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venerdì 19 febbraio 2010

E' il tempo delle sfide: reinventarsi il mestiere, ovvero l' "Ultima notizia"

"Gli affannati eredi di Gutenberg e gli equivoci pionieri di Google, i social network che hanno eletto Obama e i tecnocrati che decidono come leggeremo nel futuro. Stiamo costruendo l’informazione senza carta o il giornalismo senza informazione?"
(dalla presentazione del libro "L'Ultima notizia" di Massimo Gaggi e Marco Bardazzi - Rizzoli editore)





Anni orribili, quelli della crisi globale, per l'editoria. Entro la fine del 2010 - si legge nell'ultimo numero del periodico dell'Inpgi, l'ente di previdenza dei giornalisti - si stima che oltre 700 professionisti lasceranno le aziende, al termine di procedure di ristrutturazione aziendale che nel 2009 non hanno risparmiato quasi nessuno in una politica di contenimento dei costi resa indilazionabile dal calo degli introiti pubblicitari. La crisi ha così accelerato gli interrogativi sul futuro della professione che le nuove tecnologie hanno fatto invecchiare di colpo. Che ne sarà dei giornali, che volto avrà la nuova informazione? Domande ricorrenti di questi tempi e al dibattito, in questi giorni, si è aggiunta la fatica letteraria di Massimo Gaggi e Marco Bardazzi, il primo inviato del Corriere negli Usa, il secondo giornalista della Stampa e per nove anni corrispondente dell'Ansa dagli Stati Uniti. Insieme hanno scritto per Rizzoli "L'ultima notizia. Dalla crisi degli imperi di carta al paradosso dell'era di vetro", ovvero un viaggio molto americano nell'informazione ai tempi delle nuove tecnologie.
Ed è subito dibattito in questo universo giornalistico che sta cercando un po' se stesso, disorientato dagli eventi e dalle crisi. Un dibattito con due autorevoli contributi come quelli di Aldo Grasso sul Corriere di mercoledì 17 febbraio e di Mario Calabresi su "La Stampa" dello stesso giorno.
 "La radio - scrive Grasso in "Le tre C della nuova informazione" - ha impiegato trentotto anni a raggiungere la soglia dei 50 milioni di ascoltatori. Alla tv ne sono stati necessari tredici. Internet ha toccato quota 50 milioni di utenti in soli quattro anni, e lo stesso traguardo è stato raggiunto dall’iPod in poco meno di tre». Quella a cui stiamo partecipando, volenti o nolenti, è la più grande rivoluzione mai avvenuta nel campo delle comunicazioni. Non solo per celerità (gli anni sono diventati mesi, i mesi giorni, i giorni ore) ma per il radicale cambiamento in atto nell’universo mediatico. Questa mutazione ha un nome e si chiama convergenza.
Convergenza significa che il futuro della comunicazione è qualcosa che va ben oltre la vecchia teoria secondo cui in una società la struttura mentale delle persone e la cultura sono influenzate dal mezzo di comunicazione egemone (il famoso slogan di McLuhan «il medium è il messaggio»). Convergenza è la voce del molteplice, dell’indiscernibile, dell’ibridato. Nel settore delle telecomunicazioni, il cambiamento basilare consiste nel fatto che ciascun medium non è più destinato a svolgere un singolo tipo di prestazione, ma è in grado di diffondere più generi di servizi (radio, cellulare, tv, social network, ebook e altre forme interattive). E se è vero che i media formano nuovi ambienti sociali che includono o escludono, uniscono o dividono le persone con modalità inusuali, è altrettanto vero che i cambiamenti dei media inaugurano rituali inediti, collettivi e personali".
Il mondo cambia e i giornali, intesi come "medum" cartaceo di informazioni, invecchiano precocemente, ma, nonostante tutto, c'è spazio per rigenerarsi. Ne è convinto Calabresi quando scrive nel suo "Senza giornalisti che giornalismo è?": "L’anno delle opportunità per il giornalismo è cominciato con quasi quattro settimane di ritardo: il 27 gennaio. Quel giorno il boss della Apple Steve Jobs ha svelato la sua tavoletta digitale, quella via di mezzo tra un computer e un telefono che prende il nome di iPad, indicando una possibile strada per l’informazione del futuro. Come per l’economia, anche per i giornali con il 2009 i peggiori incubi si sono materializzati: crollo della pubblicità, diminuzione dei lettori, fallimenti e riduzione di organici.
Molte sentenze di morte del giornalismo, della carta e della professione di chi scrive queste righe sono state pronunciate negli ultimi mesi: sono convinto siano ingenerose e sbagliate, così come non penso che l’iPad sarà la soluzione di tutti i problemi. Ma il genio di Steve Jobs ha avuto ancora una volta un merito fondamentale, quello di rimettere in circolo speranza, creatività e voglia di parlare di futuro.
Ogni crisi impone di ripensarsi, di mettere in un angolo le «certezze» e di coltivare dubbi: questo è certamente doloroso ma anche affascinante e oggi nel mondo, in Occidente soprattutto, c’è una quantità di discussione sul futuro dell’informazione che non ha paragoni con nessuna stagione del passato".
Primo (convengono entrambi i recensori della fatica di Gaggi e Bardazzi): rigenerarsi. Secondo: confrontarsi, noi della "generazione Gutenberg" con i "digital native", i nativi digitali, che hanno scarsa confidenza con libri e giornali e che vivono nella convinzione che l'informazione è solo "free". Terzo: non abdicare allo spirito critico, aperti a ciò che di buono c'è nella novità, ma consapevoli che di cose avariate in rete ne circolano tante.
Rigenerarsi, prima di tutto, vuol dire essere consapevoli che nulla sarà più come prima. "Non tanto - scrive Aldo Grasso -per il mito del citizen journalism (l’utente che, grazie alle moderne tecnologie, si trasforma in informatore) che può funzionare bene nei casi di cronaca, negli incidenti, nelle tragedie, ma che rivela tutta la sua fragilità quando si sale di livello e si passa a quello dell’interpretazione. Con la rete, il giornalista deve reinventare le sue competenze, capire che la convergenza comporta un uso simultaneo di più media (la scrittura, ma anche la radio, il video, eventualmente i social network). Come sostengono Gaggi e Bardazzi, «Internet e i social network hanno fatto emergere quella che potrebbe essere definita la "regola delle tre C" della comunicazione del futuro: condivisione, comunità e conversazione»".
"A queste - gli fa eco Calabresi -, il giornalismo porta in dote le sue «3 C» storiche e irrinunciabili: «Contenuti, credibilità, creatività»". Perchè se si può prescindere dal medium, non si può prescindere dalla professionalità del giornalista, dalle sue doti, dal suo mestiere, da una informazione autorevole e che come tale, per crescere e svilupparsi deve essere a pagamento. "La gente - osserva, infatti, Calabresi - continuerà ad avere bisogno di informazioni di cui fidarsi per le scelte di tutti i giorni, dal lavoro agli investimenti, dalla salute all’educazione dei figli. Questo non significa pensare che i giornalisti siano i depositari della verità, ma riconoscere che - pur con tutti i loro limiti - le redazioni «tradizionali» restano luoghi dove si sviluppa una narrativa comune per la società. Se svaniscono, se scompare il giornalismo, è a rischio la democrazia stessa. Può sembrare un’affermazione eccessiva perché la rete digitale appare sempre più caratterizzata da trasparenza e apertura: una grande casa di vetro. «Ma la casa di vetro - mettono in guardia Gaggi e Bardazzi - è anche molto fragile, tanto più che viviamo in un’epoca nella quale i professionisti della manipolazione dell’opinione pubblica sono pagati assai meglio di quelli dell’investigazione giornalistica»".
Insomma la sfida è aperta per questa professione che, per dirla con il pensiero di un grande mio ex direttore come Piero Agostini (vedi le citazioni nella striscia a fianco di questo post) resta il mestiere più bello e affascinante del mondo.


DAL 21 AL 25 APRILE SI TERRA' A PERUGIA IL FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL GIORNALISMO: ECCO LA CONFERENZA STAMPA DI PRESENTAZIONE.

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