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martedì 16 febbraio 2010

Via Padova: alla ricerca dei rimedi

I disordini di via Padova a Milano continuano a far discutere. Oggi Angelo Panebianco sulla prima pagina del Corriere della Sera spiega "Come si difende un quartiere" puntando il dito contro due aspetti sostanziali: la clandestinità e le dinamiche immobiliari che fanno nascere i ghetti.
Sul primo aspetto usa parole dure: "Combattere l'immigrazione clandestina è difficilissimo. Ma lo è ancora di più se tanti operatori, religiosi e settori di opinione pubblica mostrano un'indulgenza che sfiora la complicità verso il fenomeno. Come è fin qui accaduto. Che senso ha, in nome di una sciatta e del tutto ideologica «difesa degli ultimi», disinteressarsi delle gravissime conseguenze che la clandestinità porta con sé e che sono destinate a pesare sia sugli italiani che sugli immigrati regolari? Le probabilità di scontri etnici, quanto meno, diminuiscono se la clandestinità viene arginata e i facinorosi allontanati".
Un tema forte, difficile, ma sul quale Panebianco mi sembra la metta giù un po' troppo semplice: non è il permesso di soggiorno che da la patente di cittadino per bene è il rispetto delle regole. Basti pensare che aver allargato i confini dell'Europa a molte nazioni che stanno a Est non ha risolto i problemi di convivenza, ha semplicemente rimodellato i termini linguistici del problema (i romeni, tanto per capirci, non si chiamano più extracomunitari). Il tema vero è quello del controllo del territorio con o senza clandestini, che se si decide che vanno combattuti ed espulsi, vanno contrastati con armi efficaci, altrimenti è tutta e solo propaganda.
Il secondo aspetto preso in esame da Panebianco riguarda il pericolo della ghettittazione di interi quartieri, della svendita di intere zone di città. Sul punto Panebianco spiega: "I ghetti si formano perché l'afflusso di immigrati spinge le persone che temono un deprezzamento eccessivo della loro proprietà a vendere. E quando il deprezzamento è compiuto, il quartiere si riempie di immigrati poveri. E' difficile bloccare questi processi".
Stamattina passavo per uno dei quartieri storici di Brescia, il Carmine, da sempre terra di frontiera (un tempo ci viveva la "mala" locale, poi l'immigrazione selvaggia con qualche grosso problema di ordine pubblico). Ricordo gli anni in cui le case fatiscenti erano in mano ad un pugno di proprietari italiani che le affittavano a decine di immigrati che saturavano interi immobili spesso pericolanti. Ricordo anche che il Comune usò il pugno e la carota per riqualificare il quartiere: la minaccia della confisca degli immobili abbandonati a se stessi e la condivisione dei processi di riqualificazione urbana. Ricordo anche gli elicotteri delle forze dell'ordine a sorvolare all'alba i vicoli e intere gang straniere, che avevano il controllo dello spaccio, a finire dietro le spalle, ricordo vigili urbani e polizia erigere in quel quartiere posti di guardia e commissariati. Oggi il Carmine a Brescia non è certo come il quadrilatero della moda a Milano, ma è un quartiere storico con una dignità restituita, una faccia in gran parte pulita e una convivenza possibile.
Insomma, il rischio banlieu di cui si diceva in un post di ieri può essere combattuto come lo ha combattuto Vito Lippolis che a Milano ha un bar vicino al luogo dell'omicidio. La sua ricetta è semplice: "Se le istituzioni facessero rispettare le leggi ai negozietti che vendono birre fino alle due di notte, forse le cose andrebbero meglio. Qui nel mio locale le regole sono sacre: niente alcol di mattina, non si urla, chi grarra esce". E i clienti del signor Vito sono al 70% stranieri.



NON DIMENTICHIAMO AHMED MAMDOUH
In questa storia non dimentichiamo che c'è un ragazzo morto per una banale lite tra giovani di etnie diverse. Ecco l'appello al ricordo di don Gino Rigoldi

"Posso chiedere a questa mia Milano un poco di pietà per un giovane di diciannove anni che ha perduto la vita su di un marciapiedi di Via Padova? Ahmed Mamdouh non è soprattutto un extracomunitario, non è soprattutto un arabo islamico, è un ragazzo, l'unico figlio di una coppia di gente troppo povera. Nato in una città dell'Egitto, arrivato in Italia all'età di quindici anni a cercare fortuna per sé e la sua famiglia, panettiere saltuario in nero. Non era un clandestino perché aveva ritirato il suo permesso di soggiorno da pochi giorni e lavorava, faceva il pane e faceva economia per mandare un aiuto ai genitori che aspettano lui e il piccolo aiuto che faceva arrivare appena poteva.

È troppo chiedere a questa mia Milano una lacrima da condividere con due genitori poveri e soli, disperati per aver perduto l'unico figlio? Chiedo la pietà che non è condoglianze di convenienza, rassegnazione senza direzione, bisogno di dimenticare dietro a parole buone di circostanza. Ho sentito molte voci di persone responsabili. Dalla solita «tolleranza zero» al rimbalzo delle colpe, alla caccia all'uomo casa per casa , finalmente anche al buon senso di chi chiede una nuova politica della accoglienza e dell’integrazione. Ma non dobbiamo dimenticarci del ragazzino Ahmed che ora ha la sua casa in una fredda cella dell' obitorio come se fosse diventato invisibile, sparito.

Si dice che chi lo ha ucciso sia un sudamericano, magari di una banda di giovani sbandati. Anche loro stranieri nella nuova patria, figli di nessuno. Il colpevole deve essere punito e spero sia arrestato presto. Ma anche questi ragazzi dell' America Latina sono affidati a noi. Sono anche loro figli nostri, affidati a noi perché ora vivono con noi a Milano. Nessuno vorrà tollerare le violenze ma proprio non possiamo cercare un dialogo, il tentativo di far percorrere anche a loro la strada della integrazione, di una vita sociale ordinata e pacifica?

Io so che è possibile, nei quasi quaranta anni di vita nel carcere e nelle periferie ho visto con i miei occhi cambiare e diventare persone buone e positive, vite disperate e violente. Ho visto giovani latinos diventare dei bei calciatori, degli appassionati di musica rap, prendere passione per i libri e la scuola, pregare con devozione ad una Messa. Se siamo forti noi milanesi e noi siano forti di cuore e di mente, potremo far diventare questo dolore e la risposta alla violenza un impegno di umanità".
don Gino Rigoldi

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