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lunedì 31 gennaio 2011

Da Tettamanzi al Guardian: lezioni di giornalismo

Dionigi Tettamanzi da www.chiesamilano.it
In questi giorni in cui chi condivide con me una professione non sempre facile sta guadando il fango di un'Italia che meriterebbe ben altri scenari, viene da chiedersi se siamo ancora capaci di raccontare il mondo che ci sta accanto. Ne parlavo giusto una settimana fa con alcuni colleghi prendendo ad esempio la crisi economica che ancora ci agita: siamo stati capaci di raccontarla in modo efficace? Puntuali sì nel registrare i bollettini sindacali fatti di vertenze e, spesso, di chiusure e le messe cantate istituzionali in cui si promettevano grandi interventi che si sono rivelati bruscolini, ma non sempre efficaci nel riferire il disagio delle famiglie, le lotte dei lavoratori, le storie spesso minoritarie di chi stava ai margini dei grandi giochi, ma che non per questo non dovevano essere raccontate.
Siamo stati dei mediatori credibili e completi della realtà? E' un tema sul quale vedo un giornalismo sempre più distratto, sempre più impaurito, sempre più stanco. Un giornalismo che tende ad identificarsi con le tesi piuttosto che con i fatti. Così raccontiamo spesso una realtà dalle parole dei politici, abbeverandoci ai comunicati stampa, alle conferenze piene di flash e di microfoni, perdendo il senso dei fatti, o meglio, raccontando solo una realtà parziale, spesso gratificante per chi la racconta, ma palesemente incompleta per chi la legge sui giornali, al bar come sulla panchina del parco. L'esempio classico (giusto per non parlare di politica, ma andandoci vicino) è il tema emergenza criminalità che affiora nelle cronache come le fasi lunari nel calendario: con regolarità. Ma non perchè vi siano improvvise recrudescenze o perchè il problema sia definitivamente risolto, ma semplicemente perchè l'allarme o la quiete apparente sono funzionali ad una tesi e non ad un fatto. Basta poco per capirlo: basta sentire la gente, raccontare di interi quartieri visitati dai ladri per comprendere che gli incontestabili sforzi non hanno risolto il problema; basta uscire da una conferenza stampa delle forze dell'ordine e chiedere agli agenti che controllano il territorio come è andato il turno per sentirsi dire, come è capitato a me, rimasto vittima di un tentativo di furto: "questa notte i ladri ci hanno fatto impazzire".
Ma dovremmo raccontare la realtà, anche quella scomoda ai potenti, senza tentazioni da notizia spettacolo, senza costruirla ad uso e consumo dei lettori.
Lo hanno spiegato sabato a Milano due giornalisti autorevoli come Enrico Mentana e Mario Calabresi e un cardinale illuminato come Dionigi Tettamanzi. Insieme celebravano San Francesco di Sales, patrono dei comunicatori, in un confronto ricco di spunti.
«Nel caso Ruby, per esempio, cos’è il fatto? - ha spiegato Mentana - Il caso giudiziario o il quadro dei “valori” di una generazione che emerge dalla vicenda? Dovremmo piuttosto chiederci se comportamenti come questi sono poi così distanti dalla società. O quanto questi valori non verranno assorbiti dai tanti laureati di belle speranze, delusi perché costretti a lavorare in un call center».
Ma dove stanno le notizie vere? «Un Paese che sembra preda di un litigio isterico permanente. Personalizzazione, esasperazione, drammatizzazione, contrapposizione sono il “sale” con il quale si tenta di dare sapore a una realtà che, altrimenti, si ritiene destinata all’inevidenza - ha osservato il cardinal Tettamanzi -.È importante che i media svolgano anche questa funzione di denuncia, ma occorre porgere queste notizie con responsabilità, così che non appaia che nulla funziona, che tutto è corrotto, che la situazione è irreparabile. Dai mezzi di comunicazione emerge una classe politica che tende a mettere al centro della propria azione le vicende personali dei suoi più diversi protagonisti. Certo, nessuno chiede di tacere episodi, fatti, denunce, indagini che riguardano quanti sono chiamati ad animare e guidare il Paese e dai quali tutti attendono esemplarità, nel pubblico e nel privato. Ma giornali e tv contribuiscono davvero a costruire e a promuovere la pubblica opinione, quando si lasciano contagiare dal clima avvelenato e violento causato da una politica che dimentica o sottovaluta i bisogni reali e concreti delle persone?. Quindi non si tacciano gli scandali (veri o presunti), ma l’informazione non può, non deve esaurirsi al racconto di scandali».
Così il cardinale ha chiesto più attenzione al sociale, ai problemi della gente, ai temi veri, anche se, giornalisticamente parlando, miti.
"Forse dobbiamo metterci d’accordo su cosa è sociale - risponde Calabresi-. La scuola è sociale? Gli asili nido che mancano sono sociale? La discarica è sociale? Anni fa la politica era l’asse portante di un giornale. Ma allora la politica incrociava di più la vita delle persone, oggi è più che altro scontro polarizzato. Il segreto è rendere sociale anche la politica. Come ha detto il cardinale Tettamanzi nel suo intervento, i lettori sono persone reali con bisogni reali. Bisogna partire da questi bisogni, leggendo gli effetti che le scelte della politica possono avere sulla vita di tutti i giorni, quindi sulla società».
Quale sarà il futuro del giornalismo? Riusciremo a raccontare la realtà?
«Ci sono modelli alternativi di vita da raccontare - ha concluso Tettamanzi -. Ci sono persone e comunità che attendono di essere narrate perché hanno intuizioni, progettano, studiano, lavorano, conseguono successi... Mostriamo il Paese che “ce la fa”, l’azione di quanti operano per uscire dalla crisi morale, sociale, politica, economica... Non serve creare ingenue rubriche di buone notizie, ma recuperare passione per la vita reale della gente, aiutarla a ripartire, sostenerla nel suo darsi da fare... Torniamo a guardare alla possibilità di un futuro migliore... Non rassegniamoci!».
E non si rassegnano nemmeno Mentana e Calabresi: «Quello che stiamo vivendo non è il periodo più nero della storia del giornalismo in Italia. Ci saranno pure le pressioni degli editori e della pubblicità, ma ciascun giornalista è responsabile delle sue azioni. E io credo che ci siano ancora professionisti che hanno la schiena e lo stomaco per sopportare qualche pressione».
Insomma il cammino è in salita, ma la fatica non è alla portata di soli iron-man. Intanto vi propongo qui sotto (tratti dal sito dell'Ucsi, i cronisti cattolici italiani) i 25 comandamenti del giornalismo redatti da Tim Radfort, free-lance dell'inglese Guardian, per un buon giornalismo. Radfort li ha usati per le sue lezioni di giornalismo, noi li leggiamo perchè non si finisce mai di imparare.

Tim Radfort
MY 25 COMMANDAMENTS FOR JOURNALISTS
di Tim Radford
1.Quando ti siedi a scrivere c' è una sola persona veramente importante nella tua vita. E' qualcuno che tu non incontrerai mai ed è chiamato lettore.
2. Non scrivi per far colpo sullo scienziato che hai appena intervistato, né per il professore che ti ha seguito all' università, o per il direttore che ti ha bocciato o per quella tipa sexy che hai appena incontrato a una festa e a cui hai detto che sei uno scrittore. Oppure per tua madre. Stai scrivendo per colpire qualcuno appeso a una maniglia della metro fra Parson's Green e Putney, che forse smetterà di leggere in un quinto di secondo.
3. Quindi, la prima frase che scriverai sarà la frase più importante della tua vita, e così la seconda, e così la terza. E questo perché, se tu puoi sentirti obbligato a scrivere, nessuno si potrà mai sentire obbligato a leggere.
4. Il Giornalismo è importante. Ma non deve, mai, sentirsi e mostrarsi importante. Niente spinge un lettore a rifugiarsi alla pagina delle parole crociate o a quella dei risultati dell' ippica più della pomposità. Quindi parole semplici, idee chiare e frasi brevi sono vitali nella narrazione giornalistica.
5. C' è una frase da incidere sul cartello che appenderai sulla tua macchina da scrivere: ‘'Nessuno mai protesterà se renderai un fatto più semplice da capire''.
6. Ed ecco un' altra cosa che dovrai ricordare ogni volta che ti siedi davanti alla tastiera: ‘'Nessuno ha il dovere di leggere questa merda''.
7. Se hai dei dubbi, parti dal fatto che il lettore non sa nulla. Ma non fare mai la sciocchezza di giudicarlo stupido. Un errore classico nel giornalismo è di sopravvalutare quello che il lettore sa e di sottovalutare invece la sua intelligenza.
8. La vita è complicata, ma il giornalismo non può essere complicato. E' proprio perché i problemi - medicina, politica, finanza - sono complicati che i lettori si rivolgono al Guardian, o alla Bbc, a Lancet, o alle vecchie pagine di giornale con cui si avvolge il pesce nelle pescherie e gli acquisti ai self service, sperando che li renderanno più semplici.
9. Quindi, se una questione è aggrovigliata come un piatto di spaghetti, tratta il tuo articolo come se fosse uno degli spaghetti, estratto dal groviglio. Rispettando la ricetta, con olio, aglio e salsa di pomodoro. Il lettore ti sarà grato perché gli hai dato la semplicità di una parte e non la complessità del tutto. Questo perché: a) il lettore sa bene che la vita è complicata, ma è contento di avere per lo meno un aspetto che è stato spiegato chiaramente e b) perché nessuno leggerebbe mai un servizio che annuncia: ‘'E' una vicenda inspiegabilmente complicata...''.
10. Una regola. Un articolo deve raccontare solo una cosa. Se hai di fronte quattro aspetti di una vicenda, intrecciali attorno alla cosa principale che devi raccontare. Puoi utilizzarne dei frammenti nel tuo articolo, ma solo se puoi farlo senza doverti staccare troppo dal racconto che hai scelto di seguire.
11. Una osservazione. Non cominciare a scrivere fino a quando non hai deciso qual è il senso della storia e cerca di formularlo con te stesso in una frase. Quindi chiediti se tua madre riuscirebbe ad ascoltare questa frase per più di un microsecondo senza riprendere a stirare. Quando dovrai vendere al direttore di un giornale una idea per un articolo, avrai lo stesso livello di attenzione, e quindi fai attenzione a quella frase. Spesso, non sempre, sarà la prima frase del tuo articolo.
12. C' è sempre un attacco ideale per qualsiasi articolo. Esso aiuta veramente a pensare a quello che viene dopo, perché scoprirai che le frasi successive si scrivono quasi da sole, molto velocemente. Non significa che tu sei semplicistico o superficiale. Oppure di gran talento. Significa solo che hai scritto la frase giusta.
13. Definizioni come queste non sono degli insulti per un giornalista. Il punto essenziale per chi paga per un giornale è avere delle informazioni che scivolano via facilmente e velocemente, senza troppe note, riferimenti oscuri e note alle note.
14. Parole come ‘'sensazionale'' o ‘'futile'' non devono far storcere il muso a un giornalista. Leggi quello che leggi - teatro elisabettiano, romanzi russi, fumetti satirici francesi, thriller americani - perché qualcosa nelle loro pagine stimola sentimenti di eccitazione, o di humour, il romanticismo o l' ironia. Il buon giornalismo dovrebbe darti appunto la sensazione di humour, di eccitazione, di intensità o di sapore piccante. Superficiale è uno degli insulti preferiti dai professoroni. Ma anche loro si appassionano delle loro materie prima di tutto perché vengono attratti da qualcosa di luccicante, appariscente e, è vero, di futile.
15. Le parole hanno un significato. Rispettalo. Guarda sul dizionario, scopri come vengono usate. E usale con proprietà. Non pavoneggiarti dietro la tua ignoranza. Non infilarti d'impulso in un sentiero impervio senza prima chiederti in che modo sarai capace di aprirti una strada.
16. I cliché, nell' istruzione classica del mondo dei quotidiani, devono essere evitati come la peste. Tranne quando sono il cliché adatto. E' sorprendente scoprire quanto sia utile un cliché, quando viene usato giudiziosamente. Perché il giornalismo non è tanto essere bravo quanto essere veloce.
17. Le metafore sono grandi cose. Ma non scegliere metafore astruse e mai, mai, mischiarle. La ciurma del Guardian aveva un Premio speciale , una sorta di Oscar dell' incompetenza, assegnato a un cronista di relazioni industriali che aveva spiegato al mondo che ‘'alcuni gatti selvaggi al Congresso delle Trade Unions erano appostati nel sottobosco, pronti a balzare come dei pirana, nonostante avessero la museruola''. E George Orwell raccontava di un poliziotto militare secondo cui ‘'la piovra dell' oppressione fascista aveva intonato il suo canto del cigno''.
18. Attenzione alle pose. Quando Mosé ordinò ai suoi comandanti di uccidere i Madianiti non lo fece per dimostrare che lui era un vero duro. (...). Il linguaggio del pub o del bar ha i suoi ritmi, il suo codice corporeo, i suoi sistemi di segnalamento. Il linguaggio della pagina non ha accentuazioni, non ha le tonalità che possono indicare scherzo o commedia o autoironia. Deve essere diretto, chiaro e vivido. E per essere diretto e vivo, deve seguire la propria grammatica.
19. Attenzione alle parole lunghe e incomprensibili. Attenzione al gergo. Se scrivi cose scientifiche questo è doppiamente importante. Devi bandire le parole che gli esseri umani normali non userebbero mai, come fenotipo, mitocondrio, inflazione cosmica, distribuzione di Gauss o isostasia. Non cercare di sembrare ‘'sfavillante'' o ‘'al settimo cielo'', basta essere brillante e felice.
20. L' inglese è meglio del latino. Tu non stermini, tu uccidi. Tu non ‘'sbavi'', tu sei innamorato. Tu non deflagri, bruci. Mosè non disse al Faraone:''La conseguenza della mancata liberazione della popolazione di un particolare soggetto etnico potrebbe determinare alla fine qualche particolare affezione alle colonie di alghe nel bacino centrale del fiume, con delle conseguenze impreviste per la flora e la fauna, e anche per i servizi ai consumatori''. Disse invece: ‘'le acque del fiume...si trasformeranno in sangue, e i pesci del fiume moriranno, e il fiume puzzerà''.
21. Ricorda che le persone vengono colpite da quello che è più vicino a loro. I cittadini della zona sud di Londra potrebbero preoccuparsi di più per la riforma economica in Surinam che per il risultato della squadra del Millwall il sabato, ma la maggior parte di loro non lo farà. Devi accettarlo. Il 24 novembre 1963, l' Hull Daily Mail (un giornale locale della zona di Hull, nello Yorkshire, ndr) mi mandò alla ricerca di un punto di vista locale sull' assassinio del presidente Kennedy. Una volta trovato l' attacco del pezzo, che faceva ‘'Gli abitanti di Hull erano in lutto stamani per...'', potevo andare avanti tranquillamente col racconto di quello che era accaduto a Dallas.
22. Leggi. Leggi un sacco di cose diverse. Leggi la Bibbia di Re Giacomo e Dickens, le poesie di Shelley e i fumetti della Marvel e i thriller di Chester Himes e Dashiel Hammet. Guarda le cose strabilianti che si possono fare con le parole. Osserva come possono evocare per incanto interi mondi nello spazio di mezza pagina.
23. Attenzione alle cose troppo definitive. L' ultimo cavallo di Godalming (cittadina del Surrey, ndr) non sarà certamente l' ultimo cavallo del Surrey. Ci sarà sempre più o meno qualcuno più grande, veloce, vecchio, giovane, ricco o nauseante del candidato a cui hai appena affibbiato l' ultimo superlative. Salvati sempre dai seccatori: ‘'Uno dei primi...'' ti salverà. Altrimenti, per lo meno qualificalo così: ‘'Secondo il Guinness dei primati...'', ‘'L' elenco dei ricchi del Sunday Times...''. E così via.
24. Ci sono cose che il buon gusto e la legge ti impediscono semplicemente di dire per iscritto. Le mie preferite sono: ‘'Assassino assolto'' e (in un articolo sulle funzioni religiose di Pasqua), ‘'Paul Meyers, che faceva Gesù Cristo, è emerso come la star dello show''.
25. Chi scrive ha delle responsabilità, non solo di tipo legale. Puntare alla verità. Se quest' ultima è sfuggente, e spesso lo è, per lo meno puntare alla correttezza, coscienti che c' è sempre un' altra faccia della vicenda. Attenzione a chi predica l' obbiettività. Costoro sono i più elusivi di tutti. Puoi scrivere che la Royal Society sostiene che l' ingegneria genetica è una buona cosa e che l' uranio impoverito è assolutamente innocuo. Ma devi ricordarti che l' ingegneria genetica è stata inventata da persone che sono state immediatamente accolte nella Royal Society, per la loro intelligenza, da altre persone che sono già membri della società perché hanno scoperto come arricchire il combustibile delle barre di uranio e come impoverire il resto. Dunque, parafrasando Miss Mandy Rice-Davies, (una delle protagoniste dello scandalo Profumo, ndr), "Che altro potrebbero dire, non vi sembra?'
L'INTERVENTO INTEGRALE DEL CARDINAL TETTAMANZI

Tettamanzi: la scelta della responsabilità

venerdì 28 gennaio 2011

Ausmerzen e gli interrogativi ancora aperti....

Ho visto Ausmerzen, l'ultimo lavoro di Marco Paolini presentato mercoledì su La7 in occasione della giornata della memoria. Un viaggio in un dramma poco conosciuto come lo sterminio delle persone disabili. Parole come eugenetica, sterilizzazioni di massa e vite indegne di essere vissute si sono rincorse all'interno dell'ex Ospedale psichiatrico Paolo Pini di Milano. Uno spettacolo che, nell'approfondimento che ne è seguito, ha lasciato aperto qualche inquietante interrogativo. Ad iniziare da una società che in tempi di crisi continua a considerare matti e disabili un peso per la comunità che fatica, non più e non meno di come venivano indicati nella Germania nazista, che approfittava di ciò per "ripulire" la razza. Il segno che sono passati decenni ma alcune tentazioni, alcune discriminazioni, covano ancora sotto la cenere. Sono in agguato dietro l'angolo delle nostre paure.

In questa playlist lo spettacolo trasmesso da La7

martedì 25 gennaio 2011

Sopprimere i deboli: Ausmerzen


Nella settimana della memoria, aspetto di vedere il nuovo spettacolo di Marco Paolini. Lo propone domani, mercoledì 26 gennaio, su La 7. Si chiamerà Ausmerzen e sarà dedicato allo sterminio e alle sperimentazioni sui disabili: uccisi come pecore deboli e innocenti dai nazisti. Vorrei vederlo con i miei figli, perchè loro sono il nostro futuro, la nostra memoria che si perpetua, la nostra eredità che vive...

Modelli formato Arcore

Nei giorni in cui Silvio Berlusconi non si difende davanti ai giudici, ma in tv (l'ultimo show, ieri a mezzanotte su La7) coprendo di insulti i conduttori e invitando i parlamentari Pdl a lasciare la trasmissione (Iva Zanicchi ieri all'Infedele gli ha risposto picche), vorrei condividere con voi un appello di Tullio Gregory . Il filosofo si chiede con una semplicità disarmante se, indipendentemente dalle responsabilità penali, siano questi i modelli sui quali costruire un Paese. Da leggere.

I modelli sociali e quell' esempio delle feste di Arcore
Non mi interessano i risvolti giudiziari di tutto il tormentone suscitato dalle interviste e dalle intercettazioni relative alla vita notturna nella villa di Arcore. Mi interessa invece chiedere al Presidente del Consiglio e ai suoi difensori politici, non agli avvocati d' ufficio, se quelle feste - la cui realtà è ridicolo negare, basterebbe a provarla l' autorevole testimonianza di un prefetto registrata e pubblicata - possano essere proposte come modello di vita civile: se cioè gli italiani debbano guardare ad Arcore come un' icona non solo del potere politico ed economico, ma del buon gusto; se tutti debbano praticare il noto gioco del medico-paziente, ove medico sia una bella ragazza in camice vestita solo di calze bianche autoreggenti; se la giusta ricompensa per un ardito spogliarello sia un reddito esentasse consigliabile a tutte le belle ragazze; se le famiglie italiane debbano prendere come esempio la famiglia allargata del Presidente del Consiglio con i suoi stili di vita. Forse i sondaggi daranno risposta negativa a questi interrogativi singolarmente presi, salvo rivalutare in sede di giudizio politico il primato dell' uomo ricco e potente nella cui immagine ogni italiano medio vorrebbe identificarsi. La villa di Arcore verrebbe così a incarnare un modello di vita civile che il voto popolare dovrà garantire, perché nulla cambi e la campagna contro il premier venga sconfitta.

Tullio Gregory


L'ULTIMO INSULTO

venerdì 21 gennaio 2011

Giornalisti: pagine e storie che non ci sono più

Oggi è morto a 76 anni Giulio Obici, ex inviato di Paese sera, un giornalista che si era occupato nella sua carriera dei mille misteri italiani. Un professionista che aveva scelto il lago di Garda come buen retiro. Cercando notizie su di lui mi sono imbattuto in alcune pagine di Marco Nozza, storico inviato de Il Giorno, che tratteggiava una categoria giornalistica che, vista oggi, sembra tanto lontana: quella del "pistarolo", del giornalista che attraversava gli anni della strategia della tensione con il gusto per l'inchiesta, il fiuto per l'indagine. Un giornalismo fatto di scarpe consumate e chilometri macinati: senza veline, senza uffici stampa, senza timori reverenziali verso nessuno, ma con tanta autorevolezza e tanto mestiere.
Ho letto quelle pagine con un po' di nostalgia, con un po' di invidia per loro (alcuni li ho conosciuti all'inizio della mia carriera con il loro fascino e il loro carisma). Vorrei condividere alcuni stralci di quelle pagine con voi, anche se non siete giornalisti. In questi anni nei quali anche sui giornali spesso si consumano le guerre tra bande, spesso si smarrisce il principio di obiettività e di ricerca della verità mi sembra una buona lettura. Senza nostalgia, ma con la voglia di riscoprire la genuinità di un mestiere non sempre facile.

I PISTAROLI
"Eravamo una compagnia di giro, una brigata di pronto intervento, abbiamo tenuto duro per un decennio, i più testardi anche di più, poi ciascuno è tornato nel suo brodo, non siamo mai diventati una lobby, nessuno di noi ha mai indossato l'eskimo, nessuno di noi ha fatto carriera, mentre molti di quelli che indossavano l'eskimo sono diventati direttori, direttori editoriali, editorialisti, commentatori con fotina, savonarola televisivi, vignettisti buoni per tutti i giornali e tutte le stagioni, da Lotta continua al Corriere della Sera, da Repubblica a Cuore, moralisti osannati a destra, a sinistra e al centro, professionisti dell'antidietrologia, in verità fustigatori di tutte le dietrologie degli altri ed esaltatori di una, la propria.
In principio ci chiamavano, alla francese, pistards noirs (1969-1972). Fu Giorgio Pisanò a battezzarci così sul suo settimanale, il Candido, che pubblicava una rubrica dal titolo «Stupidario Stampa», con ordine d'arrivo settimanale e classifica generale. Nella classifica individuale il primo ero sempre io. Secondo: Giulio Obici, di Paese Sera. Terzo: Marco Sassano, dell'Avanti!, poi passato al Giorno. Quarto: Guido Nozzoli, anche lui del Giorno. Quinto: Giuliano Marchesini, della Stampa (lo chiamavamo Garibaldi per via della criniera). Sesto: Umberto Zanatta, di Stampa Sera. Settimo: Italo Del Vecchio, della Gazzetta del Mezzogiorno (detto Bronson per la somiglianzà con l'attore). Ottavo: Gian Pietro Testa, del Giorno. Nono: Giorgio Sgherri, dell'Unità. Decimi (a pari merito): Fabio Isman, del Messaggero, Filippo Abbiati, del Giorno e Mario Cicellyn, del Mattino di Napoli (il decano della compagnia, e l'animatore). Seguivano Marco Fini, Ibio Paolucci, Nando Pensa, Adolfo Fiorani, la Marcella Andreoli, e poi Corrado Stajano, Giorgio Bocca, Walter Tobagi, la Camilla Cederna e altri ancora che però si sentivano pistards noirs a mezzo servizio. Nello «Stupidario Stampa» avrebbe meritato un posto Gianni Flamini (futuro autore del Partito del golpe, una specie di enciclopedia di tutte le piste, in sei tomi, oltre duemila pagine), ma Pisanò non prendeva in considerazione i giornali dei vescovi, e Flamini era l'inviato dell'Avvenire, quotidiano cattolico. (...)
Passavamo per cronisti d'assalto, gente un po' matta che si divertiva a fare le pulci ai mattinali della questura, a mettere nei guai gli inquirenti incolpando i neri e chiudendo un occhio sui rossi. Non era vero. Resta il fatto che quando è scoppiata la bomba nella Banca Nazionale dell'Agricoltura di Milano, nel dicembre 1969, abbiamo difeso Valpreda fin dal primo momento non per ragioni ideologiche, ma come cronisti, facendo quelle normali indagini che sono Tabe di una cronaca (e di un mattinale) e che gli inquirenti invece non facevano. La cosa in principio ci incuriosì. Poi ci attrasse. Infine ci indignò.
Secondo noi, Pietro Valpreda non era il «mostro di piazza Fontana» come pretendevano la questura di Milano, il governo di Roma, la tivù di Stato (tramite l'esordiente Bruno Vespa) e il Corriere della Sera di Spadolini (tramite Giorgio Zicari, anche lui esordiente). Valpreda era una specie di fornaretto di «porta Cica», porta Ticinese, coinvolto in una macchinazione diabolica, e questa macchinazione, pensavamo, era stata organizzata dai servizi segreti d'accordo con chi voleva che in Italia le cose non cambiassero mai. Noi volevamo invece che le cose cambiassero, a cominciare dal modo di fare la cronaca nei giornali. Odiavamo le veline, cioè le notizie prefabbricate, l'informazione fatta piovere dall'alto. Certo che eravamo sospettosi. Presuntuosi, anche. Cocciuti. Testardi. Arroganti, mai. O quasi mai. Anche tra di noi, certo, allignava sempre qualche tipo intransigente, intollerante, fazioso, che proclamava «con i fascisti non si parla!» e si vantava di non guardarli nemmeno in faccia, i fascisti. Ma questo drappello era minuto, saranno stati tre o quattro, capitanati dalla Tiziana Maiolo, allora rabbiosa giornalista del manifesto. La maggior parte di noi si preoccupava di sentire anche le ragioni di quelli che erano schierati dalla parte contraria alla nostra: ci vantavamo di essere, e di mostrarci, giornalisti «democratici».
La televisione, allora, non era così importante, e così arrogante, come sarebbe poi diventata. Chi scriveva sui giornali aveva diritto alla credibilità indipendentemente dalla faccia che aveva, comparisse o meno sugli schermi televisivi. La gente era abituata a leggere, almeno quella che aveva la curiosità di sapere ciò che stava succedendo dietro l'angolo di casa, e perché stava succedendo, e dove ci avrebbe portati. È stato con l'affermazione della tivù privata, commerciale, che si è venuto formando il fenomeno nuovo del giornalista/conduttore/opinionista, interprete, persuasore occulto (o non occulto), predicatore, portatore di verità, giudice. Da allora in poi fu sufficiente comparire tre volte di seguito in televisione (comportandosi come si deve, televisivamente parlando, cioè secondo le regole del gradimento) per essere automaticamente considerati evangelisti da parte dei telespettatori (non più lettori) indipendentemente dalle cose sensate o meno sensate pronunciate, e per essere quindi catturati come firme da sbandierare in prima pagina, con annessa fotina, da parte di quei direttori della carta stampata che erano sempre più preoccupati di vendere il prodotto per fare contento il padrone, e sempre più spaventati da quel coso, da quell'apparecchio, che gli bruciava le notizie sotto il naso. Spaventati e, nello stesso tempo, irresistibilmente attratti. Fu così che le opinioni di quelli che non comparivano in televisione finirono con il contare sempre meno. Finché non contarono più niente del tutto".
da Il Pistarolo - Saggiatore 




Dai Balletti verdi al Bunga-Bunga e il manifesto del Puttanesimo...

Mesi fa, agli albori della vicenda Ruby, la scrittrice Michela Murgia sostenne alla Invasioni Barbariche di Daria Bignardi che "il puttanesimo è una filosofia di vita". Ora che attorno ai festini di Arcore si è scatenato l'ennesimo desolante teatrino, che dipinge un mondo di satrapi ed ex vergini dal gusto medioevale o da decadenza dell'impero romano, credo che Michela Murgia avesse fatto, nel novembre scorso, una grande opera di sintesi, distillando un concetto che ora indigna tutti.
Indigna la Chiesa che ha tardivamente scoperto, davanti alle carte di un giudice, che molti di quelli che sono sfilati al family day avevano una concezione tutta particolare di figli, famiglia, valori. Turba i maestri delle buone maniere e dei buoni consigli che si chiedono (Isabella Bossi Fedrigotti sul Corriere) "Quale immagine della vita civile stiamo offrendo ai nostri figli?". Turba i giornalisti che si chiedono fin dove puo' arrivare il naturale rispetto per il proprio datore di lavoro in una professione che fa della libertà di parola e di critica una parte fondante del proprio lavoro? "Ci sono i commentatori dipendenti e i commentatori indipendenti - scriveva ieri Beppe Savergnini sul Corriere, dopo aver piantato in asso Alessio Vinci a Matrix per la scarsa obiettività del programma sulle notizie del giorno -. Ai primi - ministeriali e aziendali - che vogliamo dire? Questo, forse: cos'altro deve fare il Capo perchè dalle vostre bocche e dalle vostre penne esca non dico una critica - per carità! - ma almeno un dubbio, una perplessità, un'obiezione?". Turba tutti questa storia che ricorda un po' quegli scandali anni '60 che a Brescia, ad esempio, finirono per essere catalogati come "Balletti Verdi", storie di sesso e festini (omosessuali) che coinvolgevano personaggi dello spettacolo a due passi dalla città. Ho ritrovato on line una frase tratta dal Giornale di Brescia sulla vicenda e, mutata un po' la prosa, potrebbe adattarsi perfettamente a commentare le feste di Arcore: «Da parecchio tempo si parlava in città di una vasta operazione intrapresa dagli organi investigativi per bloccare un dilagante circuito del vizio, in cui si trovavano coinvolti uomini di giovane e meno giovane età. Le notizie relative a convegni immorali, a trattenimenti di genere irriferibile, ad adescamenti ed a corruzioni e ricatti sono ripetutamente giunte fino a noi».
L'inchiesta nel '64 finì in una bolla di sapone con una sola condanna per favoreggiamento della prostituazione (reato ricorrente a quanto sembra) e si discusse a lungo di morale: erano gli anni '60 e parlare di omosessualità era qualcosa di più di uno scandalo.
Oggi molti sperano che la storia di Ruby finisca come quella dei balletti verdi, in una grande bolla di sapone. Più difficile, però, sarà dimenticare che al centro delle danze, al centro del bunga bunga, c'è un anziano signore che di professione fa il presidente del Consiglio.
Siamo tutti turbati dalle oltre 300 pagine dell'avviso a comparire di Silvio Berlusconi. Un atto giudiziario destinato a diventare come un libretto di Marinetti ai tempi del Futurismo, il manifesto del Puttanesimo come filosofia di vita.
Personalmente a turbarmi più dei comportamenti degli ospiti di Arcore sono quei padri che si rammaricano perchè la figlia 25enne non è la fidanzata del 70enne Berlusconi e quelle figlie che si dolgono che pur essendo state a casa del presidente del Consiglio non hanno fatto breccia nel cuore grande del premier. Che dire davanti a frasi del genere: "Magari fossi fidanzata con Berlusconi, ma purtroppo nè io nè mia sorella siamo la sua compagna... Fossi la sua fidanzata avrei risolto ogni problema economico, avrei case, palazzi, macchine, autisti, probabilmente anche un lavoro in televisione se solamente lo volessi. Berlusconi sarebbe un fidanzato eccezionale, ha conosciuto anche i miei genitori, pure loro stravedono per lui. Come me del resto" (Manuela Ferrera, ex meteorina di Rete4, in un'intervista a Daniele Bonetti su Bresciaoggi)?
Sono un moralista? No, penso che l'analisi di Michela Murgia sia azzeccata e spero, con qualche dubbio che ciò avvenga, in un nuovo potente Rinascimento.





mercoledì 19 gennaio 2011

Antonella e Salvatore, il dramma del paese reale. Lontano da Arcore

Antonella Riunno (da www.Corriere.it)
Antonella non è mai stata ad Arcore, nessuno l'ha mai invitata a quelle feste per settantenni e giovani, procaci, veline, a quelle feste di Stato. Ma Antonella, nei giorni del bunga bunga, è l'Italia che piange perchè lo Stato ballava discinto senza capire il suo dramma. Il suo dramma si chiama Salvatore, Catalano Salvatore, all'anagrafe, 55 anni, di professione operaio. Ora operaio morto. Il suo destino è stato comunicato al mondo, distratto dai festini del capo, ieri in una nota dell'Ospedale Niguarda di Milano, dove Salvatore era ricoverato dal 4 novembre scorso con ustioni sul 90 per cento del corpo. Le ustioni, si sa, sono una brutta bestia, ti lasciano nudo davanti agli eventi e gli eventi ti consumano piano piano, ti portano via, di erodono le speranze. Era già accaduto ad altri due amici di Salvatore, tutti lavoravano all'Eureco di Paderno Dugnano, un'azienda che tratta rifiuti nella quale agli inizi di novembre si verificò un'esplosione con cinque operai ustionati gravemente (in tre non sono sopravvissuti alle ferite). I giudici chiariranno le responsabilità di questa tragedia, ma per Salvatore e Antonella il dramma è ancora più profondo, più buio. Antonella, Riunno Antonella, 37 anni c'è scritto sulla sua carta di identità, era compagna di lavoro di Salvatore, è la custode dell'azienda dove è avvenuta l'esplosione. In quella casa vicino alla fabbrica Antonella e Salvatore (un divorzio alle spalle per lui) avevano deciso di ricostruirsi una vita di amore, un amore dal quale era nata Irma, una bambina di pochi anni. Un amore "clandestino" per lo Stato, visto che Antonella e Salvatore non erano sposati. Un amore che lo Stato, con l'ottusità di chi non vuol vedere e sentire, ha trasformato in clandestino a vita. Antonella e Salvatore, infatti, avrebbero dovuto sposarsi il 20 novembre, ma i progetti si sono dissolti come la pelle sul volto del povero operaio e dei suoi colleghi, svaniti in quella tremenda esplosione.
Antonella aveva sperato fino all'ultimo in quel sì sussurrato tra un soffio e l'altro di un respiratore, fra i bip del monitor che veglia sui parametri vitali. Bastava uno sguardo, un gesto d'assenso e il loro amore sarebbe uscito dalla clandestinità, la loro famiglia avrebbe avuto il "permesso di soggiorno" in questo Stato che fatica a riconoscere ciò che già c'è, a rispondere a situazioni che reclamano di essere ascoltate. «Ci sposeremo, ci sposeremo, era il nostro grande sogno, lo abbiamo sempre desiderato e lo faremo, ad ogni costo» aveva ripetuto Antonella nei corridoi dell'ospedale, accanto al sindaco di Paderno, pronto a tirar giù dal letto il funzionario comunale ad ogni ora della notte, non appena Salvatore avesse ripreso conoscenza.
Salvatore, però, è passato dalla fabbrica alla morte senza rendersene conto: non ha mai ripreso conoscenza, non è mai stato in grado di esprimere alcun consenso, nemmeno quel sì che avrebbe coronato il sogno d'amore con la sua Antonella.
Un coronamento non solo spirituale ma anche materiale, che avrebbe dissolto le incertezze che, da coppia di fatto, da famiglia senza diritti, ora si addensano su Antonella e la figlia Irma. Senza Salvatore e senza quelle garanzie che lo Stato contempla per la morte di un marito e di un padre, Antonella e Irma rischiano che il dramma sia ancora più profondo, che l'abisso ancora più duro da scalare, che la vita futura ancora più agra. Chi ringrazieranno ora Antonella e Irma? Uno Stato che ha sempre fatto finta che le coppie di fatto non fossero un problema? Uno Stato che con la scusa di preservare il matrimonio "classico" ha sempre lasciato inascoltata la voce di chi chiedeva diritti minimi perchè il futuro non dovesse più raccontare storie come quelle di Antonella e Salvatore travolti dagli eventi a due passi dal traguardo?
La storia di Antonella e Salvatore è la storia di un Paese reale e di uno Stato lontano. Di un Paese che piange a Paderno Dugnano e di uno Stato che canta ad Arcore. E la chiamano civiltà...


martedì 18 gennaio 2011

Se il Giordano si prosciuga...

Al fiume Giordano

Il luogo del Battesimo di Gesù lungo il Giordano
Non bastava il lago di Tiberiade nel quale non si pesca più in barba alle evangeliche pesche miracolose di uomini e di animali (ancora oggi il post sull'argomento è fra i più letti di questo blog). Ora anche il fiume Giordano, il fiume del Battesimo di Gesù è a rischio prosciugamento. Lo riferisce oggi il Corriere della Sera, ma non è il solo ad aver lanciato l'allarme visto che "Save the planet" mette in guardia dai rischi di un corso d'acqua ormai limaccioso e colmo di fango.
In effetti ho visitato il Giordano poco meno di un anno fa e quello che le Sacre scritture ci restituiscono come un luogo tra le fondamenta del Cristianesimo è apparso solo un rivolo maleodorante dove il battesimo diventa un rischio più che la redenzione. E non basta l'ecumenismo che si respira su quelle rive tra Israele e Giordania a restituire il misticismo di duemila anni fa. Un altro mito che si dissolve e sparisce nel fango... una storia triste che sembra quasi lo specchio della religione che rappresenta.

lunedì 17 gennaio 2011

Ruby & Berlusconi: occhio all'onda

Silvio Berlusconi


Karima El Mahroug detta Ruby


Piovono intercettazioni e indiscrezioni sul caso Ruby-Berlusconi. I siti internet si scatenano ed è - è il caso di dirlo - un bel carnaio. Come ne uscirà il Cavaliere? Non lo so e non mi interessa molto. Come ne usciremo noi italiani? Forse sopravviveremo anche a questa: l'importante è saper camminare sulla punta dei piedi, tenere la testa alta e sperare che non ci siano le onde.
Per ora, in questa pioggia di atti giudiziari, ecco qui la richiesta di autorizzazione alla perquisizione domiciliare nei confronti delle pertinenze di Silvio berlusconi  depositata dalla Procura di Milano alla Camera dei deputati.

 Caso Ruby: la richiesta di perquisione per Berlusconi



La storia di Hina in un libro


La storia di Hina Saleem, la ragazza di origini pakistane, uccisa dal padre a Sarezzo in Valtrompia l'11 agosto del 2006 è diventata un libro. Si chiama "Hina. Questa è la mia vita" (Piemme. 308 pagine, 16 euro) scritto da due giornalisti Giommaria Monti e Marco Ventura. Nel libro, oltre alla storia di questa ragazza ribelle, uccisa perchè voleva vivere all'occidentale, anche un'inedita intervista al padre Muhammad Saleem, che ha accettato di parlare dal carcere di Ivrea dove è detenuto per scontare una condanna a 30 anni di reclusione. L'uomo riflette su quello che è successo e non si pente. Ha un unico rammarico: "In Pakistan non sarebbe successo, perchè non c'è discoteca, non c'è donna libera, non come qua".



Yara Gambirasio: è giusto il silenzio?

I famigliari di Yara Gambirasio, la ragazza di 13 anni, scomparsa ormai da una cinquantina di giorni in provincia di Bergamo, e il sindaco di Brembate di Sopra, Diego Locatelli, hanno chiesto agli organi di informazione il silenzio stampa e alle troupe televisive di togliere il disturbo da via Rampinelli, la strada nei pressi della casa della ragazzina fino a ieri popolata di fly (i furgoni con le parabole per le trasmissioni via satellite) e telecamere. Una richiesta, hanno spiegato, per fermare la morbosità e le illazioni su questa vicenda, i falsi scoop e le ipotesi spesso fantasiose che hanno popolato questi cinquanta giorni di vane ricerche. Un'accusa che ha toccato soprattutto le tv, dove la vicenda continuava a popolare i pomeriggi in diretta e dove diventa necessità mediatica, per reggere la lunga distanza, vivisezionare ogni piccolo indizio, ogni piccolo sussurro, anche se destinato a spegnarsi nel giro di poche ore o in una semplice smentita.
Ma è giusto il silenzio su un caso come quello di Yara Gambirasio? E' la scelta migliore? E' sicuramente una richiesta strana, fuori dagli schemi classici: il silenzio stampa viene chiesto, su indicazione degli inquirenti, nei casi di sequestro di persona a scopo di estorisione sin dalle prime battute della vicenda in modo da poter stabilire un contatto in tranquillità e per evitare che fughe di notizie compromettano le trattative. Qui sono ormai trascorsi quasi due mesi e se di sequestro di persona si è trattato, l'estorsione non sembra il fine al quale mirano i rapitori. Dunque la richiesta di silenzio stampa arriva dalla famiglia e da un paese comprensibilimente esasperati e devastati da una tensione che sfianca. Ma siamo sicuri che la richiesta non giustificata da esigenze di indagine sia la scelta migliore per la famiglia? Siamo sicuri che spegnere completamente i riflettori  su questa vicenda non voglia dire spegnere anche l'attenzione sulle sorti di Yara?
Ma siamo sicuri che senza telecamere e taccuini gli sforzi investigativi non finiscano, nel giro di qualche giorno, per diventare semplice routine, sicura anticamera di ogni caso insoluto? Basti vedere come l'indagine ha mosso i primi passi, con i suoi balbettamenti, i passi falsi, gli errori, per capire quanto la presenza massiccia dei media abbia imposto agli stessi inquirenti (sempre attenti all'immagine pubblica del loro lavoro) un salto di qualità con la messa in campo degli esperti dello Sco della Polizia, dei Ros dei Carabinieri, con le tecniche che siamo abituati a vedere nei telefilm di Fox Crime.
Forse, più che nuocere al caso, l'attenzione dei media, sia pur con tutte le distorsioni e gli eccessi della categoria, è servita di stimolo, di sollecitazione, è servita a far sentire meno sola anche la famiglia Gambirasio. Insomma: temo che senza i riflettori delle dirette la notte di Brembate possa essere più buia e più fredda per tutti. Su L'Eco di Bergamo il direttore Ettore Ongis ha scritto ha firmato un intervento sul tema carico di umanità e di buon senso, che, da giornalista, mi sento di condividere. Eccolo:

Aderiamo alla richiesta della famiglia Gambirasio di far calare il silenzio stampa sul caso di Yara, pur senza nascondere che lo facciamo a malincuore. Avremmo preferito continuare a tenere informata l'opinione pubblica e la popolazione bergamasca sugli sviluppi di questa tristissima vicenda, e di farlo con la misura, l'attenzione e la partecipazione con cui abbiamo cercato di seguirla in questi 50 giorni.
Da lunedì sia sul giornale che sul sito internet non daremo più notizie relative all'inchiesta - a meno che non si venga a conoscenza di una svolta nelle indagini - limitandoci a riferire di iniziative pubbliche o di testimonianze di affetto e solidarietà che sappiamo essere in programma nei prossimi giorni.
La scelta della famiglia, condivisa dalle autorità di Brembate Sopra e dagli inquirenti, scaturisce da un giudizio negativo su come una parte dell'informazione, e in particolare quella televisiva, ha trattato (purtroppo in molti casi maltrattato) le poche notizie su Yara, la comunità di Brembate e alcune realtà chiamate in causa anche se totalmente estranee ai fatti.
Ci sono stati colleghi che hanno diffuso informazioni infondate, seminato sospetti, elaborato teoremi, col rischio reale di intralciare le indagini degli inquirenti. Sotto accusa sono soprattutto certi programmi di informazione-intrattenimento nei quali, in assenza di notizie, troppo spesso sono prevalse le chiacchiere ripetute all'infinito.
Comprendiamo dunque la stanchezza di un paese che da 51 giorni vive con i riflettori puntati in faccia. Dal canto nostro, per quanto possibile, abbiamo cercato, anche partecipando ad alcuni di questi programmi, di stare ai fatti e di ridimensionare le fantasie.
Nell'assecondare la richiesta di silenzio, ci permettiamo però di fare presente alcune questioni. Innanzitutto abbiamo l'impressione che non basterà un appello a fermare i media. Il rischio potrebbe essere, paradossalmente, quello di lasciare il campo libero a chi fa un giornalismo senza tanti scrupoli, a danno di quanti invece lavorano con coscienza e rigore professionale.
C'è solo un antidoto al cattivo giornalismo, ed è il buon giornalismo. In secondo luogo, l'attenzione della stampa se da un lato rischia di essere troppo invadente, dall'altro può contribuire a non far abbassare la guardia su una vicenda che ha avuto un forte impatto sulla vita di tutti.
Ecco perché ci sembra eccessivo il perentorio invito degli amministratori a sgomberare il suolo pubblico di Brembate. Quello che non vorremmo si verificasse, è che il silenzio stampa, con l'andare del tempo, diventasse silenzio tout court. Questo sì che sarebbe grave.

Ettore Ongis

 

venerdì 14 gennaio 2011

Giornalisti "invisibili"


Copio e incollo qui una nota della Federazione nazionale della stampa che dà conto della ricerca effettuata da Lsdi (Libertà di stampa diritto all'informazione)sul mondo dei giornalisti. Emerge un mondo spesso senza garanzie, sottopagato e come tale facilmente ricattabile, con buona pace dell'indipendenza professionale e del diritto all'informazione. La ricerca è stata presentata al Congresso della Fnsi in corso a Bergamo.

Metà degli iscritti all'Ordine senza una posizione contributiva, un esercito di free-lance che dichiara meno di 5000 euro lordi l'anno, un impoverimento delle più numerose fasce di reddito intermedie a vantaggio di quelle medio-alte, un progressivo invecchiamento della popolazione giornalistica e infine una progressiva avanzata delle donne, con la persistenza di un gap di carattere economico. Sono le condizioni della professione giornalistica fotografate in una ricerca di Lsdi (Libertà di stampa diritto all'informazione) compiuta sui dati forniti da Inpgi, Ordine e Fnsi relativi al 2009. Lo studio è stato più volte citato nel corso del Congresso della Federazione della Stampa in corso a Bergamo.
GLI INVISIBILI
Su due giornalisti iscritti all'Ordine solo uno risulta attivo nella professione. O almeno è 'visibile', nel senso che è titolare di una posizione contributiva all'Inpgi, in quanto lavoratore dipendente o autonomo. Al 31 dicembre 2009, su 108.437 giornalisti ufficiali, gli 'attivi' erano 49.239: il 50,17% degli iscritti se si escludono albo speciale e stranieri, e il 45,4% se si considerano anche questi ultimi. Il lavoro dipendente è ancora maggioritario, almeno formalmente: conta infatti 26.026 giornalisti (il 52,86%), contro i 23.213 autonomi. Gli 'invisibili' sono, nella grandissima maggioranza pubblicisti: dei 62.155 pubblicisti presenti nell'Ordine solo 4.086 risultano all'Inpgi come lavoratori dipendenti e 19.626 come lavoratori autonomi.
I FREE LANCE
La ricerca evidenzia ''una vistosa spaccatura fra lavoro dipendente e lavoro autonomo, che si intreccia col
precariato dai 2,50 euro lordi a notizia e con tutto quel variegato mondo del lavoro sommerso che ruota all'esterno delle redazioni o è addirittura la base produttiva nei nuovi media''.
Nel 2009, mentre solo un lavoratore subordinato su 3 aveva un reddito annuo inferiore ai 30.000 euro lordi, più della metà degli autonomi dichiaravano un reddito annuo inferiore ai 5.000 euro.
I REDDITI
Fra il 2000 e il 2009 i redditi fra 50 a 60.000 euro sono scesi dal 10,13% al 7,77%, quelli fra 60 e 70.000 sono calati da 9,6% a 6,8% e quelli fra 70 e 80.000 euro da 7,39% a 6,24%. Mentre sono cresciuti in percentuale gli
stipendi più 'ricchi': dal 9,54% al 12,5% nella fascia da 90 a 130.000 euro e da 2,8% a 6,22% per i guadagni superiori ai 130.000 euro. Nel campo del lavoro autonomo, il 55,25% dei giornalisti iscritti dichiara complessivamente entrate sotto il 5.000 euro lordi annui, la stessa percentuale del 2000.
UNA PROFESSIONE CHE INVECCHIA
Fra i giornalisti subordinati, le posizioni relative a redattori con meno di 40 anni, che nel 2000 erano oltre la metà (il 50,67%), sono scese al 40%, mentre quelle relative a redattori con oltre 50 anni sono passate dal 17,3% del 2000 al 25,77% del 2009. Per quanto riguarda l'Inpgi2 si registra una netta diminuzione percentuale,fra il 1997 e il 2009, degli iscritti con meno di 30 anni (dal 20,2 al 12,18%) e di quelli fra i 30 e i 40 anni (dal 42,37 al 35,19%), accompagnata invece da un aumento degli iscritti fra i 40 e i 50 anni (dal 22,9 al 29,9%), di quelli fra i 50 e i 60 anni (dal 12,3 al 16,34%) e di quelli con 61 anni e oltre (dal 2,4 al 6,39%).
AVANZANO LE DONNE
Sul piano del lavoro subordinato, nel 2009 le donne erano il 40,71% - contro il 9,3% del 1975 -, ma rappresentavano il 43,02% dei rapporti di lavoro nelle fasce di reddito più basse (entro i 30.000 euro annui) e soltanto il 15,08% dei salari nelle fasce di reddito alte, sopra gli 80.000 euro annui.


Chi volesse leggere l'intera ricerca può scaricarla cliccando qui. Oppure leggerla qui sotto.

Giornalismo: il lato emerso della professione

Kalispera tra crociere, cashmere e qualche bufala


Alfonso Signorini è un simpatico giornalista esperto di gossip, dirige due giornali (il mitico Tv Sorrisi e canzoni e Chi) dicono sia un influente consigliere del premier Silvio Berlusconi ed è approdato in tv (dove è spesso ospite e commentatore) con una una trasmissione tutta sua su Canale 5: Kalispera. Buon esordio di ascolti (qualcuno l'ha definita la risposta gay friendly al "Porta a Porta" di Vespa), ma con un paio di infortuni che fanno sorridere se non fossero all'interno di un progetto di comunicazione politica ben preciso. Alfonso Signorini, che sull'ultimo numero di Chi ha pubblicato le foto del pranzo di Natale della famiglia Berlusconi, ha preso di mira, con l'ammiccante soavità del gossipparo, Massimo D'Alema (pizzicato in gita a St Moritz) e Fausto Bertinotti in crociera in mari lontani. Ne è nato un così un dibattito sulla sciarpa di cashmere indossata dall'ex presidente del consiglio e sul viaggio alle Bahamas dell'ex presidente della Camera con un unico liet-motiv: fanno i comunisti ma amano il lusso. Sul caso a Kalispera è intervenuto anche Berlusconi spiegando che anche in cashemere restano i comunisti di sempre, secondo il vecchio adagio che si perde il pelo ma non il vizio.
Peccato che gli scoop di Alfonso siano stati smontati in poche ore: la sciarpa di D'Alema non era di cashmere e anche le scarpe le aveva acquistate al Decathlon (a St Moritz poi era in gita di un giorno, alloggiando in un paese meno nobile e più economico), mentre Bertinotti e signora erano in una delle più classiche crociere ai caraibi e non alle più lussuose Bahamas. Una crociera a prezzi scontatissimi da poco più di duemila euro in due con l'aereo pagato con i punti della tessera Millemiglia di Alitalia.
Bertinotti con i giornalisti si è anche lamentato di una cosa: "Pensavo mi chiamaste per parlare di Fiat e invece devo parlare di queste cose". Non si meravigli, signor Fausto: questa è la politica italiana, lei la conosce bene. Quella politica che (vedi il mio post di ieri) non accetta mai lezioni...

giovedì 13 gennaio 2011

La politica che non accetta lezioni


Luca Sofri autore di uno dei blog più letti in Italia, Wittgenstein, è rimasto colpito da una frase espressa l'altra sera a Ballaro' da Maristella Gelmini nei confronti di Stefano Rodotà, docente universitario, ex parlamentare di sinistra, ex garante della privacy, universalmente riconosciutà come persona preparata al di là delle idee politiche.
«Non accettiamo lezioni, non accettiamo lezioni, non accettiamo lezioni» ha detto ad un certo punto Maristella Gelmini a Rodotà che sottolineava la maleducazione degli antagonisti  (Gelmini e Cota) che avevano interrotto il suo discorso sul legittimo impedimento accusando il docente di falsità. Rodotà spiegava semplicemente che la strada maestra per risparmiare al premier i processi era quella delle riforma dell'immunità parlamentare, argomentando con valutazioni più tecniche che politiche e leggendo sentenze della Consulta.
In risposta, invece di vedere le proprie argomentazioni smontate con uguale perizia giuridica, si è sentito dare del comunista, del fazioso e del propalatore di falsità dagli interlocutori che, alla fine, hanno concluso con la classica frase "ma tanto alla gente di questo argomento non importa nulla, il governo fa cose concrete".
Riguardando i video della puntata (che posto qui sotto) ho capito una cosa: che questa politica talmente arrogante (in questo ci metto anche una certa sinistra poco incline alle critiche) da non accettare lezioni da nessuno, da non aver l'umiltà intellettuale nemmeno di ascoltare, come se il consenso popolare legittimasse tutto, ha perso l'ennesima occasione di dare al telespettatore-elettore l'occasione per capire, ascoltare in traquillità tesi contrapposte, farsi un'idea in autonomia anche su un argomento oggettivamente complesso come quello del legittimo impedimento. Invece ha vinto la banalizzazione della rissa, al dibatto. Ma, purtroppo, questo è la politica che vogliamo in un Paese che crede di essere "nato imparato" e che non è molto diverso da chi lo rappresenta.

ECCO IL DIBATTITO (lo scontro più accesso al sesto minuto)



L'ANALISI DI AGORA'



L'INTERVENTO DI CROZZA: RIDIAMOCI SU...

mercoledì 12 gennaio 2011

Giornalismi: tra promesse e sacrifici

«I giornali non moriranno, ma non stanno certo bene. Questo deve essere chiaro a tutti. I giovani li abbandonano a favore di internet, nel 2009 la diffusione è scesa ai livelli del 1939, la pubblicità è calata del 16% e nel 2009 i ricavi dei quotidiani sono calati del 20% al netto dell'inflazione. Oggi i giornalisti devono dare prova di flessibilità per lavorare anche con strumenti differenti. L'innovazione si fa con chi conosce bene il mestiere. Gli editori si salveranno solo se sapranno mettere in campo la qualità». Ho copiato qui alcune frasi dell'intervento di ieri di Carlo De Benedetti, editore del Gruppo Repubblica-Espresso, al congresso nazionale della Federazione nazionale della stampa italiana (il sindacato dei giornalisti)in corso in questi giorni a Bergamo.
Prima di addentrarsi nelle discussioni in sindacalese stretto, in questo con liturgie non troppo dissimili da quelle di un sindacato classico, il congresso ha lasciato spazio ad interventi esterni e così al contributo di De Benedetti hanno fatto seguito quelli di Fedele Confalonieri (Mediaset) e Piegaetano Marchetti (Rcs). Tutti a parlare di innovazione, cambiamento, qualità, multimedialità, di un giornalismo che potrebbe essere immortale solo se si rinnovasse.
A me sinceramente sembra di stare (con tutti i distinguo del caso, è ovvio) davanti a tanti novelli Marchionne che dicono bisogna lavorare di più (discorso corretto soprattutto nelle grandi strutture editoriali), dare più qualità (richiesta che dovrebbe essere ovvia), dare maggiori servizi e aprirsi alla multimedialità (prospettiva sensata visto che è là che il lettore si sta dirigendo). Bene, ma cosa abbiamo visto fino ad ora? Abbiamo visto tagli occupazionali (approfittando della legge sull'editoria in crisi, sono stati prepensionati centinaia di colleghi  e molte "grandi firme"), risparmi sui costi generali, persino ridimensionamento dei formati e della foliazione (migliaia di euro di carta in meno) per far fronte ad un crollo verticale della raccolta pubblicitaria. Cosa non abbiamo visto o visto poco? La salvaguardia di un patrimonio di qualità del giornalismo italiano (fior di inviati mandati in pensione a 57 anni, esperti di giornalismo di inchiesta collocati a riposo, nel nome della riduzione dei costi e non certo con un occhio al peso specifico del prodotto), gli investimenti sulle strutture multimediali tutto sommato ridotti, soprattutto sulle piccole testate, a partire da quello che dovrebbe essere la benzina per il motore (la pubblicità, che sul web continua ad essere spesso trattata da molti gruppo come la cenerentola, anche in termini di innovazione, di scoperta di nuovi mercati e di conoscenza approfondita dei nuovi linguaggi imposti dal web). Questo è lo scenario (tagli sprint di uomini e di mezzi, con calma e per piacere quando si tratta di fare investimenti), con buona pace delle dichairazioni di conquista delle nuove frontiere del giornalismo, snello, di qualità, multimediale. Insomma in questi scenari non troppo confortanti fatti di sacrifici richiesti e subiti e di tante promesse che faticano a decollare resta determinante un'opera di chiarezza sulle responsabilità di ognuno, giornalisti ed editori. Un passo determinante per capire - facendo sintesi di ogni discorso e prendendo in prestito un'esperssione utilizzata in tv l'altra sera dal vicedirettore del Corriere Massimo Mucchetti parlando del caso Fiat (vedi il post precedente) -: "chi fa il maschio e chi fa la femmina". Per evitare che a qualcuno rimangano i benefici e ad altri solo i sacrifici.

martedì 11 gennaio 2011

Quarto stato: il caso Fiat


"Bisogna capire chi fa il maschio e chi fa la femmina". Massimo Mucchetti , vicedirettore del Corriere della Sera, ex giornalista di Bresciaoggi, usa questa metafora di schietta brescianità per porsi in maniera critica e realistica davanti alla proposta fatta da Sergio Marchionne ai sindacati di Fiat Mirafiori e sfociata in un accordo che ha diviso gli operai e le organizzazioni che li rappresentano (o che almeno tentano di farlo), da una parte la Fiom-Cgil che non ha firmato l'accordo, dall'altro Fim-Cisl, Uilm, Fismic (il sindacato autonomo dei metalmeccanici, discretamente rappresentato in Fiat) che hanno messo la loro firma sull'intesa ora al vaglio di un referendum che secondo il manager con residenza in Svizzera o avrà esito positivo o la produzione si sposta altrove.
Difficile fare accademia quando di mezzo c'è il futuro di cinquemila lavoratori, molti dei quali voteranno sì con la consapevolezza che quell'accordo, rivoluzionario per le liturgie e gli assetti che scardina (Mirafiori uscirà, ad esempio, dal Contratto collettivo nazionale), è l'amaro calice per conservare un posto di lavoro da poco meno di mille euro al mese. Difficile dire dei no o dei sì dalla sedia di chi (lo ribadisce lo stesso Mucchetti) ha buste paga ben diverse da quelle di un dipendente di Mirafiori. Ieri sera ho cercato di capirne di più approfittando di un approfondimento offerto da l'Infedele, il programma che Gad Lerner  su La 7. Variegato il parterre da Massimo Mucchetti a Lucia Annunziata, da Maurizio Landini (il leader della Fiom) ai sindacalisti e delegati della fabbrica torinese, da autorevoli economisti all'ex sindaco di Milano, l'imprenditore metalmeccanico ed oggi eurodeputato Gabriele Albertini.
Alla fine di tutta la discussione, però, continua a mulinarmi in testa la considerazione di Massimo Mucchetti su chi fa il maschio e chi la femmina in questa storia. Secondo me è fondamentale capire questo: perchè se salutiamo Marchionne come un innovatore, uno che è pronto a restituire competitività all'industria italiana, a scardinare tabù come le assenze per malattia (leggetevi cosa dice l'accordo in proposito), dobbiamo assolutamente comprendere ad esempio quanto in questa battaglia ci sia di impegno verso lo sviluppo dell'industria automobilista in Italia (ma c'è ancora - si diceva in tv - l'industria dell'auto nel nostro Paese?) e quanto di ammiccamento verso gli investitori, verso la Borsa, un tema sul quale, in tempi di stock options, lo stesso Mucchetti ha aperto più di un fronte parlando sul Corriere di conflitto di interessi.
Una partita difficile e complessa sulla quale un Governo che governi non può chiamarsi fuori, non può non dire cosa si può fare e cosa no, non può non cercare di capire, in una simile situazione quanto sia salutare aprire il mercato dell'auto alle manifestazioni di interesse che già sono arrivate dall'estero. Lo hanno fatto Obama e la Merkel, il governo italiano, invece, ha preferito lasciare gli operai in mezzo ad un guado che ha tutte le insidie di un ricatto.
Il giorno dell'Epifania ho visitato il nuovo Museo del '900 di Milano, allestito in piazza Duomo nei locali dell'Arengario: il percorso espositivo si apre con il quadro di Giuseppe Pellizza da Volpedo dal titolo "Il Quarto Stato". Guardavo quell'opera dipinta nel 1901 con il nome originario de "Il cammino dei lavoratori" e non ho potuto fare a meno di pensare ai cancelli di Mirafiori, immortalati in tanti servizi tv ad inizio e fine turno, e di chiedermi: dove vanno oggi i lavoratori? Dove va quel "Quarto Stato" che Marchionne sta mettendo con le spalle al muro? Quel gruppo di uomini e di donne oggi ha smesso le giacche e i cappelli di inizio '900 e ha indossato la tute blu, ma è ancora solo come se un secolo non fosse passato invano. Solo, perchè negli anni, per l'inettitudine di tanti, ha perso un garante importante di quel cammino costellatto di tante lotte, ma anche di conquiste. Un garante sempre meno autorevole con i potenti e sempre più arrogante con i piccoli. Lo Stato.






Testo integrale dell'accordo firmato a Fiat Mirafiori (da un opuscolo distribuito dalla Fiom Cgil davanti a...