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venerdì 21 gennaio 2011

Giornalisti: pagine e storie che non ci sono più

Oggi è morto a 76 anni Giulio Obici, ex inviato di Paese sera, un giornalista che si era occupato nella sua carriera dei mille misteri italiani. Un professionista che aveva scelto il lago di Garda come buen retiro. Cercando notizie su di lui mi sono imbattuto in alcune pagine di Marco Nozza, storico inviato de Il Giorno, che tratteggiava una categoria giornalistica che, vista oggi, sembra tanto lontana: quella del "pistarolo", del giornalista che attraversava gli anni della strategia della tensione con il gusto per l'inchiesta, il fiuto per l'indagine. Un giornalismo fatto di scarpe consumate e chilometri macinati: senza veline, senza uffici stampa, senza timori reverenziali verso nessuno, ma con tanta autorevolezza e tanto mestiere.
Ho letto quelle pagine con un po' di nostalgia, con un po' di invidia per loro (alcuni li ho conosciuti all'inizio della mia carriera con il loro fascino e il loro carisma). Vorrei condividere alcuni stralci di quelle pagine con voi, anche se non siete giornalisti. In questi anni nei quali anche sui giornali spesso si consumano le guerre tra bande, spesso si smarrisce il principio di obiettività e di ricerca della verità mi sembra una buona lettura. Senza nostalgia, ma con la voglia di riscoprire la genuinità di un mestiere non sempre facile.

I PISTAROLI
"Eravamo una compagnia di giro, una brigata di pronto intervento, abbiamo tenuto duro per un decennio, i più testardi anche di più, poi ciascuno è tornato nel suo brodo, non siamo mai diventati una lobby, nessuno di noi ha mai indossato l'eskimo, nessuno di noi ha fatto carriera, mentre molti di quelli che indossavano l'eskimo sono diventati direttori, direttori editoriali, editorialisti, commentatori con fotina, savonarola televisivi, vignettisti buoni per tutti i giornali e tutte le stagioni, da Lotta continua al Corriere della Sera, da Repubblica a Cuore, moralisti osannati a destra, a sinistra e al centro, professionisti dell'antidietrologia, in verità fustigatori di tutte le dietrologie degli altri ed esaltatori di una, la propria.
In principio ci chiamavano, alla francese, pistards noirs (1969-1972). Fu Giorgio Pisanò a battezzarci così sul suo settimanale, il Candido, che pubblicava una rubrica dal titolo «Stupidario Stampa», con ordine d'arrivo settimanale e classifica generale. Nella classifica individuale il primo ero sempre io. Secondo: Giulio Obici, di Paese Sera. Terzo: Marco Sassano, dell'Avanti!, poi passato al Giorno. Quarto: Guido Nozzoli, anche lui del Giorno. Quinto: Giuliano Marchesini, della Stampa (lo chiamavamo Garibaldi per via della criniera). Sesto: Umberto Zanatta, di Stampa Sera. Settimo: Italo Del Vecchio, della Gazzetta del Mezzogiorno (detto Bronson per la somiglianzà con l'attore). Ottavo: Gian Pietro Testa, del Giorno. Nono: Giorgio Sgherri, dell'Unità. Decimi (a pari merito): Fabio Isman, del Messaggero, Filippo Abbiati, del Giorno e Mario Cicellyn, del Mattino di Napoli (il decano della compagnia, e l'animatore). Seguivano Marco Fini, Ibio Paolucci, Nando Pensa, Adolfo Fiorani, la Marcella Andreoli, e poi Corrado Stajano, Giorgio Bocca, Walter Tobagi, la Camilla Cederna e altri ancora che però si sentivano pistards noirs a mezzo servizio. Nello «Stupidario Stampa» avrebbe meritato un posto Gianni Flamini (futuro autore del Partito del golpe, una specie di enciclopedia di tutte le piste, in sei tomi, oltre duemila pagine), ma Pisanò non prendeva in considerazione i giornali dei vescovi, e Flamini era l'inviato dell'Avvenire, quotidiano cattolico. (...)
Passavamo per cronisti d'assalto, gente un po' matta che si divertiva a fare le pulci ai mattinali della questura, a mettere nei guai gli inquirenti incolpando i neri e chiudendo un occhio sui rossi. Non era vero. Resta il fatto che quando è scoppiata la bomba nella Banca Nazionale dell'Agricoltura di Milano, nel dicembre 1969, abbiamo difeso Valpreda fin dal primo momento non per ragioni ideologiche, ma come cronisti, facendo quelle normali indagini che sono Tabe di una cronaca (e di un mattinale) e che gli inquirenti invece non facevano. La cosa in principio ci incuriosì. Poi ci attrasse. Infine ci indignò.
Secondo noi, Pietro Valpreda non era il «mostro di piazza Fontana» come pretendevano la questura di Milano, il governo di Roma, la tivù di Stato (tramite l'esordiente Bruno Vespa) e il Corriere della Sera di Spadolini (tramite Giorgio Zicari, anche lui esordiente). Valpreda era una specie di fornaretto di «porta Cica», porta Ticinese, coinvolto in una macchinazione diabolica, e questa macchinazione, pensavamo, era stata organizzata dai servizi segreti d'accordo con chi voleva che in Italia le cose non cambiassero mai. Noi volevamo invece che le cose cambiassero, a cominciare dal modo di fare la cronaca nei giornali. Odiavamo le veline, cioè le notizie prefabbricate, l'informazione fatta piovere dall'alto. Certo che eravamo sospettosi. Presuntuosi, anche. Cocciuti. Testardi. Arroganti, mai. O quasi mai. Anche tra di noi, certo, allignava sempre qualche tipo intransigente, intollerante, fazioso, che proclamava «con i fascisti non si parla!» e si vantava di non guardarli nemmeno in faccia, i fascisti. Ma questo drappello era minuto, saranno stati tre o quattro, capitanati dalla Tiziana Maiolo, allora rabbiosa giornalista del manifesto. La maggior parte di noi si preoccupava di sentire anche le ragioni di quelli che erano schierati dalla parte contraria alla nostra: ci vantavamo di essere, e di mostrarci, giornalisti «democratici».
La televisione, allora, non era così importante, e così arrogante, come sarebbe poi diventata. Chi scriveva sui giornali aveva diritto alla credibilità indipendentemente dalla faccia che aveva, comparisse o meno sugli schermi televisivi. La gente era abituata a leggere, almeno quella che aveva la curiosità di sapere ciò che stava succedendo dietro l'angolo di casa, e perché stava succedendo, e dove ci avrebbe portati. È stato con l'affermazione della tivù privata, commerciale, che si è venuto formando il fenomeno nuovo del giornalista/conduttore/opinionista, interprete, persuasore occulto (o non occulto), predicatore, portatore di verità, giudice. Da allora in poi fu sufficiente comparire tre volte di seguito in televisione (comportandosi come si deve, televisivamente parlando, cioè secondo le regole del gradimento) per essere automaticamente considerati evangelisti da parte dei telespettatori (non più lettori) indipendentemente dalle cose sensate o meno sensate pronunciate, e per essere quindi catturati come firme da sbandierare in prima pagina, con annessa fotina, da parte di quei direttori della carta stampata che erano sempre più preoccupati di vendere il prodotto per fare contento il padrone, e sempre più spaventati da quel coso, da quell'apparecchio, che gli bruciava le notizie sotto il naso. Spaventati e, nello stesso tempo, irresistibilmente attratti. Fu così che le opinioni di quelli che non comparivano in televisione finirono con il contare sempre meno. Finché non contarono più niente del tutto".
da Il Pistarolo - Saggiatore 




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