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mercoledì 12 gennaio 2011

Giornalismi: tra promesse e sacrifici

«I giornali non moriranno, ma non stanno certo bene. Questo deve essere chiaro a tutti. I giovani li abbandonano a favore di internet, nel 2009 la diffusione è scesa ai livelli del 1939, la pubblicità è calata del 16% e nel 2009 i ricavi dei quotidiani sono calati del 20% al netto dell'inflazione. Oggi i giornalisti devono dare prova di flessibilità per lavorare anche con strumenti differenti. L'innovazione si fa con chi conosce bene il mestiere. Gli editori si salveranno solo se sapranno mettere in campo la qualità». Ho copiato qui alcune frasi dell'intervento di ieri di Carlo De Benedetti, editore del Gruppo Repubblica-Espresso, al congresso nazionale della Federazione nazionale della stampa italiana (il sindacato dei giornalisti)in corso in questi giorni a Bergamo.
Prima di addentrarsi nelle discussioni in sindacalese stretto, in questo con liturgie non troppo dissimili da quelle di un sindacato classico, il congresso ha lasciato spazio ad interventi esterni e così al contributo di De Benedetti hanno fatto seguito quelli di Fedele Confalonieri (Mediaset) e Piegaetano Marchetti (Rcs). Tutti a parlare di innovazione, cambiamento, qualità, multimedialità, di un giornalismo che potrebbe essere immortale solo se si rinnovasse.
A me sinceramente sembra di stare (con tutti i distinguo del caso, è ovvio) davanti a tanti novelli Marchionne che dicono bisogna lavorare di più (discorso corretto soprattutto nelle grandi strutture editoriali), dare più qualità (richiesta che dovrebbe essere ovvia), dare maggiori servizi e aprirsi alla multimedialità (prospettiva sensata visto che è là che il lettore si sta dirigendo). Bene, ma cosa abbiamo visto fino ad ora? Abbiamo visto tagli occupazionali (approfittando della legge sull'editoria in crisi, sono stati prepensionati centinaia di colleghi  e molte "grandi firme"), risparmi sui costi generali, persino ridimensionamento dei formati e della foliazione (migliaia di euro di carta in meno) per far fronte ad un crollo verticale della raccolta pubblicitaria. Cosa non abbiamo visto o visto poco? La salvaguardia di un patrimonio di qualità del giornalismo italiano (fior di inviati mandati in pensione a 57 anni, esperti di giornalismo di inchiesta collocati a riposo, nel nome della riduzione dei costi e non certo con un occhio al peso specifico del prodotto), gli investimenti sulle strutture multimediali tutto sommato ridotti, soprattutto sulle piccole testate, a partire da quello che dovrebbe essere la benzina per il motore (la pubblicità, che sul web continua ad essere spesso trattata da molti gruppo come la cenerentola, anche in termini di innovazione, di scoperta di nuovi mercati e di conoscenza approfondita dei nuovi linguaggi imposti dal web). Questo è lo scenario (tagli sprint di uomini e di mezzi, con calma e per piacere quando si tratta di fare investimenti), con buona pace delle dichairazioni di conquista delle nuove frontiere del giornalismo, snello, di qualità, multimediale. Insomma in questi scenari non troppo confortanti fatti di sacrifici richiesti e subiti e di tante promesse che faticano a decollare resta determinante un'opera di chiarezza sulle responsabilità di ognuno, giornalisti ed editori. Un passo determinante per capire - facendo sintesi di ogni discorso e prendendo in prestito un'esperssione utilizzata in tv l'altra sera dal vicedirettore del Corriere Massimo Mucchetti parlando del caso Fiat (vedi il post precedente) -: "chi fa il maschio e chi fa la femmina". Per evitare che a qualcuno rimangano i benefici e ad altri solo i sacrifici.

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