Trenzano (Brescia), ha detto una cosa da non sottovalutare: i sindaci devono smetterla con provvedimenti che limitino la libertà di riunione (diritto fondamentale sul quale, se serve, può intervenire solo il prefetto e per motivi più che fondati) o che interpretino in maniera estensiva il loro ruolo di Ufficiale di Governo, sia pur facendo fede nelle nuove regole previste dal Decreto Maroni che dettano, però, precisi campi d'azione che nulla hanno a che vedere con riunioni o assemblee a sfondo religioso.
Il sindaco di Trenzano - è noto - aveva firmato il 5 dicembre scorso una delibera che, nella sostanza, disciplinava le riunioni pubbliche e in luoghi aperti al pubblico di associazioni e gruppi che perseguivano scopi culturali, religiosi o politici. Richiamando il Decreto Maroni, il sindaco disponeva che per fare una riunione in luogo pubblico bisognava darne avviso 5 giorni prima alla polizia locale, trenta se si trattava di cerimonie religiose fuori dai luoghi di culto e, da ultimo, "tutte le riunioni devono tenersi in lingua italiana".
Il tar, rispettoso, lui sì, delle competenze altrui non entra in materia di diritti umani e delle sue presunte violazioni ("la controversi sulla loro violazione o meno - scrive - rientra nella giurisdizione del giudice ordinario" di questo si occuperanno infatti i magistrati della terza sezione civile del tribunale di Brescia), ma spiega che il decreto Maroni ha posto un preciso perimetro agli interventi in tema di sicurezza, compresi i comportamenti più gravi (come, ad esempio, la minaccia del terrorismo) per i quali si possono limitare principi fondamentali come la libertà di riunione. Un bel recinto giuridico, al di là del caso specifico, per primi cittadini che si sentono "più realisti del re" e pronti a provedimenti che scavalcano allegramente direttive del Governo già di per se "border line" in tema di diritti della persona.

ECCO IL TESTO INTEGRALE DELLA DECISIONE DEI GIUDICI DEL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO
La sentenza trenzano

GIUSTO PER RINFRESCARE LA MEMORIA ECCO UNO STRALCIO DI ANNOZERO CHE SI E' OCCUPATO DELLA VICENDA DI TRENZANO



PER CHIUDERE UN DOCUMENTO CHOC DIFFUSO DA "L'ESPRESSO" SUGLI IMMIGRATI RIMANDATI IN LIBIA E LASCIATI MORIRE NEL DESERTO.

venerdì 15 gennaio 2010

Giornali/2. Se per uscire dalla crisi tutti dobbiamo fare la nostra parte. La provocazione del Corriere


Se Umberto Eco (vedi il post precedente) parla di quotidiani che hanno sacrificato la qualità sull'altare della quantità non riuscendo a scongiurare una crisi che appare inesorabile, sul fronte caldo dei giornali merita una segnalazione (e non è cosa frequente trattandosi di un documento sindacale e di un sindacato spesso avvitato su se stesso come quello dei giornalisti) la nota pubblicata oggi sul Corriere della Sera a firma del Comitato di redazione del quotidiano (per chi non è del settore il Cdr è il "consiglio di fabbrica" dei giornalisti).
Cosa dice la rappresentanza sindacale della redazione? Dando conto dell'approvazione dell'accordo sullo stato di crisi del quotidiano milanese (al calo pubblicitario dovuto alla crisi economica, l'azienda ha fatto fronte con una serie di tagli sui costi e con una ondata di prepensionamenti con l'obiettivo di ridimensionare del 13% la redazione del maggiore giornale italiano), il Cdr lancia all'azienda un messaggio chiaro che suona più o meno così: noi abbiamo fatto i nostri sacrifici, in termine di livelli occupazionali e tagli al contratto integrativo, il lettore si è sobbarcato un aumento di 20 centesimi del prezzo di copertina (ora il Corriere costa 1 euro e 20 centesimi), i cittadini italiani attraverso lo Stato hanno assunto i costi di prepensionamenti e ammortiazzatori sociali, ora anche l'azienda (il fior fiore della finanza e dell'imprenditoria italiana) deve fare la sua parte. Come? "È ora auspicabile, morale ed etico - si legge nella nota -, che manager e azionisti dichiarino di rinunciare a bonus e dividendi per la durata dei due anni di stato di crisi. E che si impegnino esplicitamente a reinvestire nel Corriere della Sera ogni eventuale utile come fanno in questo momento di difficile transizione economica le migliori imprese del mondo".
Symour Hersh del "New York Times", premio Pulitzer e fra i più noti cronisti d'America (scopri a 70 anni gli orrori di Abu Ghraib), in un libro di Mario Calabresi, attuale direttore del La Stampa, dà della crisi dei giornali questa interpretazione: "Il problema (accanto al calo pubblicitario e a quello delle copie, ndr) è che le grandi corporation hanno preteso dai giornali utili del 20 per cento. Per anni hanno strizzato soldi dai quotidiani e ora che li vedono annaspare li buttano via. Dovremmo tornare al giornale di proprietà di una famiglia, che certo fa utili ma non pensa solo a quello, ci vuole una mentalità completamente diversa che riduca le aspettative e pensi ad un nuovo modello di quotidiano". Hersh dopo questa analisi non si sottraeva alle colpe della categoria, diventata con gli anni "troppo superficiale, approssimativa, asservita e poco credibile", ma richiamava anche gli editori a riscoprire l'idea dei giornali come prodotto di crescita civile, di libertà e non solo come "fabbrica di utili". Così ora i colleghi del Corriere, dopo aver rinnovato il loro impegno a tutela della libertà di informazione, sollecitano "i padroni" a sottoscrivere la medesima scommessa carica di sacrifici. Insomma per uscire dalla crisi tutti devono fare la loro parte. Una provocazione? A me sembra solo una sana e meritoria sollecitazione. Un forte richiamo da esportazione.

CLICCA QUI PER LEGGERE IL DOCUMENTO INTEGRALE DEI GIORNALISTI DEL CORRIERE DELLA SERA

Giornali/1. Se la crisi è di qualità: parola di Umberto Eco


La domanda l'ha fatta a Michele Serra un lettore sul Venerdì di Repubblica: tv e giornali ci dicono che siamo tutti stravolti dall'odio e poi quando parlo con i miei vicini o i compagni di lavoro trovo gente tranquilla e pacifica; leggo di un razzismo dilagante e poi trovo persone che fanno la carità ai neri e non gli sparano addosso. Non saranno i media che dipingono la vita peggiore di quella che è...?
Ma i giornali sanno rappresentare la realtà? E' un quesito vecchio come la storia del giornalismo, una domanda alla quale Umberto Eco sul penultimo numero de L'Espresso (la rubrica è quella di sempre "La bustina di Minerva") tenta di dare una risposta.
"Ma com'è - scrive - che giornali e televisioni sono diventati così perversi da dipingerci un mondo peggiore di quello che è? La verità è che le cose vanno così sin dall'invenzione dei giornali: se volete un atto di accusa contro la stampa andatevi a leggere "Le illusioni perdute" di Balzac, e vedrete che i nostri vizi attuali hanno radici antiche. La stampa dei miei nonni e dei miei genitori sguazzavano nelle cronache criminali e trascinava per mesi, anzi per anni, la diatriba su Bruneri e Canella, al cospetto della quale i delitti di Garlasco e di Cogne sono delle meteore. Il salto è stato di quantità e non di qualità, ma sappiamo bene che le mutazioni quantitative, oltre un certo limite, diventano mutazioni qualitative".
Il troppo storpia (o stroppia, per alcuni), una brutta abitudine che per Eco è facilmente riscontrabile anche su giornali e in tv. "I guai della quantità sono molteplici: se un tempo il quotidiano aveva quattro pagine, oggi ne ha 60 e non è che al mondo succedano più cose. Per riempire queste 60 pagine, e avere la pubblicità che ti consenta di vivere, devi magnificare la notizia, sbattere il mostro non solo in prima, ma anche in seconda e terza pagina, col risultato di parlare dieci volte dello stesso evento nello stesso giorno, dal punto di vista di dieci inviati e dando l'impressione che gli eventi siano dieci. Ma perchè devi avere pubblicità per riempire sessanta pagine? Per poter fare sessanta pagine. E perchè devi fare settanta pagine? Per avere pubblicità abbastanza per farle. Come capite dal ricatto della quantità non si esce, ma a scapito della qualità".
Come si esce dal ricatto e, soprattutto, come si esce dalla crisi dei giornali? Umberto Eco ammette candido: "Grande è la confusione sotto il cielo e se qualcuno mi domandasse un consiglio da saggio, la saggezza mi imporrebbe di dire che non ce l'ho". E davanti ai giovani che non leggono più i giornali e che "si avviano a diventare hegelianamente la preghiera quotidiana del pensionato" osserva: "la vittoria dei quotidiani sui settimanali, la loro cosidetta settimanalizzazione (fenomeno quantitativo dovuto al fatto che la televisione serale sottrae al quotidiano il privilegio della notizia inedita) da un lato ha messo in crisi i settimanali, ma dall'altro sta rendendo illeggibili i quotidiani e i giovani si buttano su Internet, che non è meno minato dal problema della quantità, ma almeno dà l'impressione (falsa) di poter scegliere ciò che si vuole leggere".
Insomma il tema è complesso e l'editoria in crisi dovrà trovare prima o poi una propria e originale exit strategy. Magari tornando a puntare sulla qualità.

mercoledì 13 gennaio 2010

Piano carceri? Purchè non finisca come il piano caserme


Giovanni Battista Conso è un insigne giurista e fu Ministro di Grazia e giustizia dal febbraio 1993 all'aprile dell'anno successivo (con i governi Amato e Ciampi). In una sua visita a Brescia il professor Conso promise che il carcere di Canton Mombello (vecchio edificio a ridosso del centro, vetusto e cronicamente sovraffollato) sarebbe stato chiuso e che la casa di reclusione di Verziano, periferia della città strutture basse e prefabbricate, sarebbe stata ampliata con l'inserimento di nuovi moduli fino ad accogliere in condizioni meno disumane anche i detenuti di Canton Mombelli. Gli amministratori comunali di allora spiegarono anche che l'area attorno al penitenziario di Verziano era già urbanisticamente vincolata per questa finalità. Sono passati sedici anni da quella promessa che sembrava di imminente realizzazione: il carcere di Canton Mombello (clicca qui per leggere il dossier redatto dalla associazione Antigone sulla struttura) resta un girone infernale, con letti a castello a quattro piani e i detenuti che devono scendere a turno dalle brande perchè in celle così sovraffollate in piedi non c'è spazio per tutti; Verziano (ecco il risultato dell'ispezione di Antigone), pur sembrando un paradiso, nello standard qualitativo delle carceri italiane, non ha migliorato negli anni la sua condizione, e i campi attorno alla struttura continuano ad essere coltivati a mais ed erba medica.

Lecito dunque nutrire qualche cautela davanti all'annuncio di un piano d'emergenza sulle carceri italiane che verrà presentato oggi in Consiglio dei ministri dal ministro di Grazia e giustizia Angelino Alfano, nel quale, salvo sorprese, dovrebbe esserci posto anche per un nuovo carcere a Brescia. Ben vengano progetti e piani di emergenza, ma quelle parole pronunciate da Giovanni Conso 16 anni fa e in un modo o nell'altro confermate nel tempo da ministri di destra e di sinistra, ci spingono ad una sana diffidenza nella politica degli annunci, soprattutto in anni di risparmi "coatti". Il solito disfattista? No, solo sano realismo. Un esempio: ricordate il piano caserme che prevedeva 24 nuovi presidi dei carabinieri in Lombardia e a Brescia la costruzione di nuove stazioni a Botticino, Erbusco, Flero, Mazzano, Pontoglio, Sarezzo? L'accordo, ci dice un articolo dell'Archivio storico del Corriere della Sera era stato firmato il 28 maggio del 2004 e sei anni dopo a Brescia è operativa solo la stazione dei carabinieri di Mazzano e le altre strutture sono ferme per mancanza di soldi, nonostante l'impegno di molte amministrazioni locali. Con esempi come questi, come non credere alla politica degli annunci?
Così come un bagno di sano realismo va fatto al corollario che accompagnerà il piano di emergenza sulle carceri: la promessa dell'aumento dell'organico della polizia penitenziaria (2 mila agenti in più) e riforme di accompagnamento all'uscita dal carcere con, ad esempio, la detenzione domiciliare per le pene residue di un anno. Secondo le statistiche, però, mancano già 4 mila agenti operativi al piano del 2001 che prevedeva in organico 42 mila uomini della polizia penitenziaria e sul tema della carcerazione il legislatore italiano ha sempre avuto un atteggiamento a dir poco ondivago ed emozionale. I risultati delle commissioni ministeriali chiamate a trattare in forma organica ipotesi di depenalizzazioni per i reati minori (talvolta è più deterrente una multa pesante di una detenzione blanda) e un piano incisivo di pene alternative hanno ottenuto sempre risultati modesti e il più delle volte rimasti sulla carta. In compenso custodia cautelare e "penalizzazioni" di alcuni comportamenti sono state spesso usate sull'onda delle emozioni più che nell'ottica di una organica politica penale e penitenziaria. E il tema delle pene alternative - lo dice bene oggi don Gino Rigoldi, cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano in una lettera al Corriere della Sera - è un volano indispensabile per decuplicare i benefici che arriveranno dalla costruzione di nuove strutture carcerarie. Le carceri - racconta il prete milanese - sono spesso popolate da persone disperate che scontano pene residue per reati minori (piccoli furti, magari commessi anni prima in situazioni di disagio ed emarginazione), carcerazioni che arrivano anni dopo, inesorabili, anche quando qualcuno ha ormai risalito la china del disagio ritrovandosi nel bel mezzo di un nuovo tsunami esistenziale.
Parlare di umanità restituita alla carcerazione è anche questo: progettare muri ma anche ristrutturare un approccio sociale al trattamento penitenziario che negli anni si è perso fra gli ingranaggi di quella macchina male in arnese che si chiama Giustizia. Una macchina che da anni ha bisogno di risorse vere e non di parole. Sarà la volta buona?

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Carceri

martedì 12 gennaio 2010

Italiani razzisti? Forse no, si sentono solo più "fichi"


"Italiani razzisti? Non direi in modo secco, nel senso classico del termine. Sono invece convinti di essere superiori per colpa di un super-ego legato alla storia che hanno alle spalle. Comunque sia si sentono più intelligenti, più svegli, migliori... mi verrebbe da dire "più fichi". Il grande poeta romano Giuseppe Gioacchino Belli nel 1830 irrideva inglesi, francesi, tedeschi che venivano a visitare la città eterna. Persino il più plebeo dei romani avvertiva un senso di superiorità verso questi stranieri, magari coltissimi, che venivano a studiare la loro città". Giuseppe De Rita, sociologo e fondatore del Censis si esprime così parlando degli scontri di Rosarno e del nostro rapporto con l'immigrazione sulle colonne del "Corriere della Sera". E noi tutti, italiani medi, tiriamo un sospiro di sollievo: non siamo razzisti e, talvolta, crudeli. Siamo solo degli inguaribili stronzi...

ROSARNO VISTA DALLA BBC: UN ANNO FA. "NON SIAMO IN AFRICA, MA NEL CUORE DELL'EUROPA"


ROSARNO GLI SCONTRI


ROSARNO LE PROTESTE E LE TESTIMONIANZE

lunedì 11 gennaio 2010

Io, loro, Lara e i preti della diocesi di Brescia



Ha ragione Nino Dolfo sul quotidiano Bresciaoggi di ieri, domenica, quando spiega che sembra di essere tornati ai tempi d'oro dei cineforum in oratorio: "segue dibattito". Ed è senza dubbio interessante l'iniziativa lanciata da don Adriano Bianchi, direttore del settimanale diocesano "La voce del Popolo" di riunire in un cinema di Brescia i preti della diocesi per una visione "comunitaria" di "Io, loro e Lara" l'ultima fatica cinematografica di Carlo Verdone che, nel film, interpreta un missionario in crisi che, lasciata l'Africa carica di problemi e contraddizioni, torna in Italia con la pia illusione di trovare nella famiglia le risposte ai suoi tormenti. In famiglia, invece, trova conflitti e tormenti che nemmeno l'Africa gli ha saputo dare con un piccolo particolare, che qui i problemi sono infinitamente più banali e vacui. Un film, quello di Verdone, che ha scatenato anche un botta e risposta fra lo scrittore cattolico Vittorio Messori e l'autore, con il primo sul Corriere della Sera a rimproverare il regista - attore di essere un nichilista per non aver caricato quel clergiman di cristiana speranza. "Ho notato tanti preti in sala a vedere il mio film" ha spiegato Verdone la scorsa settima ad una radio e don Adriano Bianchi ha pensato bene di riunirne il più possibile in un cinema per riflettere sulla figura del prete tra finzione e realtà. Il tema non è casuale visto che il Papa, il prossimo 24 gennaio, in occasione della Giornata delle comunicazioni sociali parlerà de "Il sacerdote e la pastorale nel mondo digitale: I nuovi media al servizio della Parola".
Insomma un tempo era don Camillo che combatteva contro Peppone, oggi è un Carlo Verdone che lasciate le parodie della tonaca che lo hanno reso famoso combatte contro la futilità di un mondo moderno che non riesce a governare se stesso. Don Adriano Bianchi ai preti che interverranno al cinema S.Afra di Brescia la mattina di lunedì 18 gennaio (appuntamento alle 9,30) offre anche la riflessione di Federico Pontiggia (critico cinematografico e collaboratore dell'Associazione Cattolica esercenti cinema) sull'immagine del prete sul piccolo e grande schermo. In un mondo in cui molti preti e vescovi (curati di oratorio, missionari, parroci, e persino vescovi) hanno scelto Facebook come mezzo di pastorale la discussione è estremamente attuale.

Ecco la riflessione di Federico Pontiggia:

Federico Pontiggia: i preti sullo schermo

Ecco le anticipazioni sul film e una carrellata di sacerdoti secondo Verdone:



Ed ora il trailer del film:



La saga di Don Camillo tra interviste e spezzoni di film:

venerdì 8 gennaio 2010

Lavoro e le (non) risposte dei politici


Ieri ho visto la coda di Anno Zero su Rai Due. Tema: il lavoro. Svolgimento: spazi e testimonianze della crisi e della cattiva gestione imprenditoria e incapacità pressochè totale della politica di interpretare la realtà.
Un esempio: ecco in questi due video il momento finale in cui la trasmissione ha ospitato il racconto di una precaria siciliana della scuole che chiedeva al politico di turno (Castelli, Lega Nord) un po' di senso della realtà e qualche risposta concreta.
Come è andata? Giudicate voi...




P.S.: Anche Guglielmo Zucconi, ieri sera, ha visto questa puntata di Anno Zero e conclude amaramente sul suo blog che più che i soldi a rendere tutto ancor più sconfortante è la mancanza di speranza che costella queste storie di occupazione e disoccupazioni in riva al baratro.
Leggi qui l'intervento di Zucconi.

Tettamanzi, Monari, la chiesa, l'immigrazione, le polemiche


Monsignor Dionigi Tettamanzi non fa troppi giri di parole e in una ricorrenza come l'Epifania, tradizionalmente nota nella Chiesa come la festa delle genti, il segno dell'Universalità della Chiesa, è andato dritto al tema dell'integrazione, mettendo il dito su una ferita aperta e scatenando una serie di polemiche.
"Le famiglie dei migranti - ha spiegato nella sua omelia, molto dedicata ai bambini - diventano oggetto di proposte dal sapore nascostamente discriminatorio, fatte passare, invece, come forme di saggezza culturale e di necessità politica. A pagarne le conseguenze sono per lo più i giovani. Così come accade quando, con gesti sociali e politici gravemente diseducativi, si negano diritti propri dei ragazzi e dei giovani. Senza il rispetto per i diritti umani elementari non ci può essere “bene comune".

Carissimi genitori migranti: abbiamo bisogno di una maggiore unità tra noi e di una volontà più decisa ed energica nel portare avanti progetti educativi nuovi per questa nuova società in cui avete scelto di vivere. In questa società italiana sempre più composta a buon diritto da cittadini di altre nazionalità, abbiamo bisogno di far emergere il meglio che è in ciascuno di noi. Abbiamo bisogno di una riflessione profonda e condivisa sui valori della persona, della cittadinanza e dell’appartenenza religiosa.
In questo nostro Paese, in questa nuova Milano - formata da tutti noi, milanesi di vecchia e di nuova data -, abbiamo bisogno di un miracolo".
Invece di seguire il sogno di un miracolo, la sollecitazione ad un cambio di mentalità difficile ma necessario, si è preferito al solito buttarla in politica con qualche critica articolata ("L'integrazione è nei numeri, a Milano risiedono quasi 200 mila stranieri. Persone che in città hanno trovato casa, lavoro e accoglienza" Riccardo De Corato, vicesindaco Pdl) e con qualche valutazione un po' meno pertitente ("Noi non cacciamo nessuno, vogliamo solo che si rispettino le regole, e sull'altare con i Rom avrei voluto vedere qualche operaio in cassa integrazione . Ci sono anche i problemi italiani..." Davide Boni, assessore regionale della Lega, che sembra dimenticare come la diocesi di milano in un anno abbia raccolto nel fondo "Famiglia-Lavoro" oltre 6 milioni e mezzo di euro che hanno già aiutato 2333 famiglie in difficoltà).
E a Brescia cosa è accaduto? Il vescovo Luciano Monari si è affidato a frasi forse meno polemiche, ma non per questo meno risolute: "Voi venite dal mondo intero; siete stati portati a Brescia dalle necessità concrete delle vostre famiglie. Bene, a Brescia siete a casa vostra, qui trovate la stessa chiesa che vi ha generato alla fede, trovate lo stesso Cristo che vi è stato annunciato, lo stesso Spirito che vi ha santificato. (...) La Chiesa bresciana farà quello che le è possibile. Ma al di là di questo vorremmo che sentiste, qui a Brescia il calore della Chiesa in cui siete nati e dalla quale avete ricevuto il vangelo. Quando frequentate le parrocchie, non sentitevi come estranei accolti provvisoriamente ma come persone che vivono nel loro ambiente, in quello spazio che Dio ha creato per loro". Un bello stimolo per tutti, a meno di non fare come sempre: buttarla in politica dando un colore anche ai paramenti dei prete e polemizzando così su tutto per non risolvere niente.

L'omelia dell'Epifania del Vescovo di Brescia Luciano Monari

L'omelia dell'Epifania dell'Arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi

giovedì 7 gennaio 2010

Inflazione, come è andata a Brescia


Ci hanno detto che l'inflazione non è mai stata così bassa negli ultimi 50 anni. E a Brescia? Gli esperti dell'unità di staff statistica  del Comune di Brescia evidenziano un' inflazione in ripresa, anche se di poco, con un tasso tendenziale (la variazione annuale) dello 0,9 e un  tasso congiunturale (la variazione sul mese precedente) a + 0,2.
Solo quattro capitoli di spesa in aumento, alcuni dei quali influenzati dal periodo natalizio (Ristorazione, Ricreazione spettacolo cultura e Trasporti) oltre ai tabacchi, legati ad un aumento considerevole delle sigarette (+ 2,4%). Calano, invece, Comunicazioni e Alimentari (che invertono la tendenza).
L'orientamento per i prossimi mesi? Dopo tredici mesi di trend deflattivo  a Brescia si inverte la tendenza anche se di poco.
Ma ecco qui sotto tutte le rilevazioni sull'inflazione e l'andamento dei prezzi in provincia di Brescia.
INFLAZIONE A BRESCIA DICEMBRE 2009

mercoledì 6 gennaio 2010

Restart: e se ripartissimo dalla vergogna?


L'analisi è seducente, la scommessa è esaltante, quasi come uscire dalla crisi facendo un balzo all'indietro anzichè in avanti. Beh, per la verità, quelli che fino all'altro ieri esaltavano il libero mercato si sono ritrovati in questi mesi a riempirsi la bocca di parole come "regole", "industria", "lavoro", "imprenditoria" da contrapporre a concetti quali "finanza", "creatività", "deregulation" e quindi, se non proprio un balzo all'indietro si sono almeno voltati a vedere dove avevano messo i piedi fino ad allora.
Il 2010 sarà l'anno della ripartenza? Molti lo sperano e non c'è fronte che non abbia bisogno di un ritocco, di una cazzuolata di stucco, di un restauro fatto guardando agli sbagli del passato.
"La vergogna ricomincerà a essere un valore, dopo un paio di decenni di apparente scomparsa? Ricominceremo a provare imbarazzo e disagio di fronte a comportamenti pubblici e privati che infrangono le regole collettive che ci siamo dati?" L'incipit e quello con il quale lo scrittore Marco Belpoliti inizia il suo "Elogio della vergogna" sull'ultimo numero del settimanale "L'Espresso"  dedicato alla ripresa nell'anno che muove in questi giorni i primi passi. "Riusciremo - si chiedere Belpoliti - a superare la "vergogna di pelle", come la chiama la filosofa Agnes Heller, che connota oggi i nostri atteggiamenti?". Domande che paiono un bel esercizio di retorica in un mondo che pratica la "commercializzazione del sesso e la sessualizzazione del commercio" e basta attraversare con uno zapping i salotti televisivi o i telegiornali per capire che anche i sentimenti sono commercio e che se Adamo fosse vissuto ai nostri tempi Masaccio non avrebbe mai potuto dipingerlo così come se lo è immaginato (vedi la foto che accompagna questo post) come alla Cappella Brancacci di Firenze. Lo sostiene Belpoliti con la certezza che attraverso la vergogna riconquistata, ci si riappropria anche dall'identità smarrita. "Nella scena politica - continua Belpoliti - abbiamo perso la nostra identità di cittadini, di membri attivi di una collettività, per diventare da un lato consumatori e, dall'altro, elementi anonimi di un rilevamento statistico continuo, un pulviscolo di dati numerici. La continua fluttuazione dei ruoli, la frantumazione delle identità individuali, ha eroso le basi stesse della vergogna morale".
Ma forse qualcosa sta cambiano, osserva timidamente Belpoliti: "La vergogna che si prova di fronte al degrado del Paese, la vergogna verso l'ingiustizia continua a reiterata, la vergogna per una società di anziani che ha tolto ai giovani il sogno del futuro sono segnali di un cambiamento in corso". Sarà il ritrovato sentimento della vergogna a guidare il riscatto morale di un Paese?  La scommessa è intrigante e il 2010 è appena iniziato.

martedì 5 gennaio 2010

Craxi, lo statista e le sentenze


Come ricordare Bettino Craxi? Al solito noi italiani fatichiamo a dare il giusto senso alle cose. Così oscilliamo tra la santificazione e la demonizzazione, tra il tributo allo statista e la gogna del latitante pregiudicato. Ci sarà mai uno modo corretto per ricordare l'ex presidente del Consiglio socialista? Sicuramente sì, basta saperlo cogliere.
Un contributo importante mi sembra arrivi da un articolo comparso sul Corriere della Sera il 3 gennaio a firma di Luigi Ferrarella. Al solito Ferrarella, giornalista serio e preparato come pochi, intinge la penna in qualcosa di semplice e facilmente digeribile: la verità. La verità che parla, accanto ad un curriculum politico di tutto rispetto, di sentenze passate in giudicato con le quali in un paese normale prima o poi bisogna fare i conti. A meno che non si consideri una pendenza giudiziaria come una medaglia. E in questo caso sarà anche un fregio di prestigio in questa Repubblica un po' così, ma è pur sempre un fregio di latta.

Leggi qui l'intervento di Luigi Ferrarella sicuramente lo merita.

Dimenticavo.... già che ci siamo ecco l'intervento di Massimo Gramellini su la Stampa del 30 dicembre

da Buongiorno


del 30/12/2009 -

Betti no

È giusto dedicare una via di Milano a Bettino Craxi nel decennale della morte? Proviamo a sollevare lo sguardo dalla rissa che si è di nuovo scatenata intorno allo scheletro per mere ragioni di bottega. Comunque la si pensi, il personaggio esce ingigantito dal paragone con i nani dell’attualità. Ma anche il riconoscimento più entusiasta delle sue qualità politiche non può passare sopra una considerazione semplicissima: si tratta di un uomo che morì in contumacia dopo che la magistratura, in nome del popolo italiano - cioè nostro - lo aveva dichiarato colpevole di corruzione.
Ora, uno Stato che non sia una barzelletta può rendere pubblico omaggio a un cittadino che lo stesso Stato aveva condannato in via definitiva al carcere? Per farlo dovrebbe negare alla magistratura che lo processò ogni legittimazione. Dovrebbe riconoscere che in quegli anni in Italia non esisteva un sistema di poteri condiviso dalla comunità, ma una guerra civile fra bande contrapposte che, dopo una vittoria iniziale dell’ala giacobina, portò a una restaurazione incarnata dal migliore amico di Craxi e osteggiata di continuo dai rigurgiti degli sconfitti. E’ una visione dissociata della storia patria, e personalmente me ne dissocio. Poiché lo Stato è sempre lo stesso - il nostro - sia quando sugli altari sale il pool di Mani Pulite sia quando ci sale Berlusconi, riterrei più giusto lasciare la figura del politico Craxi al giudizio degli storici e dedicare una via di Milano alla poetessa incensurata Alda Merini.
Massimo Gramellini
La Stampa

lunedì 4 gennaio 2010

Il mercato e i miserabili


Mi sono goduto ieri sera Marco Paolini e i Mercanti di liquore in "Miserabili - Io e Margaret Thatcher", nella versione girata per La7 al porto di Taranto (di recente è diventata un dvd distribuito con Repubblica e L'Espresso). Una bella riflessione sul libero mercato, la crisi, il debito, il consumismo. Una riflessione che, casualmente, arriva dopo la notizia che a un terzo degli italiani va il 65% dei redditi, che il reddito medio procapite in Lombardia è di 22.580 euro e in Calabria non arriva ai 14 mila euro, che i nostri stipendi sono sotto la media Ue del 32%. Insomma, la fiction, ancora una volta, è molto vicino alla realtà e il teatro, quando è di denuncia, sa essere coinvolgente come poche espressioni artistiche al mondo.


Ecco alcuni spezzoni dello spettacolo e backstage recuperati su You Tube.







sabato 2 gennaio 2010

I cattolici bresciani su "Famiglia Cristiana"


Ricordate la lettera di Don Fabio Corazzina (parroco in una parrocchia di Brescia città, esponente di spicco di Pax Christi) e di due esponenti del cattolicesimo bresciano pubblicata da Bresciaoggi sui cattolici bresciani? Ne avevamo parlato in un blog di dicembre dal titolo "Cosa succede ai cattolici bresciani?" ed ora la lettera-provocazione, dopo aver provocato un ampio dibattito sia sul quotidiano bresciano che su altri giornali, è approdata sulle colonne di Famiglia Cristiana, nella seguitissima rubrica dei "Colloqui con il padre".

Ecco la lettera e la risposta di don Antonio Sciortino (se ti è più comodo clicca qui e vai al sito di Famiglia Cristiana)

LE CONTRADDIZIONI DI UNA CITTÀ GENEROSA, MA ANCHE DURA CON GLI IMMIGRATI

IN VIAGGIO VERSO LA SPERANZA

Perché ci sono, anche all’interno della Chiesa, così tante paure verso lo straniero? Eppure il messaggio di Gesù è chiaro: «Vi riconosceranno se avrete amore gli uni per gli altri».



Cara Brescia cattolica, fammi capire che ti sta succedendo. Settecento missionari sparsi per il mondo ad annunciare il Vangelo; ottocento sacerdoti, cinque istituti per le missioni; più di centocinquanta associazioni impegnate nella cooperazione; cinquanta gruppi missionari. E poi, la banca etica, che fa la sua parte; il commercio equo e solidale, che ha ventinove negozi; le sette Organizzazioni non governative, che da anni operano per il Sud del mondo... Non manca, certo, l’attenzione agli ultimi e ai poveri.

La verità è che c’è qualcosa che non funziona più, al di là di questa luminosa facciata. E di questa gloriosa storia. Qui da noi, diavolo e acqua santa sono sempre stati insieme. Siamo tra i primi produttori e commercianti di armi al mondo (e non se ne può parlare!). Anche nelle nostre parrocchie, fra preti e religiosi, sta crescendo una cultura ben lontana dal Vangelo: si raccolgono firme per difendere il crocifisso, ma lo si brandisce come una spada!

Dilaga la violenza verbale, aumentano i gesti contro gli stranieri (ci mancava pure l’ultima trovata del Cie – Centro identificazione ed espulsione – che non renderà Brescia più sicura, ma più conflittuale). Maltrattiamo l’ambiente in cui viviamo, privilegiamo la cementificazione e l’inquinamento. Vogliamo guadagnare su tutto, privatizzando anche l’acqua, un bene che spetta a tutti. Consumiamo, a testa, 25 volte più di un abitante dei Paesi del Sud del mondo. Tolleriamo (e votiamo) leggi inique. Mettiamo a tacere la coscienza e ci intruppiamo in logiche di potere e di partito. Ci lamentiamo dei silenzi e delle connivenze della Chiesa, ma anche noi non brilliamo per una fede adulta. Chiediamo privilegi, che non riconosceremo mai ad altri. Inneggiamo al Papa e poi, con delibere, calpestiamo la dignità delle persone e i diritti umani.

I fatti di Coccaglio e Rovato ci interrogano. Ci turba la violenza insensata, come l’odio che cresce nelle nostre comunità. Pretendere giustizia e legalità non ci esime dal dovere dell’ospitalità e dell’accoglienza. Chiediamo attenzione per le famiglie ma, al tempo stesso, nel nome della sicurezza, respingiamo interi nuclei familiari. Il rispetto formale delle leggi non sempre si coniuga con la libertà di coscienza e il bene dell’uomo. Chi brandisce il crocifisso e inneggia al "bianco Natale", o vuol mettere la croce sulla bandiera italiana, dovrebbe fermarsi a leggere il Vangelo. E viverlo ogni giorno.

Perché le comunità cristiane balbettano o tacciono? Perché così tante diffidenze e paure, fino a farci incattivire l’un l’altro? Nei nostri paesi, a maggioranza cattolica, oggi è più facile sentire una bestemmia che una parola di speranza. Si privilegiano posti di potere e poltrone, a scapito di una vita libera, in dialogo col resto del mondo. Eppure, Gesù ci chiede di stare dalla parte degli ultimi, di servire e non farci servire, di scegliere Dio e non il denaro, di costruire la pace e non la violenza.

Don Fabio, Claudio e Francesca


È una descrizione attraente e vera della comunità ecclesiale di Brescia. Un tipo di Chiesa che apre alla speranza di un mondo più giusto e umano, dove i poveri e gli ultimi sono riconosciuti nella loro dignità e nei loro diritti. L’identità cristiana è una sola: quella insegnata, vissuta e lasciata da Gesù di Nazaret. Non ce n’è un’altra. «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri», così leggiamo nel Vangelo di Giovanni.

Tra questi "altri", oggi, ci sono gli stranieri che vengono da noi, per trovare una condizione di vita dignitosa per le loro famiglie. In contrasto, c’è un clima di non accoglienza, che pone seri interrogativi. E lo sconcerto rasenta l’incredulità, quando questa cultura pretende di appellarsi al cristianesimo. Capita, così, che per denunciare gli immigrati, si approfitta anche del Natale.

Tutto ciò è assurdo, anche perché i clandestini non sono delinquenti. I provvedimenti che hanno trasformato la clandestinità in reato, oltre che ingiusti, non sono nemmeno efficaci. Generano solo paure e diffidenze. Diffondono un sospetto generalizzato, che stronca sul nascere ogni civile iniziativa di integrazione sociale. Alimentano la tendenza a identificare nell’immigrato clandestino (o in alcune categorie di persone, come i rom), il capro espiatorio dell’insicurezza sociale. Ogni occasione è buona, enfatizzandola, per promuovere una campagna contro gli stranieri.

Perfino il crocifisso viene asservito alla causa. Con la scusa che la crescente presenza dell’islam sul territorio può condurre alla perdita dei simboli delle nostre tradizioni religiose e culturali. Ma il pericolo non viene da quel fronte. L’identità cristiana è minacciata soprattutto da noi credenti, quando non sappiamo più leggere e applicare il messaggio rivoluzionario dell’amore, della giustizia e della non violenza che viene dalla croce. È giusto pretendere che il crocifisso non venga rimosso dalle scuole, dai tribunali e dagli ospedali. Ma dovrebbe, prima di tutto, albergare nei nostri cuori. Ed essere riconosciuto anche nei deserti o in fondo al mare, dove si conclude tragicamente il sogno di centinaia di esseri umani (uomini, donne e bambini), in viaggio verso la speranza.

Il volto martoriato del Cristo appartiene all’umanità. Tra le sue piaghe si addensano le ombre di ogni sofferenza, ingiustizia e violenza subite dagli uomini di ogni tempo. Quel Crocifisso è l’unica speranza per i "poveri cristi" della storia, vittime innocenti della malvagità o dell’indifferenza umana, della fame, del terrorismo, delle guerre. E di ogni forma di violenza. Perché, allora, anche nelle comunità cristiane, tanta intolleranza verso lo straniero? Forse, abbiamo ridotto la nostra fede soltanto ad atti di culto, senza alcun riferimento alla vita di tutti i giorni. Le comunità ecclesiali stanno smarrendo il senso profetico del messaggio cristiano. Si lasciano condizionare dalla mentalità dominante, che non sempre segue la logica evangelica dell’amore e della giustizia.

Forse, non abbiamo una formazione sociale adeguata, e pochi conoscono la dottrina sociale della Chiesa. Ne era convinto anche Giovanni Paolo II, a suo tempo, quando invitava i vescovi dell’America latina a sensibilizzare i laici alla formazione sociale. Questa esigenza, oggi, è attuale più che mai. Ma i credenti considerano la dottrina sociale della Chiesa davvero importante per la loro formazione? L’insegnamento del Papa e dei vescovi sul tema dell’immigrazione dovrebbe aiutarci a valutare correttamente iniziative e provvedimenti di legge. Perché, invece, seguiamo altri "cattivi maestri"? Non è solo una questione di sicurezza, ma di giustizia.


D.A.