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giovedì 10 novembre 2011

Da oggi si cambia: arriva Voci di Brescia



Vi avevamo promesso dei cambiamenti. Ecco che tengo fede agli impegni: da oggi il blog si trasferisce su Voci di Brescia, il blog collettivo della pagina di Brescia del Corriere della Sera. Sarò una delle voci della città insieme ai colleghi della redazione di Brescia del Corriere della Sera e in compagnia di qualche ospite speciale come i detenuti delle carceri di Brescia che veicoleranno i loro pensieri attraverso la rete.
Chi per seguire il mio blog digitava l'indirizzo http://www.marcotoresini.it/ non cambierà nulla: verrà automaticamente reindirizzato sulla home page del nuovo blog. Chi digitava http://marcotoresini.blogspot.com/ deve invece scrivere http://vocidibrescia.corriere.it/author/mtoresini/ oppure passare dall'indirizzo http://vocidibrescia.corriere.it/ che ospita anche gli altri blogger. Spero che continuerete a seguirmi e a seguire anche i colleghi che partecipano con me a questa nuova avventura.

lunedì 26 settembre 2011

Work in progress

Qualcuno avrà notato un rallentamento dell'attività di questo blog. Non disperate (ammesso che qualcuno lo sia) stiamo lavorando per voi: work in progress...

martedì 6 settembre 2011

I funerali di Mino Martinazzoli e le due facce della Repubblica


Profumavano di Prima Repubblica oggi pomeriggio i funerali di Mino Martinazzoli  a Brescia. Vedere sul sagrato del Duomo cittadino, mentre il feretro dell'ex ministro democristiano lasciava il cuore della città verso il cimitero di Caionvico, a due passi dalla sua casa, l'incedere stanco di Gerardo Bianco, lo sguardo smarrito di qualche parlamentare bresciano coetaneo dello "Strano democristiano" di Orzinuovi, la faccia smunta di Guido Bodrato, il volto segnato dalla vecchiaia di Virginio Rognoni o dei cantori della politica di quei tempi come Nuccio Fava, storico direttore e commentatore del Tg1, o Giovanni Minoli che proprio nelle ore dell'addio ha riproposto un contributo televisivo sul politico bresciano faceva un po' tv in bianco e nero, come se Jader Jacobelli dovesse improvvisare proprio lì l'ultima tribuna politica.
Mischiati a quei volti canuti, i politici di oggi, Pierluigi Bersani, Marco Follini, Rosy Bindi, Pierferdinando Casini, quelli che in un modo o nell'altro ne hanno raccolto l'eredità difficile in una politica tanto cambiata da apparire diversa, nella forma e nella sostanza. Certo su quel sagrato c'erano i reduci di una Prima Repubblica spazzata via da Tangentopoli, ingrigita dagli avvisi di garanzia e dalle lotte di corrente, quella che si trova compatta giusto dietro la bara di uno che di quelle lotte intestine ne avrebbe fatto volentieri a meno, che i provvedimenti giudiziari li ha visti invadere il salotto buono della politica italiana rimanendo attonito come si guarda un'esondazione prendere possesso, violenta e inarrestabile, della propria casa.
Certo su quel sagrato c'era la prima vituperata Repubblica, c'era mezza piazza del Gesù (quella ancora vivente vigile e collaborante perchè il tempo passa per tutti), ma sembrava che mancassero gli eredi (ad eccezione di qualche leader dell'opposizione in parlamento e qualche politico locale di maggioranza), gli eredi di una classe dirigente che, sia pur con tanti limiti, sapeva essere lungimirante, sapeva guardare oltre. Oltre se stessa, oltre il proprio consenso elettorale, sapeva costruire, come fecero i padri costituenti, qualcosa di duraturo. Mancava, lo hanno notato in molti, un rappresentante del Governo, oggi troppo impegnato, forse, nella politica del fare e del disfare, del mulinare senza costrutto, del seminare il nulla e raccogliere il niente. Se non fosse stato per l'imponenza dei corazzieri a fianco della corona della Presidenza della Repubblica (quasi commovente poco più in la  il piccolo cuscino di fiori con la scritta Giorgio Napolitano) sembrava quasi che mancasse lo Stato, quello tanto distratto da scialacquare la parte buona di un'eredità e tanto supponente da ritenere di non meritare maestri. Quello che pochi mesi fa fece dire ad un uomo di buon senso come Mino Martinazzoli "Vedo il declino, non la via d'uscita". Così mentre il suo feretro lasciava la piazza, guardavi quegli scampoli di Prima Repubblica affollare il sagrato del Duomo e ti assaliva un atroce pensiero: stavamo meglio quando stava peggio?

Omelia Ai Funerali Di Mino Martinazzoli

lunedì 5 settembre 2011

Martinazzoli e la politica dei bisogni

"Da questo momento (da quando Berlusconi entrò in politica, ndr) la politica non si occuperà più dei bisogni, ma degli interessi: e quando ci sono di mezzo gli interessi vince sempre il più forte"
Mino Martinazzoli a Giovanni Cerruti per La Stampa
(Febbraio 2011)
 Con l'addio a Mino Martinazzoli, salutiamo uno strano democristiano (non a caso è il titolo della sua biografia curata da Annachiara Valle), di quelli che hanno sempre pagato di persona i propri sbagli e le responsabilità oggettive (dall'assassino di Sindona in carcere alla fine della Dc con il naufragio del Ppi alle elezioni politiche che segnarono la discesa in campo di Silvio Berlusconi), di quelli che non sono mai stati reticenti, tanto schietti da apparire antipatici, tanto profondi da sembrare ermetici. Eppure le sue analisi sono sempre state lucide, tanto lucide che rilette ora sembrano i commenti a caldo dello spettacolo triste di una politica incapace persino di far quadrare i conti.
Che dire, guardando ad una manovra economica che si smentisce in tempo reale, di un Martinazzoli che spiega come ora "non c'è più una mediazione culturale adeguata, il che dà conto di una legislazione piuttosto casuale che sembra inseguire la contingenza invece di ragionare in termini di sviluppo storico"?
Oppure come non dargli ragione rileggendo una intervista a Liberal di un anno fa (erano i giorni della P3 e della politica votata agli affari) in cui spiegava: «Purtroppo ha trionfato già tanti anni fa l’antipolitica: l’idea cioè che l’analisi politica fosse un inutile orpello, che i partiti fossero degli oggetti d’antiquariato, e che bastasse essere un buon imprenditore per governare il Paese. Una volta nel 1994 incontrai Silvio Berlusconi e cercai di spiegargli che fare politica significava fare gli interessi degli altri e non i propri. Non ebbi successo. Viviamo una situazione in cui da un lato viene da pensare - parafrasando Gobetti - che Berlusconi sia l’autobiografia della Nazione, ma anche che Berlusconi abbia determinato un tale degrado riuscendo a tirar fuori il peggio dagli italiani. E allora potremmo arrivare ad affermare che la Nazione è l’autobiografia di Berlusconi»?
Sarà stato anche un crepuscolare, ma non le mandava a dire con quell'ironia che dava il meglio di se tra gli amici. Mi capitò un giorno di incappare in Martinazzoli al bar del suo paese natale, Orzinuovi, quel paese da dove aveva mosso i primi passi in politica, dove quel giorno era tornato per ricordare un vecchio sindacalista, pioniere dei patronati, una di quelle figure che avevano aiutato centinaia di famiglie di braccianti. Erano i giorni della vittoria di Berlusconi e al bar davanti ad un Campari tra amici, una sigaretta dopo l'altra, osservava come con la vittoria del centro destra, molti di quelli che gli stavano attorno non riuscivano a capacitarsi che al governo ci stavano gli eredi di ciò che loro, giovani democratico cristiani, avevano sempre combattuto sentendolo come un limite alla libertà e alla democrazia: il fascismo.
Ora che a quella novità si sono abituati in tanti, troppi forse, lui è sempre stato un osservatore distaccato degli eventi di questa politica degli interessi, di questa politica-spettacolo senza lungimiranza, tutta chiacchiere e distintivo. "Oggi - diceva, come quel giorno al bar di Orzinuovi - è in gioco non solo il destino della democrazia, ma anche il senso della politica".
Una meditazione che ha affidato anche alla bella autobiografia curata da Annachiara Valle: "Oggi guardo da lontano. Ma continuo ad essere convinto che, anche se non lo vedrò, tornerà un tempo meno inclemente per questo seme della nostra storia che non può essere diventato infecondo. Dovranno passare molte cose. Quello che c'è in campo oggi è più un detrito, un ingombro, che non la promessa di qualcosa. Dovranno arrivare delle generazioni che risentano queste cose  come cose nuove. Le risentano perchè la storia va così e non si inventa mai niente. Ho l'idea che in quella storia apparente mente chiusa ci siano delle ragioni che durano. E fra le cose che ho avuto la fortuna di imparare da quella storia, vorrei ricordare due concetti che mi sono cari: la mitezza della politica e il limite della politica. Quello del limite è un tema particolarmente importante. Continuo a non avere dubbi che, nel campo della illimitatezza della politica, che pure c'è stato, noi siamo stati quelli resistenti e vittoriosi contro il troppo della politica. Continuo a temere che oggi non contiamo più niente contro il niente della politica. Ma quello che mi conforta è sapere che ho avuto la fortuna di partecipare ad un viaggio che rende possibili gli incontri. E quel viaggio non fu un viaggio solitario.  Adesso, certo, lo è diventato. Perchè in verità, alla fine, si viaggia solo per tornare".
Buon viaggio Mino Martinazzoli

venerdì 19 agosto 2011

Estate 2011: lui in canottiera, noi in mutande

da www.messaggero.it
L'estate 2011 non è certo una grande estate, ma anche quest'anno ci sono alcune icone che sopravvivono alle tempeste. Certo, ci manca la bandana di Berlusconi, ma la canottiera di Bossi non ci è stata risparmiata nemmeno quest'anno, anche se in Cadore tira una brutta aria anche per i leghisti: nelle difficoltà di un paese in crisi, essere di lotta e pure di governo è sempre più difficile e l'incoerenza affiora a pelo d'acqua come gli scogli denudati dalla bassa marea.
Bossi sarà anche in canottiera in questa estate 2011, ma lo spettacolo triste di questo agosto afoso e bizzarro è che noi siamo in mutande e c'è qualche rischio che ci tolgano anche quelle nell'indifferenza di una classe politica che fatica a fare un ragionamento complessivo su un paese che ha bisogno di rigore e sviluppo, di sicurezza e speranze. La manovra sembra colpire i soliti che già danno tanto e difettare di equità come se nessuno capisca quale sia il mondo reale. Un esempio: si parla di abolire le pensioni di anzianità, ma qualcuno si è mai chiesto quanti anni di lavoro dovrà fare un operaio o un muratore che ha iniziato a faticare subito dopo la scuola dell'obbligo? Fatti due calcoli avremo casi di gente che si avvicinerà ai 50 anni di contribuzione, in lavori non proprio rilassanti. E' giusto?
A quale principio di equità poi faremo appello giustificando questa scelta davanti a piani industriali (ad esempio nel settore del credito) che mandano in pensione dipendenti a poco più di 55 anni di età, per non parlare di prepensionamenti a 48, 50 anni giustificati da stati di crisi spesso indotti artificialmente per rimettere in riga costi del lavoro troppo borderline?

A quale principio di equità faremo appello davanti a parlamentari che con 10 anni di attività politica lucrano un vitalizio di 3 mila euro o, se in carica per una sola legislatura, si assicurano comunque un assegno di duemila euro (pensione che la maggior parte degli italiani non vede nemmeno dopo 35 anni di fabbrica)?
Non basta una canottiera per avvicinare la politica alla gente, perchè ormai se la politica è in canottiera gli elettori sono letteralmente in mutande, aspettando ormai da troppo tempo di vedere tutti contribuire, in proporzione al proprio reddito come vuole la Costituzione, alla vita e al benessere di questo Paese. In base a quale principio di equità la manovra non contiene misure serie e drastiche per battere l'evasione fiscale (diminuendo ulteriormente gli obblighi di tracciabilità, rendendo non solo impossibile, ma anche poco conveniente il nero)?  Perchè si continua a far finta di nulla davanti a redditi troppo irrisori per essere veri? Il ministro-commercialista Giulio Tremonti forse dovrebbe farsi domande come queste per acquistare credibilità.
In quest'Italia c'è, insomma, qualcuno che rischia di pagare tutto anche per i furbi e chi continua a far finta di nulla. Questi ultimi saranno pure in canottiera, ma gli altri rischiano di non avere più nemmeno le mutande.

martedì 16 agosto 2011

Ferragosto di nani

I momenti di crisi, un tempo imponevano i governi di Unità nazionale, le larghe intese, le convergenze. Oggi l'estate ha portato un ferragosto di nani e ballerine, una politica senza stile e senza freni inibitori. Sentire ieri a Ponte di Legno Bossi dare del nano di Venezia a Renato Brunetta spiegandogli, in un discorso di alta politica, che non doveva "rompere i coglioni sulle pensioni" è il segno di un dibattito forse mai caduto così in basso. Che Brunetta non sia un mostro di simpatia è risaputo, che non goda di grande seguito pure, che le pensioni vadano difese e le risorse cercate altrove siamo tutti d'accordo, ma lo stile in politica è essenziale, è lo stile di una nazione. Lo stile non è ipocrisia (si possono dire le stesse cose senza trascendere), lo stile è sostanza, è uno degli aspetti dell'autorevolezza di un Paese.
In passato avete mai sentito un Berlinguer dare del nano in pubblico a Fanfani? O qualche parlamentare dare del ciccione a Spadolini? Ora ci si insulta tra ministri in un momento in cui la coesione d'intenti e di progetti dovrebbe essere totale.
Così il teatrino della politica diventa un circo e il ferragosto una festa per nani e ballerine. L'ultimo sguaiato passo di danza prima della fine...

lunedì 8 agosto 2011

Suor Giuliana e la ricetta della crisi

In questi giorni difficili sfogliando i giornali ho visto l'immagine e ho letto una storia che mi suonava famigliare. Ho letto di Suor Giuliana Galli (nella foto a sinistra), sorella della Piccola casa della Divina provvidenza, il Cottolengo, di Torino, da qualche anno ai vertici della Compagnia di San Paolo, maggiore azionista di un colosso bancario qual è il gruppo Intesa-San Paolo. In questi giorni sorella banca (come era stata battezzata ai tempi del suo insediamento nel salotto buono della finanza torinese) è tornata alla ribalta delle cronache per il semplice ma incisivo commento al rally borsistico di queste ore: «A questo punto non ci resta che pregare». Per Massimo Gramellini era l'unica che in tanta confusione aveva chiara una strategia, per altri dietro quelle preghiere c'è la necessità di spronare chi guida la nave in burrasca a fare di più per il bene comune.
Leggevo l'analisi umana di suor Giuliana e qualcosa, nelle sue parole, mi suonava famigliare, leggevo il suo curriculum e mi rendevo conto di aver conosciuto, quasi in un'altra vita, quella suora oggi 70enne. Ero uno studente con molti amici che avevano condiviso un'esperienza forte nelle estati calde che ci riservava la nostra gioventù: settimane trascorse indossando un camice bianco fra le corsie e i padiglioni del Cottolengo di Torino. Racconti entusiasti di fatiche quotidiane che davano un senso alla vita, che aiutavano a crescere, a condividere le difficoltà con persone che nonostante arrivassero da una vita avara, avevano tanto da dare.
Pur non avendo mai vissuto quell'esperienza di volontariato in prima persona amavo riempire le mie giornate estive dei racconti degli amici, dei bilanci entusiasti di quelle settimane che ti facevano sentire utili agli altri. E ad arricchire quei racconti di solidarietà vera c'erano spesso le riflessioni di suor Giuliana, una suora allora giovane e dinamica che si occupava di coordinare le volontarie che vivevano l'esperienza del Cottolengo. Negli inverni nebbiosi della provincia spesso era lei, in trasferta, a raccontare con trasporto cosa voleva dire mettersi al servizio degli altri.
Ora ho scoperto che quella suor Giuliana, descritta come una piccola eroina e confidente dalle sue giovani volontarie trent'anni fa, oggi è una suora-banchiera, quella "sorella banca" che esorta alla preghiera e all'impegno per salvare il titanic dalla bufera della speculazione. Mi sono documentato: ho raccolto opinioni, scritti su questa religiosa prestata alla stanza dei bottoni. Ho ritrovato quello spirito di suora cottolenghina  che mi aveva affascinato da giovane. E con lei ho ritrovato la speranza che, forse, la legge del cuore può vincere sull'aridità dei diagrammi e dei grandi numeri. Piazza Affari forse non è il Cottolengo, ma in un momento così difficile resta solo la Provvidenza. A Milano come a Torino.

martedì 2 agosto 2011

Bologna, i nomi e le storie


I fatti della nostra storia, anche quelli più tragici e drammatici, diventati negli anni, macigni difficili da metabolizzare, sono innanzitutto storie di persone. Ecco perchè, ricordando la Strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, voglio ricordare soprattutto i nomi delle 85 vittime. Gente normale, giovani, donne, padri e madri di famiglia: inseguivano in una stazione la voglia di vacanza e hanno trovato la morte alle 10,25. Scorriamo i loro nomi, leggiamoli come fosse una preghiera laica. La preghiera che nutre la memoria, una memoria che si anima di nomi e storie e che vorremmo non fosse più popolata di fantasmi senza requie. A Brescia come a Bologna, a Milano come nelle tante stragi dimenticate.


Strage della Stazione di Bologna
a Bologna, 2 agosto 1980, 85 morti e 200 feriti:



1. Antonella CECI , anni 19
2. Angela MARINO, anni 23
3. Leo Luca MARINO, anni 24
4. Domenica MARINO, anni 26
5. Errica FRIGERIO in DIOMEDE FRESA, anni 57
6. Vito DIOMEDE FRESA anni 62
7. Cesare Francesco DIOMEDE FRESA, anni 14
8. Anna Maria BOSIO in MAURI, anni 28
9. Carlo MAURI, anni 32
10. Luca MAURI, anni 6
11. Eckhardt MADER, anni 14
12. Margret ROHRS in MADER, anni 39
13. Kai MADER, anni 8
14. Sonia BURRI, anni 7
15. Patrizia MESSINEO, anni 18
16. Silvana SERRAVALLI in BARBERA, anni 34
17. Manuela GALLON, anni 11
18. Natalia AGOSTINI in GALLON, anni 40
19. Maria Antonella TROLESE, anni 16
20. Anna Maria SALVAGNINI in TROLESE, anni 51
21. Roberto DE MARCHI, anni 21
22. Elisabetta MANEA ved. DE MARCHI, anni 60
23. Eleonora GERACI IN VACCARO, anni 46
24. Vittorio VACCARO, anni 24
25. Velia CARLI IN LAURO, anni 50
26. Salvatore LAURO, anni 57
27. Paolo ZECCHI, anni 23
28. Viviana BUGAMELLI in ZECCHI, anni 23
29. Catherine HELEN MITCHELL, anni 22
30. John ANDREI KOLPINSKI, anni 22
31. Angela FRESU, anni 3
32. Maria FRESU, anni 24
33. loredana MOLINA in SACRATI, anni 44
34. Angelica TARSI, anni 72
35. Katia BERTASI, anni 34
36. Mirella FORNASARI, anni 36
37. Euridia BERGIANTI, anni 49
38. Nilla NATALI, anni 25
39. Franca DALL'OLIO, anni 20
40. Rita VERDE, anni 23
41. Flavia CASADEI, anni 18
42. Giuseppe PATRUNO, anni 18
43. Rossella MARCEDDU, anni 19
44. Davide CAPRIOLI, anni 20
45. Vito ALES, anni 20
46. Iwao SEKIGUCHI, anni 20
47. Brigitte DROUHARD, anni 21
48. Roberto PROCELLI, anni 21
49. Mauro ALGANON, anni 22
50. Maria Angela MARANGON, anni 22
51. Verdiana BIVONA, anni 22
52. Francesco GOMEZ MARTINEZ, anni 23
53. Mauro DI VITTORIO, anni 24
54. Sergio SECCI, anni 24
55. Roberto GAIOLA, anni 25
56. Angelo PRIORE, anni 26
57. Onofrio ZAPPALÀ, anni 27
58. Pio Carmine REMOLLINO, anni 31
59. Gaetano RODA, anni 31
60. Antonio DI PAOLA, anni 32
61. Mirco CASTELLARO, anni 33
62. Nazzareno BASSO, anni 33
63. Vincenzo PETTENI, anni 34
64. Salvatore SEMINARA, anni 34
65. Carla GOZZI, anni 36
66. Umberto LUGLI, anni 38
67. Fausto VENTURI, anni 38
68. Argeo BONORA, anni 42
69. Francesco BETTI, anni 44
70. Mario SICA, anni 44
71. Pier Francesco LAURENTI, anni 44
72. Paolino BIANCHI, anni 50
73. Vincenzina SALA in ZANETTI, anni 50
74. Berta EBNER, anni 50
75. Vincenzo LANCONELLI, anni 51
76. Lina FERRETTI in MANNOCCI, anni 53
77. Romeo RUOZI, anni 54
78. Amorveno MARZAGALLI, anni 54
79. Antonio Francesco LASCALA, anni 56
80. Rosina BARBARO in MONTANI, anni 58
81. Irene BRETON in BOUDOUBAN, anni 61
82. Pietro GALASSI, anni 66
83. Lidia OLLA in CARDILLO, anni 67
84. Maria IDRIA AVATI, anni 80
85. Antonio MONTANARI, anni 86

lunedì 1 agosto 2011

D'Avanzo e la lezione del giornalismo di strada

Un direttore che mi ha insegnato molto, Piero Agostini, tanto da diventare un'icona di questo blog (scrolla la colonna qui a destra), diceva sempre a noi giovani giornalisti di provincia, quando il fatto di cronaca locale diventava evento nazionale e in redazione si materializzavano i Gianantonio Stella (Corriere), i Piero Colaprico (Repubblica), i Pino Corrias e i Pierangelo Sapegno (Stampa), i Renato Pezzini (Messaggero): "guardate come lavorano e imparate".
Così metabolizzavamo le grandi attese, le grandi scarpinate dal tribunale alla questura, dalla scena del crimine alla caserma, dalla procura allo studio dell'avvocato. Pigliavamo qualche insulto, ma imparavamo a non mollare mai, senza orari ma con tanto entusiasmo. E quando capitava di dare qualche "buco" al giornale nazionale (noi che a Brescia lavoravamo tutti i giorni e avevamo fonti talvolta insospettabili) arrivava la stretta di mano calorosa del competitor agguerrito ma onesto, il tributo del compagno di strada "famoso", concorrente leale, maestro quanto basta ma senza tirarsela troppo.
Ho ripensato a quegli anni leggendo i ricordi di Giuseppe D'Avanzo, giornalista di Repubblica, uomo di inchieste severe e scottanti, professionista di strada, nonostante qualifiche da editorialista e vice direttore. D'Avanzo, morto sabato per un infarto, era considerato uno dei maggiori giornalisti d'inchiesta italiani. "Mancherà a tutti" ha twittato sabato il direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli, che ha affidato il ricordo del giornalista napoletano (con un passato professionale anche al Corriere) ad un altro mostro sacro del giornalismo italiano d'indagine, Giovanni Bianconi. E' leggendo il suo affettuoso tributo ad un amico ho ritrovato l'essenza di un giornalismo che è fatica, che è giudizio critico, che - per colpa anche nostra - si insegna sempre meno.
"Una sera d' autunno di tanti anni fa - ricorda Bianconi, citando un caso che qualche notte in bianco è costata anche a me - ci ritrovammo insieme al palazzo del Viminale, ministero dell' Interno, il corridoio dove si affacciano gli uffici dei vertici della polizia. Era in corso il sequestro dell' industriale Giuseppe Soffiantini (imprenditore tessile di Manerbio, ndr), e gli investigatori pensavano di aver localizzato nei boschi della Toscana dov' era tenuto l' ostaggio. Era tardi, avevamo già consegnato l' articolo di giornata, ma bisognava saperne di più per quelli dell' indomani. A mezzanotte passata la nostra «fonte», prima di spegnere le luci e andare a casa, ci confidò che nelle ore successive avrebbero tentato un blitz. Io e Peppe ci guardammo in faccia. «Andiamo?», disse lui. «Ma lo vedi che ora è?», provai a dire. «Embè?». Poco dopo eravamo sull' autostrada, dove incrociammo le colonne di macchine della polizia che si avvicinavano al luogo dell' operazione. Arrivammo prima dell' alba, ma non servì a nulla. Il tentativo di liberare il sequestrato andò a vuoto, e aver passato la notte in bianco per giungere che era ancora buio in un posto dove non vedemmo accadere niente, fu perfettamente inutile. «Però abbiamo fatto bene», disse lui con un sorrisetto, quando ormai era giorno pieno, allungandosi sul sedile della macchina con un giornale sul viso, per dormire qualche quarto d' ora. Aveva ragione. Quel tentativo notturno, fatto sulle forze, fu inutile. Ma poteva non esserlo, e dunque bisognava provarci. È una delle regole di questo lavoro: non lasciare nulla di intentato - nemmeno le iniziative più astruse - per inseguire un fatto, raccogliere qualche dettaglio in più. E in questo Giuseppe D' Avanzo è stato davvero un maestro".
Un maestro umile ma mai appagato, come deve essere un giornalista con i gradi conquistati sulla strada. Ne parlavo ieri in redazione: avrei voluto ritargliare il pezzo di Bianconi e affiggerlo in bacheca, fra i turni di chiusura e i comunicati sindacali, affinchè lo leggessimo tutti, noi "vecchi" un po' sfiancati dalla routine, un po' distratti dalla banalità del quotidiano, come i giovani che pensano al giornalismo come a un lavoro con i suoi ritmi e i suoi orari e non ad una professione con i suoi talenti da far fruttare e una vocazione da coltivare.
Ha ragione forse Piero Colaprico quando su Repubblica ha scritto che: "I più giovani, quelli che credono di apprendere le notizie soprattutto da Internet, forse collegano D'Avanzo all'ultima stagione dello scandalo-Berlusconi. Alle sue "Dieci domande" sulla relazione tra il premier e la minorenne napoletana Noemi Letizia, che hanno fatto il giro del mondo, riprodotte da migliaia di media. E poi alle sue "Dieci bugie", scaturite dalle indagini, anche in strada, sui rapporti tra Berlusconi, Ruby Rubacuori e le altre ragazze che frequentavano le feste di Arcore. Ma D'Avanzo era uno che, come si dice, "non guardava in faccia nessuno" e dagli anni Ottanta, tra scoop da prima pagina e inchieste, ha modificato - e sul serio - uno stile giornalistico. Era l'unico a potere e sapere mescolare la cronaca, costruita e impreziosita da notizie esclusive, con i suoi commenti, le analisi, le "visioni". Eppure, decennio dopo decennio di fatiche e di strade - il tempo del giornalista che ama la cronaca è sempre intenso - D'Avanzo era rimasto esigente con se stesso, con le notizie, con la qualità nella scrittura degli articoli. "Quando funzionano, devono fiorire", diceva Giuseppe D'Avanzo, 58 anni da compiere, una quercia di giornalista, e di persona".
Fatiche e strade, gesti e condotte che dovremmo riscoprire e far riscoprire con umiltà per far rinascere la passione. La passione per un giornalismo vero, genuino, onesto e mai sottomesso, che non dimentica i fondamentali che tutti dovremmo avere nel dna. Come li aveva Giuseppe D'Avanzo.
Uno che "da opinionista affermato - conclude Bianconi sul Corriere - continuava a battere questure, tribunali e studi di avvocati alla ricerca di dettagli che potessero dare un senso alla storia che voleva raccontare, o alla tesi che intendeva sostenere. Come un cronista alle prime armi. Fino a scherzarci su, per esempio quando ci ritrovammo nella sala d' attesa di una stazione dei carabinieri dell'hinterland napoletano, per rincorrere le orme di chi aveva ammazzato e bruciato il cadavere di un ragazzino di nove anni. Si stava facendo tardi e noi stavamo ancora aspettando, stanchi e un po' sfiduciati. «E pensare che io ho un contratto da editorialista», disse prendendosi in giro. Ma bisognava stare lì. Poteva servire. E servì".



I LINK

LEGGI IL RICORDO DI GIOVANNI BIANCONI SUL CORRIERE

QUELLO DI PIERO COLAPRICO SU REPUBBLICA

IL RACCONTO DI ROBERTO SAVIANO

IL TRIBUTO DI GIANLUCA DI FEO (L'ESPRESSO)

L'EDITORIALE DI EZIO MAURO

FEDERICO GEREMICCA SU LA STAMPA

DONATELLA STASIO SUL "SOLE 24 ORE"

martedì 26 luglio 2011

Tuffi

I tuffi sono la metafora della vita: un salto nel vuoto e l'incognita di quanto l'acqua sia alta più sotto. Possono essere il brivido e la scommessa che aiutano a vivere, possono trasformarsi nell'azzardo che ti inghiotte in un buco nero. I tuffi sono la metafora di questa estate sull'orlo del baratro, dove può capitare che un tipo alto e biondo faccia una strage da far impallidire il più oltranzista dei talebani, dove cammini su una cresta appuntita e stretta e qualcuno ti sussurra nell'orecchio la parola che tutti temono: default. Chissà che senso fa tuffarsi nel gorgo di un Titanic che affonda?  Tutti dicono "tranquilli", ma l'orchestra si sente suonare in lontananza: l'estate non è poi così torrida, ma l'inverno potrebbe essere glaciale.
Tuffarsi nel vuoto libera la voglia di scommettere su se stessi. Quest'estate ho fotografato un  gruppo di giovani tuffatori lanciarsi dalle rocce a picco sul mare della Costa Azzurra: ammiravo il loro coraggio, ma temevo la loro incoscienza. Un po' come questa Italia che non si capisce bene dove voglia andare, in quali acque voglia tuffarsi. Il timore è che l'acqua sia troppo bassa...