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giovedì 25 febbraio 2010

Busi all'isola del famosi: l'intellettuale in nomination

Isola dei famosi prima puntata. Aldo Busi già deborda e finisce in nomination: il destino degli intellettuali incompresi o la giusta pena di chi si crede superiore agli altri? Oggi compie 62 anni e sembra un cavallo senza freni: sopravviverà  ai culturisti e ai bellocci, ai miti sfioriti e ai tronisti? Alla prossima settimana...

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mercoledì 24 febbraio 2010

Suicidio in carcere a Brescia: se la sconfitta è di tutti

Suicidio in carcere a Brescia, l'ottavo dall'inizio dell'anno in Italia in un bollettino di guerra che non sembra aver fine visto la fine (anche oggi le cronache devono registrare altre due morti nei penitenziari italiani), in un triste inventario che, comunque lo si guardi suona come una sconfitta, come l'affossamento di tanti sforzi, come la resa di un volonteroso Davide contro un Golia bulimico che ingoia tutto in gironi che sembrano un inferno dantesco.
Ecco la lettera che Carlo Alberto Romano, docente di criminologia, presidente dell'associazione Carcere e territorio di Brescia, ha inviato ai volontari che ogni giorno tastano con mano quanto sia esplosiva e drammatica la vita in un carcere.

Cari volontari,

sapete come ami particolarmente e con solerzia scriverVi per comunicarVi le affermazioni di ACT, i successi ed i riconoscimenti ottenuti.
Questa volta, purtroppo, Vi scrivo per comunicarVi una sconfitta; ieri nelle CC di Canton Mombello un uomo si è tolto la vita. Non ha importanza la cittadinanza, il reato, l'età o qualsiasi altra caratteristica che i soliti benpensanti utilizzeranno per tentare di giustificare il gesto.
Io credo che non esista proprio nulla che possa giustificare la sofferenza.
La sua azione così come quella di altre decine di detenuti che giungono a togliersi la vita, è un atto di accusa contro di noi, che siamo stati incapaci di impedirlo.
E la responsabilità, certamente condivisa con un sistema assolutamente inadeguato a gestire la pena, non va sul sistema stesso scaricata.
In carcere entriamo anche noi e quindi anche noi abbiamo fallito.
Non vorrei sentire nessuno, almeno fra di noi, che dica però non c'è questo, però manca quello, si ma non sono capaci etc...
Dobbiamo solo riflettere in silenzio, rimboccarci le maniche, lavorare ancor più di prima, collaborare con gli operatori penitenziari senza pensare ad inutili e controproducenti individualismi, fare fare e fare con sempre maggior convinzione in modo che quanto accaduto ieri, non accada più.
Io, come Presidente, per primo, seguito dai Consiglieri, dai responsabili di progetto e da tutti gli altri che si sentono di dover fare qualcosa per chi non ha più nemmeno la voce per chiedere aiuto.
Allora e solo allora potremo pensare alla persona che ieri si è tolta la vita e chiederLe, se lo vorrà, di perdonarci.

Buon lavoro a tutti.
Carlo Alberto Romano
Ecco l'elenco dei suicidi in carcere nel 2010 secondo l'Osservatorio permanente sulle morti in carcere. Erano otto con la morte del ragazzo tunisino a Brescia, sono diventati dieci al termine di una giornata drammatica.

Fermo
Vincenzo Balsamo, 40 anni, uccisosi il 24 febbraio
Padova
Walid Aloui, tunisino di 28 anni, uccisosi il 24 febbraio
Brescia
detenuto tunisino di 27 anni, uccisosi il 23 febbraio
Spoleto
Ivano Volpi, 29 anni, uccisosi il 29 gennaio
Milano
Mohamed El Abbouby, 25 anni, uccisosi il 15 gennaio
Massa Carrara
Abellativ Eddine, 27 anni, uccisosi il 13 gennaio
Verona
Giacomo Attolini, 49 anni, uccisosi il 7 gennaio
Sulmona
Antonio Tammaro, 28 anni, uccisosi il 7 gennaio
Cagliari
Celeste Frau, 62 anni, uccisasi il 5 gennaio
Altamura
Pierpaolo Ciullo, 39 anni, uccisosi il 2 gennaio

martedì 23 febbraio 2010

Marco Paolini: la macchina del capo e tanta voglia di "latte con la pelle"

Marco Paolini oggi e domani è al teatro Odeon di Lumezzane con la Macchina del capo. Un appuntamento da non perdere per chi, almeno una volta, ha bevuto "il latte con la pelle", ha mangiato il "panino con la cotolette", ha assaporato il profumo dell'abbondanza "scarpe, salami, formaggi".


Mafia: la Lombardia ricorda le vittime innocenti

In questi giorni le cronache tornano a parlare di mafia in Lombardia e delle connivenze con le istituzioni, tra racket, grandi lavori in edilizia, controllo dello spaccio di droga. Giusto per non scordarsi cosa voglia dire mafia e criminalità organizzata anche a queste latitudine, rimando tramite questo post l'invito di Libera, l'associazione antimafia fondata da don Luigi Ciotti, a celebrare, il 21 marzo la Giornata della memoria e dell'impegno a ricordare le vittime innocenti di tutte le mafie. "Il progetto - si legge sul sito di Libera -
È la condivisione di un'esperienza e la ricerca di un modo comune di capire, elaborare il lutto e trasformarlo in impegno quotidiano, secondo la cultura del Noi e la centralità delle persone, soprattutto dei familiari delle vittime di mafia. Dal 1995 ogni 21 marzo si celebra la Giornata della Memoria e dell'Impegno per ricordare le vittime innocenti di tutte le mafie. Il 21 marzo, primo giorno di primavera, è il simbolo della speranza che si rinnova ed è anche occasione di incontro con i familiari delle vittime che in Libera hanno trovato la forza di risorgere dal loro dramma, elaborando il lutto per una ricerca di giustizia vera e profonda, trasformando il dolore in uno strumento concreto, non violento, di impegno e di azione di pace. Uno degli obiettivi è la creazione di una banca dati per restituire il diritto della memoria a coloro i quali è stato negato il diritto alla vita. Ricostruire le storie delle vittime, associando ai loro nomi un volto, per non dimenticare".
Quest'anno, per ragioni di calendario (il 21 marzo è domenica), la giornata della memoria si celebra sabato 20 ed è stato scelto Milano come luogo in cui discutere e riflettere.  "Il tema che porremo al centro della Giornata - spiegano a Libera -, sarà la dimensione finanziaria delle mafie. Troppo spesso si licenzia frettolosamente ancora oggi il problema mafie come qualcosa che riguarda solo alcune regioni del Sud Italia. Sappiamo per certo che non è così, che oggi le mafie investono in tutto il mondo e che nel Nord Italia ci sono importanti cellule di famigerati clan, che riciclano denaro sporco, investono capitali nell'edilizia e nel commercio, sono al centro del narcotraffico, sfruttano attraverso lavoro nero. La corruzione, oggi nuovamente a livelli altissimi come sottolineato dalla Corte dei Conti, è un fenomeno presente in misura crescente dove ci sono maggiori possibilità di business: è dunque il Nord tutto a doversi guardare da questi fenomeni di penetrazione di capitali illeciti".
Ma ci sono anche altre ragioni per fare a Milano la memoria delle vittime di tutte le mafie. "Milano - ricordano all'associazione - è la città in cui fu ucciso nel 1979 Giorgio Ambrosoli, avvocato esperto in liquidazioni coatte amministrative, che stava indagando sui movimenti del banchiere siciliano Michele Sindona. Milano è la città in cui il 27 luglio del 1993 ci fu una delle bombe che esprimevano l'attacco diretto allo Stato da parte della mafia: la strage di via Palestro, nei pressi del Padiglione di Arte Contemporanea. Ci furono cinque morti. Milano è infine la città in cui si terrà l'Expo nel 2015, una manifestazione che attrarrà ingenti capitali e su cui sarà importante vigilare al fine di non consentire l'infiltrazione delle mafie".
Insomma, motivi per la mobilitazioni, il ricordo e la riflessione ne esistono più di uno.
Qui offriamo una sintesi di un rapporto di Libera sulla mafia in Lombardia (per Brescia guarda il documentario postato nella "videoteca" di questo blog) e i nomi di quanti sono morti, uccisi dalla mafia in questi anni.

Le mafie in Lombardia (dossier sintetico a cura di Libera)

LO SPOT DELLA GIORNATA



Ricordiamo con Libera le vittime innocenti delle mafie

lunedì 22 febbraio 2010

Intolleranza e razzismo in crescita, soprattutto fra i giovani: e noi educatori?

Fino a non molto tempo fa ci dicevano: saranno i nostri figli ad insegnarci l'integrazione, la tolleranza; attraverso la scuola arriverà anche la necessaria mediazione per costruire una società multietnica.
Giusto una settimana fa, all'indomani degli scontri di via Padova a Milano, Swg, l'Istituto di ricerca, ci illustra, attraverso l’Osservatorio nazionale “Io e gli altri: i giovani italiani nel vortice dei cambiamenti”, uno studio che ha coinvolto oltre 2.000 ragazzi tra i 18 e i 29 anni, effettuato per conto della Conferenza dei Presidenti delle Assemblee Legislative delle Regioni e delle Province Autonome, che il razzismo è in crescita e che l'intolleranza sembra in salità proprio là dove dovrebbe essere più aperta la mentalità: fra i giovani.
I giovani percepiscono un’Italia poco incline all’integrazione, poco pronta ad accogliere altre culture. È addirittura il 63% dei 18-29enni a sostenere che l’intolleranza siano in crescita. E se per il 29% dei ragazzi e delle ragazze il livello di razzismo sembra essersi bloccato, preoccupa che solo un esiguo 8% percepisca, invece, una fase migliorativa e, quindi, una diminuzione di atteggiamenti ostili nei confronti del diverso.



"Ma quali i maggiori autori in fatto di discriminazione?  - si chiedono i ricercatori della Swg - Gli unici a salvarsi, in termini di integrazione, sono gli anziani. Per gli under 29, solo l’8% degli italiani più ‘maturi’ dimostra, infatti, una maggior tolleranza. Gli atteggiamenti razzisti sono, invece, molto diffusi tra i ragazzi. La maggioranza degli interpellati (60%), attribuisce, infatti, ai giovani le forme di rifiuto più dure nei confronti delle altre appartenenze. Un po’ più tolleranti appaiono le persone di mezza età, tra cui è il 28%, secondo i giovani intervistati, a dimostrare comportamenti razzisti".



Viene da chiedersi dove stia l'educazione degli adulti, della scuola, delle istituzioni se proprio ai ragazzi trasmettiamo sentimenti e principi di vita improntati all'intolleranza, anche se non c'è molto da stupirsi in un mondo in cui - è notizia di oggi - la diversità di un bimbo down può diventare senza rimorsi oggetto di scherno e gioco su Facebook.
" Secondo le ragazze e i ragazzi italiani - continua l'indagine -, i fattori determinanti, quelli che maggiormente contribuiscono a generare discriminazioni verso gli immigrati, sono in primis il numero di extra-comunitari che delinque e l’esistenza di stereotipi negativi sul alcune etnie o popoli. Per i giovani sono questi i propulsori dell’intolleranza: in una scala da 1 a 10, entrambi i fattori ottengono, infatti, il punteggio più alto (rispettivamente 7,75 e 7,74). Determinanti anche l’ignoranza della gente, veicolata dalla paura e dal rifiuto per ciò che non conosce (7,52) e l’aumento troppo veloce del numero di extra-comunitari nel Paese (7,4).
I fattori che, invece, i giovani considerano a basso impatto sono la pretesa degli immigrati di professare la propria religione e di avere i propri luoghi di culto (6,48) e la paura di perdere l’identità culturale e le tradizioni (6,02)".


 Insomma è ancora molta la strada da fare sul fronte dell'educazione. Ho solo un timore: che i primi ad avere qualche problema di fondamentali in termini di convivenza civile siamo proprio noi adulti.

LEGGI QUI ALTRI ASPETTI DELLA RICERCA:
1) "I giovani e gli altri. I popoli simpatici e quelli osteggiati "
2) "Dagli inclusivi agli improntati al razzismo: i clan giovanili in Italia "

domenica 21 febbraio 2010

Bersani al festival di Sanremo: non canta ma lo contestano comunque

Bersani va a Sanremo, non canta ma lo contestano come Pupo e il principe di Savoia. Contestano anche Scajola per la verità, ma è forse perchè quando si parla di crisi, lavoro  e possibili rimedi non ce n'è per nessuno. Intanto Gasparri ci spiega che se ci fosse stato Berlusconi avrebbe sicuramente vinto. Ma, si sa, a Sanremo sono solo canzonette.
Intanto ecco Bersani in versione cantante: gioca in casa, è alla festa dell'Unità di Reggio Emilia....

venerdì 19 febbraio 2010

E' il tempo delle sfide: reinventarsi il mestiere, ovvero l' "Ultima notizia"

"Gli affannati eredi di Gutenberg e gli equivoci pionieri di Google, i social network che hanno eletto Obama e i tecnocrati che decidono come leggeremo nel futuro. Stiamo costruendo l’informazione senza carta o il giornalismo senza informazione?"
(dalla presentazione del libro "L'Ultima notizia" di Massimo Gaggi e Marco Bardazzi - Rizzoli editore)





Anni orribili, quelli della crisi globale, per l'editoria. Entro la fine del 2010 - si legge nell'ultimo numero del periodico dell'Inpgi, l'ente di previdenza dei giornalisti - si stima che oltre 700 professionisti lasceranno le aziende, al termine di procedure di ristrutturazione aziendale che nel 2009 non hanno risparmiato quasi nessuno in una politica di contenimento dei costi resa indilazionabile dal calo degli introiti pubblicitari. La crisi ha così accelerato gli interrogativi sul futuro della professione che le nuove tecnologie hanno fatto invecchiare di colpo. Che ne sarà dei giornali, che volto avrà la nuova informazione? Domande ricorrenti di questi tempi e al dibattito, in questi giorni, si è aggiunta la fatica letteraria di Massimo Gaggi e Marco Bardazzi, il primo inviato del Corriere negli Usa, il secondo giornalista della Stampa e per nove anni corrispondente dell'Ansa dagli Stati Uniti. Insieme hanno scritto per Rizzoli "L'ultima notizia. Dalla crisi degli imperi di carta al paradosso dell'era di vetro", ovvero un viaggio molto americano nell'informazione ai tempi delle nuove tecnologie.
Ed è subito dibattito in questo universo giornalistico che sta cercando un po' se stesso, disorientato dagli eventi e dalle crisi. Un dibattito con due autorevoli contributi come quelli di Aldo Grasso sul Corriere di mercoledì 17 febbraio e di Mario Calabresi su "La Stampa" dello stesso giorno.
 "La radio - scrive Grasso in "Le tre C della nuova informazione" - ha impiegato trentotto anni a raggiungere la soglia dei 50 milioni di ascoltatori. Alla tv ne sono stati necessari tredici. Internet ha toccato quota 50 milioni di utenti in soli quattro anni, e lo stesso traguardo è stato raggiunto dall’iPod in poco meno di tre». Quella a cui stiamo partecipando, volenti o nolenti, è la più grande rivoluzione mai avvenuta nel campo delle comunicazioni. Non solo per celerità (gli anni sono diventati mesi, i mesi giorni, i giorni ore) ma per il radicale cambiamento in atto nell’universo mediatico. Questa mutazione ha un nome e si chiama convergenza.
Convergenza significa che il futuro della comunicazione è qualcosa che va ben oltre la vecchia teoria secondo cui in una società la struttura mentale delle persone e la cultura sono influenzate dal mezzo di comunicazione egemone (il famoso slogan di McLuhan «il medium è il messaggio»). Convergenza è la voce del molteplice, dell’indiscernibile, dell’ibridato. Nel settore delle telecomunicazioni, il cambiamento basilare consiste nel fatto che ciascun medium non è più destinato a svolgere un singolo tipo di prestazione, ma è in grado di diffondere più generi di servizi (radio, cellulare, tv, social network, ebook e altre forme interattive). E se è vero che i media formano nuovi ambienti sociali che includono o escludono, uniscono o dividono le persone con modalità inusuali, è altrettanto vero che i cambiamenti dei media inaugurano rituali inediti, collettivi e personali".
Il mondo cambia e i giornali, intesi come "medum" cartaceo di informazioni, invecchiano precocemente, ma, nonostante tutto, c'è spazio per rigenerarsi. Ne è convinto Calabresi quando scrive nel suo "Senza giornalisti che giornalismo è?": "L’anno delle opportunità per il giornalismo è cominciato con quasi quattro settimane di ritardo: il 27 gennaio. Quel giorno il boss della Apple Steve Jobs ha svelato la sua tavoletta digitale, quella via di mezzo tra un computer e un telefono che prende il nome di iPad, indicando una possibile strada per l’informazione del futuro. Come per l’economia, anche per i giornali con il 2009 i peggiori incubi si sono materializzati: crollo della pubblicità, diminuzione dei lettori, fallimenti e riduzione di organici.
Molte sentenze di morte del giornalismo, della carta e della professione di chi scrive queste righe sono state pronunciate negli ultimi mesi: sono convinto siano ingenerose e sbagliate, così come non penso che l’iPad sarà la soluzione di tutti i problemi. Ma il genio di Steve Jobs ha avuto ancora una volta un merito fondamentale, quello di rimettere in circolo speranza, creatività e voglia di parlare di futuro.
Ogni crisi impone di ripensarsi, di mettere in un angolo le «certezze» e di coltivare dubbi: questo è certamente doloroso ma anche affascinante e oggi nel mondo, in Occidente soprattutto, c’è una quantità di discussione sul futuro dell’informazione che non ha paragoni con nessuna stagione del passato".
Primo (convengono entrambi i recensori della fatica di Gaggi e Bardazzi): rigenerarsi. Secondo: confrontarsi, noi della "generazione Gutenberg" con i "digital native", i nativi digitali, che hanno scarsa confidenza con libri e giornali e che vivono nella convinzione che l'informazione è solo "free". Terzo: non abdicare allo spirito critico, aperti a ciò che di buono c'è nella novità, ma consapevoli che di cose avariate in rete ne circolano tante.
Rigenerarsi, prima di tutto, vuol dire essere consapevoli che nulla sarà più come prima. "Non tanto - scrive Aldo Grasso -per il mito del citizen journalism (l’utente che, grazie alle moderne tecnologie, si trasforma in informatore) che può funzionare bene nei casi di cronaca, negli incidenti, nelle tragedie, ma che rivela tutta la sua fragilità quando si sale di livello e si passa a quello dell’interpretazione. Con la rete, il giornalista deve reinventare le sue competenze, capire che la convergenza comporta un uso simultaneo di più media (la scrittura, ma anche la radio, il video, eventualmente i social network). Come sostengono Gaggi e Bardazzi, «Internet e i social network hanno fatto emergere quella che potrebbe essere definita la "regola delle tre C" della comunicazione del futuro: condivisione, comunità e conversazione»".
"A queste - gli fa eco Calabresi -, il giornalismo porta in dote le sue «3 C» storiche e irrinunciabili: «Contenuti, credibilità, creatività»". Perchè se si può prescindere dal medium, non si può prescindere dalla professionalità del giornalista, dalle sue doti, dal suo mestiere, da una informazione autorevole e che come tale, per crescere e svilupparsi deve essere a pagamento. "La gente - osserva, infatti, Calabresi - continuerà ad avere bisogno di informazioni di cui fidarsi per le scelte di tutti i giorni, dal lavoro agli investimenti, dalla salute all’educazione dei figli. Questo non significa pensare che i giornalisti siano i depositari della verità, ma riconoscere che - pur con tutti i loro limiti - le redazioni «tradizionali» restano luoghi dove si sviluppa una narrativa comune per la società. Se svaniscono, se scompare il giornalismo, è a rischio la democrazia stessa. Può sembrare un’affermazione eccessiva perché la rete digitale appare sempre più caratterizzata da trasparenza e apertura: una grande casa di vetro. «Ma la casa di vetro - mettono in guardia Gaggi e Bardazzi - è anche molto fragile, tanto più che viviamo in un’epoca nella quale i professionisti della manipolazione dell’opinione pubblica sono pagati assai meglio di quelli dell’investigazione giornalistica»".
Insomma la sfida è aperta per questa professione che, per dirla con il pensiero di un grande mio ex direttore come Piero Agostini (vedi le citazioni nella striscia a fianco di questo post) resta il mestiere più bello e affascinante del mondo.


DAL 21 AL 25 APRILE SI TERRA' A PERUGIA IL FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL GIORNALISMO: ECCO LA CONFERENZA STAMPA DI PRESENTAZIONE.

giovedì 18 febbraio 2010

Quartieri ghetto e Brescia

Sul tema dei quartieri ghetto di cui abbiamo riflettuto nei post precedenti segnalo l'inchiesta di Bresciaoggi curata da Natalia Danesi. Buona lettura
Così Brescia dice no ai quartieri ghetto
Guarda la mappa della città con la densità dei residenti stranieri

mercoledì 17 febbraio 2010

Via Padova: l'importanza di capire i fenomeni per governarli

Tornare su via Padova a giorni di distanza dalla notte "dei lunghi coltelli", lontano dal ronzio delle telecamere, dagli animi esacerbati, dagli scontri e dalla politica che tutto strumentalizza è importante per capire. E fenomeni come questi è importante capirli per non subirli, comprenderli per governarli.
Su questo fronte il Corriere di oggi e la Curia di Milano offrono due interessanti chiavi di lettura su due fronti paralleli: i quartieri ghetto e le tensioni etniche. Vediamo.

I QUARTIERI GHETTO.
"Questo genere di trasformazione urbana è scritto nella struttura del patrimonio immobiliare del nostro Paese. Primo: gli immobili costruiti nel dopoguerra oggi sono spesso in pessimo stato. Secondo: la proprietà è molto frammentata. L'85% degli italiani è proprietario di casa contro il 60 per cento della media Ue. E più sono i proprietari più è difficile mettersi d'accordo sui lavori da fare. Di conseguenza aumenta il degrado". A parlare è Armando Borghi, direttore del master sul mercato immobiliare della Sda Bocconi che spiega come "Quello che è successo in via Padova a Milano può servire da paradigma e valere in futuro per altre città". I quartieri ghetto, infatti, nascono tutti secondo lo stesso schema: case fatiscenti affittate agli stranieri, gli unici ad accettare di vivere in appartamenti disastrati; screzi con il vicinato perchè per sostenere l'affitto gli immigrati sovraffollano l'appartamento; i proprietari italiani che progressivamente svendono e nuovi inquilini stranieri che colonizzano l'immobile. Il passo successivo è quello di passare dall'affitto alla proprietà come è accaduto tra il 2003 e il 2006 complici i bassi tassi di interesse, finanziarie disposte a sostenere anche il 110 per cento del costo dell'immobile e perizie spesso gonfiate a certificare la qualità dell'acquisto (una prassi che soddisfava tutti: mediatori immobiliari, direttori di banca, finanziarie).
Ma come frenare il fenomeno? Fermarlo è difficile, ma non impossibile. Se non è possibile bloccare la vendita di un appartamento è possibilissimo arginare il degrado. "Perchè - osservano gli esperti - è il degrado (che significa bassi costi) che attira gli stranieri e non viceversa".
"Da noi la situazione è migliorata - spiega Alessandro Berlincioni, presidente della Federazione dei mediatori e agenti immobiliari di Torino -. A San Salvario dieci anni fa c'era un'enorme concentrazione di droga, delinquenza e immigrazione. Poi è stato fatto qualche intervento urbanistico azzeccato, hanno incominciato ad aprire gallerie e locali di tendenza e la situazione è migliorata". All'estero, dal Belgio all'Olanda, si studiano progetti per il reinserimento dei vecchi abitanti o si cerca di dar vita a quartieri in cui tutti i ceti sociali possano convivere. Esperimenti difficili, operazioni che richiedono fatica, un approccio sociologico e non solo economico al tema con la convinzione che il mix sociale potrebbe essere la chiave di volta per catalizzare una convivenza senza tensioni.
LE TENSIONI ETNICHE
Eccoci quindi al secondo aspetto del problema. La convivenza, le tensioni sociali. Gli episodi di via Padova hanno portato alla ribalta un fenomeno che già altre volte aveva fatto capolino nella cronaca nera milanese: la guerra tra bande straniere. La nostra adolescenza alimentata da film come "Warriors - I guerrieri della notte" o come "I ragazzi della 56esima strada" ci fa vivere  il fenomeno con un'aurea di epicità, ma c'è poca poesia nel disagio giovanile.  La diocesi di Milano e l'Osservatorio regionale per l'integrazione e la multietnicità hanno affrontato il problema cercando di capire il fenomeno e i moti di ribellione che spesso, più degli italiani, colpiscono il mondo degli immigrati. Ne è uscita una indagine presentata in queste ore dai ricercatori Maurizio Ambrosini, Paola Bonizzoni ed Elena Caneva che indica il ricongiungimento famigliare come istituto sul quale lavorare per disinnescare il rischio banlieue.
"Dai risultati della ricerca - spiega una nota - emerge che i giovani ricongiunti hanno più difficoltà di relazione con i genitori dei giovani nati in Italia. Vive con loro (o anche con i fratelli) l’86% dei giovani stranieri nati in Italia; mentre tra i giovani ricongiunti la percentuale scende al 68%. I restanti vivono con un solo genitore o con altri parenti. Sia gli uni, sia gli altri reputano molto importante per la definizione della propria identità il riferimento alla nazionalità e alla condizione di straniero (il 60% tra i ricongiunti, il 58% tra i nati in Italia), i restanti considerano più determinante il fatto di essere giovani e studenti. La ricerca ha inoltre individuato quattro tipologie principali fra i giovani di origine straniera. Appartengono agli “adolescenziali” quei ragazzi, per lo più nati in Italia, per i quali lo scontro con i genitori è legato non al contrasto tra valori diversi, ma all’età. Costoro rappresentano il 17,6% del campione. Ci sono poi i “ribelli” (30,6%), in genere maschi nati all’estero, spesso arrivati da poco in Italia; costoro esibiscono un forte legame con il Paese d’origine. In questo caso sono proprio le difficoltà del ricongiungimento a dare origine allo scontro con i genitori. Gli “integrati” (22,6%) sono ragazzi e ragazzi ormai quasi adulti per i quali i conflitti tipici dell’adolescenza sono stati superati. Infine “i conservatori” (29,2%), per lo più maschi, tardo adolescenti, sembrano aver interiorizzato aspetti della cultura d’origine, pur senza entrare in conflitto con la società in cui sono nati e cresciuti".
Che fare? "Il ricongiungimento familiare è ancora un processo lungo e difficoltoso, incoraggiarlo e favorirlo sarebbe una scelta politica lungimirante - sostiene il sociologo Maurizio Ambrosini -. Se avessimo più famiglie straniere e meno immigrati soli, spesso uomini adulti, avremmo anche più integrazione. E fatti come quelli di via Padova, avrebbero meno probabilità di accadere. Insomma per disinnescare il rischio che, come è accaduto nelle banlieue parigine, anche le periferie di Milano esplodano, sarebbe saggio promuovere l’integrazione anche incoraggiando i ricongiungimenti familiari».
Insomma, ci attende un futuro di lavoro lungo e difficile, in cui capire prima di giudicare. E in questo Paese degli slogan si rischia di pesare acqua in un mortaio fino alla prossima via Padova d'Italia.




La riflessione arriva diretta: è l'editoriale pubblicato sul sito della Diocesi di Milano. Eccolo.
Editoriale
Via Padova, la città in cui speriamo.
I fatti avvenuti nei giorni scorsi meritano un'approfondita riflessione

Quanto accaduto nei giorni scorsi in via Padova è un episodio grave e bisognoso di approfondimento. L’aggressione e la morte di un giovane, il conflitto etnico tra bande rivali, le reazioni violente che ne sono seguite, denunciano una situazione da leggere nella sua complessità con lucidità di giudizio e senza fermarsi al cono d’ombra dei fatti delittuosi. L’uccisione si colloca in uno scenario di diffuso disagio sociale che, complice l’indifferenza di chi avrebbe potuto intervenire prima ma non lo ha fatto, perdura da tempo ed è destinato a rimanere tale fintantoché non si deciderà insieme di voltare pagina e ristabilire le condizioni per una normale e costruttiva convivenza civile.La prima parola è la ferma condanna della violenza. Non accettiamo di assistere inermi a questa spirale di aggressività: morire in questo modo è, oltre che drammatico, assurdo. Nemmeno vogliamo addomesticare il cuore e i sensi all’abitudine per la violenza posta quotidianamente sotto i nostri occhi; continuiamo a operare per l’edificazione di una città aperta e umana, capace di coniugare sicurezza e integrazione.
Abbiamo ascoltato in questi giorni interventi istituzionali limpidi, capaci di richiamare con severità ed equilibrio ai valori che fondano la convivenza, ma anche al consueto e triste gioco politico di parte, nel quale i problemi reali vengono puntualmente sacrificati sull’altare della ricerca del consenso elettorale. I media con alcuni servizi hanno cercato di entrare con discrezione ed intelligenza nella situazione concreta del quartiere e dei suoi abitanti, mentre con altri hanno offerto spettacolarizzazioni non rispettose della verità dei fatti e delle persone. Sembra per questo necessario mantenere quella pacata ragionevolezza che, consapevole della gravità dell’accaduto, non desiste dal ricercare la giusta misura delle cose e non si lascia prendere dall’emotività, dai giudizi affrettati e dall’illusione che esistano soluzioni drastiche e immediate per risolvere i conflitti.
Dieci anni fa proprio in via Padova l’uccisione di un gioielliere e di un tabaccaio coronavano nel sangue una tristissima stagione di violenza e degrado per il quartiere e per l’intera città. Allora criminali e vittime erano italiani: in qualche modo i nuovi arrivati si sono sostituiti ai delinquenti locali.
A ben vedere il problema principale non riguarda, quindi, solo la criminalità organizzata, ieri, o l’immigrazione non governata, oggi, ma anche il degrado del tessuto civile del quartiere. Quando un territorio, un lembo di città non è governato con lungimiranza, ma abbandonato alle logiche infernali dell’incuria, della lacerazione, della prepotenza diventa facilmente terreno di coltura per le patologie più gravi del disagio sociale.
Per quanto riguarda le sfide dell’immigrazione, da tempo la Chiesa Ambrosiana cerca di promuovere un’ articolata riflessione e indicare alcune linee costruttive. Risuonano oggi come molto opportune le parole pronunciate dall’Arcivescovo nel Discorso di S. Ambrogio del 2008: «Occorre, con una visione complessiva del fenomeno, guardare agli immigrati non solo come individui, più o meno bisognosi, o come categorie oggetto di giudizi negativi inappellabili, ma innanzitutto come persone, e dunque portatori di diritti e doveri: diritti che esigono il nostro rispetto e doveri verso la nuova comunità da loro scelta che devono essere responsabilmente da essi assunti. La coniugazione dei diritti e dei doveri farà sì che essi non restino ai margini, non si chiudano nei ghetti, ma - positivamente - portino il loro contributo al futuro della città secondo le loro forze e con l’originalità della propria identità».
Da parte dei milanesi occorre riconoscere in questi anni un preoccupante calo della tensione morale e civile e la conseguente fatica a trasmettere la solidità di un ethos pubblico condiviso e normativo. Non è forse ancora più necessario oggi tornare a conoscere, rispettare, apprezzare le regole, i valori, il senso delle istituzioni e delle tradizioni civili? Su quale base comune costruire altrimenti una convivenza coi nuovi arrivati.
Se cresce ormai positivamente la consapevolezza che la via da percorrere è quella dell’integrazione, resta ancora equivoco il senso da attribuire a questa espressione. Per alcuni coincide sostanzialmente con l’“adeguamento integrale” di altri ai nostri modi: di parlare, di vivere, di agire, di consumare… In buona sostanza con l’omologazione. In realtà un’autentica integrazione suppone anzitutto conoscenza, dialogo, ascolto a partire dalla riscoperta delle proprie radici, così che le diverse componenti dell’unico corpo sociale possano contribuire, ciascuna con la propria originalità, al bene comune e al volto di una città migliore.
L’albero buono si riconosce dai frutti buoni, ma di fronte a frutti cattivi occorre scendere in profondità e risanare le radici: ripartire dalla famiglia. Essa, come sottolinea Benedetto XVI, «è un fondamento indispensabile per la società e per i popoli, e anche un bene insostituibile per i figli. È nel focolare domestico che s'impara a vivere veramente, a valorizzare la vita e la salute, la libertà e la pace, la giustizia e la verità, il lavoro, la concordia e il rispetto» (Discorso al VI Incontro Mondiale delle Famiglie di Città del Messico). A tutte le famiglie, italiane o immigrate, occorre assicurare quanto è necessario a una vita dignitosa, per sé e i propri cari, e così assolvere al proprio compito sociale: casa, scuola, lavoro, assistenza per bambini, anziani, disabili e malati. Non sarebbe tempo di prendere in seria considerazione l’urgenza dei ricongiungimenti familiari?
In particolare le prime vittime di una politica paralizzata dalla ricerca del consenso e poco audace nel progettare, realizzare, governare la “metropoli” del presente e del futuro sono le giovani generazioni. C’è forse vera differenza fra il disagio violento, tribale e rancoroso delle gang etniche e quello più narcisistico, autodistruttivo e spietato dei giovani “bene”? La sfida educativa nei confronti dei giovani, ancora più acuta nel contesto della seconda generazione di immigrati, è davvero centrale per le famiglie e per le altre agenzie educative. Giustamente la riflessione dei sacerdoti del decanato di Turro, in cui è situata via Padova, sottolinea la preziosità dei luoghi di educazione giovanile come le scuole, gli oratori e le comunità cristiane. Realtà già presenti, ma bisognose di ulteriore sostegno. Perché non promuovere per davvero un “esercito” di educatori piuttosto che di militari?
Partiamo dal riconoscimento e dal sostegno dei molti segni di speranza e delle diverse realtà vive del quartiere: i cittadini che scelgono positivamente di abitarvi, le comunità cristiane con le loro attività, le forze politiche, sociali e culturali che mantengono un legame col territorio, i commercianti, le scuole, le associazioni di volontariato.
Segno di speranza è anche la Messa celebrata per il Decanato domenica 7 febbraio dal Cardinale Tettamanzi insieme a più di 1500 persone. Chi vi ha partecipato ha potuto sperimentare un momento di autentico entusiasmo popolare, il ritrovato orgoglio di abitare il quartiere, la bellezza della fede e dei legami di fraternità che essa genera. Insomma, non un gesto isolato, ma la rivelazione di quel volto autentico della città per cui vale la pena lottare, amare e vivere, al quale si richiamava quel giorno l’Arcivescovo concludendo la sua omelia: «Di fronte a una società che ne è povera, la comunità cristiana si presenti invece come il luogo nel quale la speranza continuamente sorge e viene offerta, a tutti e a ciascuno, attraverso la testimonianza di un amore misericordioso
Milano 16 febbraio 2010

martedì 16 febbraio 2010

Via Padova: alla ricerca dei rimedi

I disordini di via Padova a Milano continuano a far discutere. Oggi Angelo Panebianco sulla prima pagina del Corriere della Sera spiega "Come si difende un quartiere" puntando il dito contro due aspetti sostanziali: la clandestinità e le dinamiche immobiliari che fanno nascere i ghetti.
Sul primo aspetto usa parole dure: "Combattere l'immigrazione clandestina è difficilissimo. Ma lo è ancora di più se tanti operatori, religiosi e settori di opinione pubblica mostrano un'indulgenza che sfiora la complicità verso il fenomeno. Come è fin qui accaduto. Che senso ha, in nome di una sciatta e del tutto ideologica «difesa degli ultimi», disinteressarsi delle gravissime conseguenze che la clandestinità porta con sé e che sono destinate a pesare sia sugli italiani che sugli immigrati regolari? Le probabilità di scontri etnici, quanto meno, diminuiscono se la clandestinità viene arginata e i facinorosi allontanati".
Un tema forte, difficile, ma sul quale Panebianco mi sembra la metta giù un po' troppo semplice: non è il permesso di soggiorno che da la patente di cittadino per bene è il rispetto delle regole. Basti pensare che aver allargato i confini dell'Europa a molte nazioni che stanno a Est non ha risolto i problemi di convivenza, ha semplicemente rimodellato i termini linguistici del problema (i romeni, tanto per capirci, non si chiamano più extracomunitari). Il tema vero è quello del controllo del territorio con o senza clandestini, che se si decide che vanno combattuti ed espulsi, vanno contrastati con armi efficaci, altrimenti è tutta e solo propaganda.
Il secondo aspetto preso in esame da Panebianco riguarda il pericolo della ghettittazione di interi quartieri, della svendita di intere zone di città. Sul punto Panebianco spiega: "I ghetti si formano perché l'afflusso di immigrati spinge le persone che temono un deprezzamento eccessivo della loro proprietà a vendere. E quando il deprezzamento è compiuto, il quartiere si riempie di immigrati poveri. E' difficile bloccare questi processi".
Stamattina passavo per uno dei quartieri storici di Brescia, il Carmine, da sempre terra di frontiera (un tempo ci viveva la "mala" locale, poi l'immigrazione selvaggia con qualche grosso problema di ordine pubblico). Ricordo gli anni in cui le case fatiscenti erano in mano ad un pugno di proprietari italiani che le affittavano a decine di immigrati che saturavano interi immobili spesso pericolanti. Ricordo anche che il Comune usò il pugno e la carota per riqualificare il quartiere: la minaccia della confisca degli immobili abbandonati a se stessi e la condivisione dei processi di riqualificazione urbana. Ricordo anche gli elicotteri delle forze dell'ordine a sorvolare all'alba i vicoli e intere gang straniere, che avevano il controllo dello spaccio, a finire dietro le spalle, ricordo vigili urbani e polizia erigere in quel quartiere posti di guardia e commissariati. Oggi il Carmine a Brescia non è certo come il quadrilatero della moda a Milano, ma è un quartiere storico con una dignità restituita, una faccia in gran parte pulita e una convivenza possibile.
Insomma, il rischio banlieu di cui si diceva in un post di ieri può essere combattuto come lo ha combattuto Vito Lippolis che a Milano ha un bar vicino al luogo dell'omicidio. La sua ricetta è semplice: "Se le istituzioni facessero rispettare le leggi ai negozietti che vendono birre fino alle due di notte, forse le cose andrebbero meglio. Qui nel mio locale le regole sono sacre: niente alcol di mattina, non si urla, chi grarra esce". E i clienti del signor Vito sono al 70% stranieri.



NON DIMENTICHIAMO AHMED MAMDOUH
In questa storia non dimentichiamo che c'è un ragazzo morto per una banale lite tra giovani di etnie diverse. Ecco l'appello al ricordo di don Gino Rigoldi

"Posso chiedere a questa mia Milano un poco di pietà per un giovane di diciannove anni che ha perduto la vita su di un marciapiedi di Via Padova? Ahmed Mamdouh non è soprattutto un extracomunitario, non è soprattutto un arabo islamico, è un ragazzo, l'unico figlio di una coppia di gente troppo povera. Nato in una città dell'Egitto, arrivato in Italia all'età di quindici anni a cercare fortuna per sé e la sua famiglia, panettiere saltuario in nero. Non era un clandestino perché aveva ritirato il suo permesso di soggiorno da pochi giorni e lavorava, faceva il pane e faceva economia per mandare un aiuto ai genitori che aspettano lui e il piccolo aiuto che faceva arrivare appena poteva.

È troppo chiedere a questa mia Milano una lacrima da condividere con due genitori poveri e soli, disperati per aver perduto l'unico figlio? Chiedo la pietà che non è condoglianze di convenienza, rassegnazione senza direzione, bisogno di dimenticare dietro a parole buone di circostanza. Ho sentito molte voci di persone responsabili. Dalla solita «tolleranza zero» al rimbalzo delle colpe, alla caccia all'uomo casa per casa , finalmente anche al buon senso di chi chiede una nuova politica della accoglienza e dell’integrazione. Ma non dobbiamo dimenticarci del ragazzino Ahmed che ora ha la sua casa in una fredda cella dell' obitorio come se fosse diventato invisibile, sparito.

Si dice che chi lo ha ucciso sia un sudamericano, magari di una banda di giovani sbandati. Anche loro stranieri nella nuova patria, figli di nessuno. Il colpevole deve essere punito e spero sia arrestato presto. Ma anche questi ragazzi dell' America Latina sono affidati a noi. Sono anche loro figli nostri, affidati a noi perché ora vivono con noi a Milano. Nessuno vorrà tollerare le violenze ma proprio non possiamo cercare un dialogo, il tentativo di far percorrere anche a loro la strada della integrazione, di una vita sociale ordinata e pacifica?

Io so che è possibile, nei quasi quaranta anni di vita nel carcere e nelle periferie ho visto con i miei occhi cambiare e diventare persone buone e positive, vite disperate e violente. Ho visto giovani latinos diventare dei bei calciatori, degli appassionati di musica rap, prendere passione per i libri e la scuola, pregare con devozione ad una Messa. Se siamo forti noi milanesi e noi siano forti di cuore e di mente, potremo far diventare questo dolore e la risposta alla violenza un impegno di umanità".
don Gino Rigoldi

lunedì 15 febbraio 2010

Viale Padova: lo spettro della banlieue, la fatica della convivenza e le prove tecniche del futuro

Milano, viale Padova, l'incubo che agita i sonni dei politici è quello delle banlieue francesi pronte ad accendersi per un nonnulla, pronte a vomitare sulla tranquillità di tutti il marcio delle contraddizioni, delle tensioni, delle cattive coscienze che, in ogni città, si nascondono dietro quelli che un tempo erano quartieri e, ora, sono solo dei ghetti. Di chi è la colpa? Facile recriminare, facile chiedere ora legalità e rastrellamenti quando, magari, da amministratori si è chiuso prima un occhio e poi l'altro davanti alle tante speculazioni su un'immigrazione disordinata e senza regole che, però, garantiva guadagni in contanti e tanti soldi a proprietari di case e datori di lavoro dal nero facile. In Viale Padova, in un sabato sera di guerriglia , il pugno è stato sferrato soprattutto allo stomaco di una città, alla nostra voglia di convivenza e di tolleranza. Una tolleranza che sembra lontana, una convivenza difficile e faticosa, come difficile è faticoso vivere in questo mondo dai tanti colori. Ma in viale Padova sabato ci sono state le prove tecniche di futuro, o meglio di quel futuro che ci attende se vogliamo solo subirlo, se non vogliamo faticare per costruirlo. Convivenza significa soprattutto fatica, la fatica di un'equità sociale tutta da costruire, di regole tutte da insegnare, di comportamenti e abitudini tutti da integrare e armonizzare. Già le regole: sta tutto qui l'inferno di viale Padova. Sapete come sono nati gli scontri? Perchè gli amici del giovane egiziano ucciso volevano prelevare il corpo dalla strada per portarlo in moschea: nessuno primo di quella sera aveva spiegato loro che Milano non è Il Cairo e la vittima di un delitto (e non solo) è a disposizione della magistratura fino al nullaosta per la sepoltura. Una regola semplice e pacifica per noi, ma che a chi non è mai stata spiegata, accecato dal dolore e dalla rabbia, è suonata come un insulto. Ciò forse non giustifica il caos di viale Padova, terra di frontiera anche se è a due passi dal centro. Ma aiuta a capire, a capire per non farsi travolgere da un futuro che se non governato può essere molto tempestoso.







sabato 13 febbraio 2010

Comunali 2009: ecco la sentenza di Orzinuovi una conferma, ma un po' di confusione


Le schede sono passate da un candidato all'altro, altre valide sono state annullate, alcune nulle sono state attribuite: insomma c'è stata un po' di confusione martedì 8 giugno 2009 nello spoglio delle elezioni comunali che hanno sancito Andrea Ratti nuovo sindaco di Orzinuovi sul primo cittadino uscente, Roberto Faustinelli, per due soli voti di scarto. Un po' di confusione, comune ad altri paesi (vedi il caso di Angolo Terme di cui al post precedente), che però non ha cambiato il risultato finale della tornata elettorale: Andrea Ratti ha pienamente titolo a reggere il Comune della Bassa bresciana, anche se questa storia (con o senza un eventuale ricorso al Consiglio di Stato) sembra destinata a diventare un tema ricorrente nelle schermaglie tra maggioranza e opposizione, che, peraltro, nonostante la netta affermazione ottenuta alle Europee e alle Provinciali non ha saputo fare tesoro del vantaggio, mandando in libera uscita verso lo scheramento avversario un bel po' di voti.
Per chiarezza, ecco come il Tar di Brescia ha valutato il ricorso elettorale di Orzinuovi.

Orzinuovi, comunali 2009: la sentenza del Tar che conferma il risultato elettorale

Comunali 2009: ecco la sentenza di Angolo, un voto irregolare

Alla lettura del dispositivo che annullava l'elezione di Riccardo Minini (ex assessore provinciale della Lega Nord al Turismo) alla carica di sindaco di Angolo Terme anche gli esperti di giustizia amministrativa ipotizzavano due vie uscite dal riesame delle schede contestate: parità fra i due contendenti (prima divisi da un solo voto) o ribaltone con l'affermazione del ricorrente Lucio Gagliardi a sindaco del centro della Valcamonica. Nulla di tutto questo, i giudici non hanno nemmeno preso in considerazione le contestazioni sulle schede, ma si sono fermati al primo dei motivi esposti dal ricorrente: l'ammissione al voto assistito (un elettore impedito viene aiutato a votare da un altra persona) di una elettore che non ne avrebbe avuto diritto perchè era sulla sedia a rotelle e ciò non preclude la possibilità di esercitare di persona il diritto di voto.
Andando a controllare nei registri dei seggi di Angolo i magistrati hanno scoperto che effettivamente quel signore era stato ammesso al voto assistito non avendone per legge alcun diritto e non era stato semplicemente accompagnato in cabina. Quindi quel voto espresso (non si sa per chi) era illegittimo tando da invalidare le intere elezioni.
Tutto da rifare quindi e, come promesso ieri, leggi qui sotto l'intersa sentenza.
Angolo, comunali 2009. La sentenza del Tar che annulla le elezioni

venerdì 12 febbraio 2010

Comunali 2009 e giustizia: i casi di Angolo e Orzinuovi e l'elettore confuso

Il Tar di Brescia ha detto la sua sulle elezioni comunali di Angolo Terme e Orzinuovi, dove i sindaci, Riccardo Minini (Lega) e Andrea Ratti (Una Civica opposta alla compagine di Centro Destra) erano risultati eletti, rispettivamente, con uno e due voti di scarto sull'antagonista. Lo ha fatto con un effetto dirompente per il piccolo centro della Valcamonica, dando conto della bontà dello spoglio, invece, per quanto riguarda la cittadina della Bassa bresciana.
Ad Angolo Terme, infatti, è stato annullato il verbale con il quale a giugno 2009 erano stati proclamati eletti il sindaco e i consiglieri comunali, rimandando alle motivazioni della sentenza le sorti amministrative del Comune. Nel giro di un paio di settimane i giudici diranno come devono essere interpretate le schede contestate (un paio secondo alcune fonti) e quindi diranno quale sarà il nuovo conteggio dei voti (clicca qui per sapere come erano andate le elezioni nei due comuni). Solo allora si capirà se si dovrà tornare alle urne perchè i due candidati sono in perfetta parità o se si tratta di un ribaltone a tutti gli effetti con il candidato ricorrente Lucio Gagliardi proclamato sindaco perchè ha sopravanzato l'avversario (anche in questo caso il divario potrebbe essere di un solo voto). In attesa di leggere le sentenze sulle due elezioni contestate, che questo blog (come ha già fatto con il precedente pronunciamento interlocutorio del Tribunale) pubblicherà integralmente non appena disponibili (per ora clicca qui per leggere il dispositivo di Angolo e clicca qui per leggere quello di Orzinuovi), di tutta la battaglia processuale resta una convinzione: quanto, nonostante si sprechino le informazioni in proposito, l'elettore medio fatichi ad esprimere nel modo giusto il proprio voto, dando così adito ad interpretazioni della sua volontà (principio ispiratore di ogni corretta procedura di spolio) non univoche, anzi, al contrario, oggetto di opposte valutazioni da parte delle forze in campo che, come è ovvio e naturale, cercano di difendere i propri interessi elettorali. Ad Angolo, ad esempio, un elettore ha indicato sulla scheda un nome di una persona che non solo non è candidata ma che non sarebbe nemmeno residente in paese. Come considerare quell'indicazione, comunque una volontà di voto per il candidato nel cui riquadro si trova il nome o come l'intenzione di invalidare la scheda? Il tribunale ci dirà come la pensa in proposito, per ora divertiamoci, si fa per dire, leggendo il verbale redatto dalla Prefettura il 16 dicembre sulle schede contestate per l'elezione di Orzinuovi.

 Orzinuovi, comunali 2009: il verbale della Prefettura sulle elezioni contestate

mercoledì 10 febbraio 2010

Tobagi, Calabresi, Martinazzoli: la storia, la memoria e il futuro

"La storia del passato ha un senso se è in grado di consegnarci un po' di memoria del futuro"
Mino Martinazzoli
Forse ha ragione Giovanni Moro quando sugli anni '70 spiega: "Identificare i problemi sollevati da quel periodo è la strada per costruire una "memoria comune". Un compito che è di tutti, anche di chi scetticamente ritiene che sia tale la contraddizione di quegli anni che risulta, ancora oggi, impossibile comprenderla appieno".
Mettere attorno ad uno stesso tavolo Benedetta Tobagi (la figlia del giornalista Walter Tobagi), Mario Calabresi (il figlio giornalista del commissario Luigi Calabresi) e Mino Martinazzoli (politico democristiano, ex ministro di Grazia e giustizia) come ha fatto ieri sera a Brescia "La Casa della Memoria" per riflettere su eversione, mafia finanziaria, terrorismo, risposte etiche e politiche agli anni '70, vuole dire offrire a chi vuol capire quegli anni un contributo, in termini di testimonianza e di meditazione, che difficilmente potrà essere riproposto, soprattutto in un Paese in cui, come ha amaramente constatato Benedetta Tobagi: "Si è perso lo spirito e il senso della complessità". Lo spirito e la complessità di parlare di quegli anni dal ruolo difficile di chi ha pagato con la morte di un padre quelle tensioni e quelle contraddizioni, di chi constata amaramente - sono parole di Mario Calabresi - come questa Italia "in maniera strabica abbia avuto tanta ipersensibilità nei confronti degli ex terroristi e altrettanta eccessiva insensibilità verso le vittime tutte di quegli anni". Eppure ieri sera c'è stato un grande sforzo di capire. Di capire, come aveva fatto Walter Tobagi prima di essere ucciso, quei fenomeni che avevano scosso l'Italia degli anni '70. Di approfondire, senza pregiudizi e senza paure, quelli che, guardandosi indietro, appaiono più delle grandi contraddizioni che dei forti e sia pur cruenti slanci rivoluzionari.
E ieri sera c'è stato anche un grande sforzo restituire la memoria di uomini che hanno pagato con la vita il loro impegno al servizio, ognuno per le proprie competenze, dello Stato e della collettività.
Lo hanno fatto i figli che oggi hanno l'età dei padri quando furono uccisi. Lo hanno fatto i figli che ora - è la riflessione di Calabresi - non nascondono qualche angoscia davanti ai propri bambini che hanno l'età, l'innocenza e l'innata ammirazione per il papà, di quando loro, i genitori di oggi, hanno visto il proprio padre uscire la mattina e non tornare più. Un padre magari ricordato con una medaglia, una targa, un busto: troppo poco per un figlio che vuole riconquistare il tempo perduto, che vuole "riempire di ricordi quel calco di gesso usato per il busto". Colmarlo di carte, di riflessione e appunti come ha fatto Benedetta Tobagi, o ricordarlo (come Mario Calabresi) attraverso i gesti quotidiani di una famiglia colpita al cuore e di tante altre famiglie, magari meno note e dimenticate più in fretta, che costellano di lutti la storia italiana di quegli anni "perchè, ormai, metà degli italiani in quegli anni non era nemmeno nata".
L'importante per entrambi era uscire dallo stereotipo di essere figli di...: figli del "povero" Tobagi e del "povero" commissario, sia nelle cerimonie ufficiali, sia quando si prenota un posto a teatro o il campo per la partita di calcetto con gli amici. Uscire dalla compassione per camminare a testa alta nella riflessione; far parlare i padri attraverso i figli, far parlare l'Italia dalla memoria corta di temi come "libertà di stampa" tanto caro a Walter Tobagi o metterla davanti a storie, come quelle di tante vittime del terrorismo, dimenticate troppo rapidamente nella foga di buttarsi alle spalle gli anni di piombo. "Questi libri, queste storie raccontate da Calabresi e Tobagi - ha osservato Martinazzoli - non è solo memorialistica di quegli anni, ma letteratura civile". Una letteratura civile al servizio della memoria di un Paese che sta cercando di dare un senso a quegli anni, che sta cercando ancora la via della riconciliazione, dopo aver provato la scorciatoia dell'oblio. "Il termine memoria condivisa non mi piace - ha spiegato però Calabresi -, penso piuttosto che ci possano essere delle memorie condivise nel senso che un Paese acquisisce memorie diverse rispettose della libertà di ognuno. Solo così una comunità può andare avanti. Molto è stato fatto, ma ho il timore che il tempo ci sia nemico".
Condividere la memoria per far sentire - si è detto - questi eroi semplici meno soli, meno vinti. "Non saranno vinti ma vincenti - ha concluso Martinazzoli - se crediamo che ci sia qualcosa da fare per loro. Chiediamoci,  per esempio, cosa abbia di diverso il nostro tempo rispetto a quegli anni? C'è più felicità? C'è più garanzia di una convivenza civile? La storia del passato ha un senso se è in grado di consegnarci un po' di memoria del futuro". E il futuro, in questa Italia difficile, è già qui. 

lunedì 8 febbraio 2010

Prezzi: l'inflazione torna su e tu fai la spesa con un sms

Non galoppa, ma cresce. L'inflazione a Brescia dicono gli esperti sale ai livelli (fortunatamente ancora bassi) del periodo aprile - marzo 2009. Così il mese di gennaio a Brescia ha fatto registrare un tasso tendenziale (rispetto a gennaio 2009) del + 1,4% e un tasso congiunturale (rispetto al mese di dicembre) dello 0,2. Crescono nel mese appena trascorso servizi sanitari e spese per la salute, trasporti, abitazione, acqua energia e combustibile. Il rapporto dell'ufficio statistica del Comune di Brescia (che come al solito troverete ricco di dati in coda a questo post) si conclude con una valutazione non particolarmente confortante che il trend segnala per il futuro un non troppo lento ritorno ai valori di inflazione pre crisi conomica, quindi a valori di inflazione dell'ottobre-novembre 2008. Insomma, per ora ad uscire rapidamente dalla crisi sembrano solo i prezzi.
E su questo fronte segnaliamo il ritorno di una interessante iniziativa "Sms consumatori", un servizio già sperimentato anni fa dal Ministero per le politiche agricole ed ora entrato a pieno regime. Di cosa si tratta?
"Sms Consumatori - si legge nel sito internet dell'iniziativa -  è un servizio completamente gratuito di informazione sui prezzi dei principali prodotti agro-alimentari tramite messaggistica Sms.L'utente avrà a disposizione il numero 47947 (ora è disponibile anche il 40940, ndr) dove inviare un messaggio per la richiesta dei prezzi. Digitando solo il nome del prodotto agro-alimentare di cui si vuole conoscere il prezzo e inviando il messaggio, l'utente riceverà le informazioni sulle singole varietà del prodotto medesimo, e precisamente: prezzo medio nazionale all'origine e all'ingrosso, aggiornato con cadenza settimanale, e prezzo medio di vendita macro regionale (Nord, Centro e Sud), rilevato giornalmente".
Così potremo scoprire che un chilo di pane ha un prezzo medio di 2,70 euro, ma che al Nord costa 3,14 euro e al Sud 2,45 euro, così come all'origine viene pagato 0,15 euro e all'ingrosso 0,32 euro e il consumatore lo compra in panetteria a 2,87 euro e al supermercato a 2,67. Numeri che ci fanno capire molte cose e molte disparità in questa Italia a due velocità.
Ma come si formano questi dati? "I prezzi al dettaglio, imputati da 44 rilevatori sparsi sul territorio nazionale (fra le città c'è anche Brescia grazie ad un accordo con Federconsumatori, ndr) - spiegano a Sms consumastori -, sono giornalieri e vengono rilevati il martedì, il mercoledì, il giovedì, il venerdì e il sabato, mentre per la domenica e il lunedì è valida l'ultima imputazione del sabato. Gli esercizi coinvolti nella rilevazione dei prezzi al dettaglio sono circa 2200 e prevedono categorie merceologiche diverse: discount, ipermercato, mercato, supermercato e negozi di ortofrutta, macellerie, pescherie e alimentari".
Previsti anche servizi aggiuntivi per l'utente tramite il sito http://www.smsconsumatori.it/. "L'utente - spiegano- potrà segnalare da questo sito internet, previa registrazione alla community e attivazione del suo profilo, un eventuale prezzo anomalo riscontrato o il non rispetto delle normative in materia di sicurezza alimentare, etichettatura dei prodotti e condizioni igenico-sanitarie del punto vendita, compilando compilando il formulario in homepage. Tutte queste informazioni saranno inviate alle Associazioni dei Consumatori che partecipano al progetto. Dal sito internet, l'utente inoltre, può accedere a servizi aggiuntivi, quali: le schede prodotto dettagliate, il carrello della spesa, il borsino dei prodotti. Con il carrello della spesa è possibile simulare un acquisto di prodotti e verificarne il prezzo totale, agli utenti registrati è consentito di memorizzare le informazioni e ritrovarle all'accesso successivo. Con il borsino invece si visualizza l'andamento dei prezzi dei singoli prodotti rispetto alla rilevazione precedente".
A questo punto anche io ho fatto la spesa mettendo nel carrello i seguenti prodotti: carote, cavolfiori, latte fresco intero, pane, pasta corta, pollo (petto), pomodori rossi a grappolo, radicchio di Chioggia, uova (dimensione media in confezione da 6), vitellone (un chilo di fettine) e zucchine. Oggi la mia spesa l'ho pagata 36,7 euro come prezzo medio italiano, ma visto che abito al Nord in realtà dovrei sborsare 38,85 euro, mentre se fossi in vacanza al Sud spenderei 34,20 euro. Infatti solo il latte e il radicchio di Chioggia costano meno al Nord che al Sud d'Italia. Veramente una magra consolazione.


L'inflazione e i prezzi a Brescia nel gennaio 2010



venerdì 5 febbraio 2010

Morgan, l'etica e l'ipocrisia. Due opinioni

Di Marco Castoldi in arte Morgan si è detto e stradetto e mentre sul suo sito si legge, in una nota datata 3 febbraio del suo entourage, "Vorrei invitarvi a sospendere ogni giudizio rispetto a quanto sta accadendo intorno a Morgan", noi lo prendiamo in parola e facciamo parlare gli altri. In particolare consiglio la lettura di Massimo Gramellini su La Stampa e di Aldo Grasso sul Corriere. Il primo traccia un'analisi sul caso finendo per dipingere un'Italia bananiera che ha tre sostanziali modi per affontare casi come questo: "La prima caratteristica delle polemiche all’italiana - scrive - è che, un attimo dopo che sono scoppiate, non si capisce già più di che cosa parlano.(...) La seconda caratteristica delle polemiche all’italiana è l’immediata trasformazione del capro espiatorio in figliol prodigo. (...) La terza caratteristica delle polemiche all’italiana è che il Pd sta zitto quando dovrebbe parlare, ma se c’è da rimanere zitti, si può star sicuri che parlerà".
Grasso, invece, parte da uno stupore che ha colto molti in questi giorni: "Mai avremmo immaginato che un giorno il Festival di Sanremo sarebbe diventato la misura etica del nostro Paese". Transita per un'amara constatazione: "Anche questa storia, iniziata come tragedia, è finita allegramente in farsa". E approda ad una santa verità: "La cura di disintossicazione che Morgan dovrebbe fare è quella del silenzio, della discrezione, della riservatezza. E ricordarsi che spesso in tv, come cantava un suo idolo, Fabrizio De André, «la gente dà buoni consigli sentendosi come Gesù nel tempio, la gente da buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio...»".
Due contributi, quelli di Gamellini e Grasso, come al solito da leggere per intero.





L'Italia di Morgan di Massimo Gramellini




La vera terapia? Quella del silenzio di Aldo Grasso



Leggi l'intervista a Morgan che ha scatenato il caso




giovedì 4 febbraio 2010

Il senso civico in calo: le colpe dei cittadini e della politica

Senso civico. Coscienza che il cittadino ha dei propri doveri e quindi anche delle proprie responsabilità nei confronti dello stato e della comunità.
da Tullio De Mauro - Dizionario della lingua italiana
 Il sondaggio dell'istituto Ipsos è stato presentato nei giorni scorsi dal Comune di Milano, che lo ha commissionato e pur riguardando, nelle risposte solo la grande città del Nord, le conclusioni sono facilmente esportabili, soprattutto perchè il tema è uno di quelli da cui nessuno dovrebbe sottrarsi: il senso civico.
"Il 58% dei milanesi - informa una nota del Comune di Milano - ritiene che il senso civico sia diminuito rispetto a 10 anni fa, ma per il 49% l’educazione è il metodo più efficace rispetto alla prevenzione (15%) per migliorare il rispetto altrui. I comportamenti maggiormente stigmatizzati sono le ‘bustarelle’ in cambio di favori (27%), l’evasione fiscale (27%), l’assenza dal lavoro per ‘falsa’ malattia (12%), l’abbandono dei rifiuti in un luogo pubblico (8%), il non effettuare la raccolta differenziata (3%).
La ricerca mette in evidenza come la guida in stato di ebbrezza sia ritenuta l’azione più dannosa per la sicurezza stradale dal 36% dei milanesi (solo il 2% nel 2002); al secondo posto il mancato rispetto del rosso (25%, in netto calo rispetto al 49% del 2002), seguito dal telefonare mentre si è al volante (8%, contro l’1% del 2002)".
Insomma, il nostro senso civico si stempera, si annacqua così come il nostro spirito solidale, la nostra voglia di essere comunità. Il nostro senso civico cala quasi proporzionalmente alla crescita delle nostre paure, dei nostri timori, dei nostri isolamenti, della nostra indifferenza, tanto che ormai tra i consigli a chi viene borseggiato per strada si trova anche quello di non gridare "al ladro" perchè tanto nessuno ti ascolta, ma è meglio urlare "al fuoco" perchè forse, in quel caso, qualcuno volge lo sguardo verso di te.
Riconquistare il senso civico, insomma, vuol dire anche riconquistare spazi, riconquistare dignità di cittadini, rubare spazi al degrado, costringere la politica a fare proposte che vadano oltre le ronde, oltre le militarizzazioni, oltre le beghe di posizioni. Proviamo a chiederci se sia meglio costruire steccati o conquistare territori, se sia più proficuo riempire un'area degradata di videocamere o occuparla con una civica, comunitaria invasione di uomini e cittadini?
Già, ma quanto senso civico esiste oggi nei nostri politici, locali e nazionali? Quanta etica, quanta coscienza del bene comune troviamo nei Municipi o in Parlamento? Quanto investe la politica in educazione, principio unanimamente riconosciuto come palestra fondamentale per costruire il senso civico? Quanto noi stessi, genitori, investiamo nel costruire il senso civico dei nostri figli?
Domande semplici, piccoli esami per la nostra coscienza che forse - come si diceva un tempo - ci potrebbero aiutare a costruire un mondo migliore.
 
UN VIDEO COMMENTO:

 
CHI HA UCCISO IL SENSO CIVICO? DA SETTIMO TORINESE UN'INDAGINE IN STILE C.S.I.

mercoledì 3 febbraio 2010

Se i figli feriti parlano dei padri uccisi si può ancora sperare...


"E per chi rimase fu qualcosa di molto simile a un naufragio, a un evento senza ritorno, una voragine in cui si può sprofondare per sempre. O da cui invece si può ripartire raccogliendo la propria memoria e la propria identità, ritrovando la voglia di vivere, spingendo la notte più in là"
Mario Calabresi (da "Spingendo la notte più in là")
Andrebbero letti come una trilogia di successo, anche se non è un giallo avvicente, è la trilogia di un dolore che si trasforma in tributo, che si muta in una ricerca, che cammina attraverso le macerie degli anni delle bombe e del terrorismo alla ricerca di un perchè, alla caccia di un motivo, di un pretesto, di una mano tesa per poter ricominciare.


La trilogia è la trilogia dei figli: di Mario Calabresi ("Spingendo la notte più in là" , Mondadori), Benedetta Tobagi ("Come mi batte forte il tuo cuore", Einaudi) e Umberto Ambrosoli ("Qualunque cosa succeda", Sironi). I figli di un commissario di polizia, di un giornalista- sindacalista, di un professionista incaricato, da liquidatore, di mettere ordine nel verminaio della Banca Privata di Michele Sindona. Tre padri uccisi, come si dice, nell'adempimento del proprio dovere, tre giusti che hanno lascito famiglie in lacrime, figli in fasce. Quei figli che ora cercano i padri e lo fanno scrutando ciò che resta i questi anni, le domande inappagate, le ingiustizie che non finiscono mai, le calunnie e le mistificazioni, la società e lo stato incapaci di dire tutto per voltare pagina.
Tre figli che, in una iniziativa di grande spessore, a 36 anni dalla Strage di piazza della Loggia a Brescia, Casa della  Memoria, Comune e Provincia di Brescia, portano sul palco a parlare di quegli anni, di quei lutti di quella voglia di capire in un percorso che una persona caparbia come Manlio Milani (motore dell'associazione vittime di Piazza Loggia) ha intrapreso da tempo: costruire una memoria, completa, senza reticenze, con i giusti spazi per la giustizia e la riconciliazione, dalla quale far ripartire la società civile, così come è ripartito il Sud Africa del dopo Aphartheid.
Mario Calabresi e Benedetta Tobagi si confronteranno con Mino Martinazzoli il 9 febbraio alla 20.45 all'Auditorim S.Barnaba di Brescia, Umberto Ambrosoli 10 giorni dopo (Teatro Sancarlino a Brescia, ore 18) in compagnia degli autori del libro "Il caffe di Sindona".
Due iniziative che aiutano a capire, due serata in cui i figli di quei padri vilipesi dagli eventi ci daranno la forza per ricordare, ripartire e continuare a sperare.