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lunedì 1 agosto 2011

D'Avanzo e la lezione del giornalismo di strada

Un direttore che mi ha insegnato molto, Piero Agostini, tanto da diventare un'icona di questo blog (scrolla la colonna qui a destra), diceva sempre a noi giovani giornalisti di provincia, quando il fatto di cronaca locale diventava evento nazionale e in redazione si materializzavano i Gianantonio Stella (Corriere), i Piero Colaprico (Repubblica), i Pino Corrias e i Pierangelo Sapegno (Stampa), i Renato Pezzini (Messaggero): "guardate come lavorano e imparate".
Così metabolizzavamo le grandi attese, le grandi scarpinate dal tribunale alla questura, dalla scena del crimine alla caserma, dalla procura allo studio dell'avvocato. Pigliavamo qualche insulto, ma imparavamo a non mollare mai, senza orari ma con tanto entusiasmo. E quando capitava di dare qualche "buco" al giornale nazionale (noi che a Brescia lavoravamo tutti i giorni e avevamo fonti talvolta insospettabili) arrivava la stretta di mano calorosa del competitor agguerrito ma onesto, il tributo del compagno di strada "famoso", concorrente leale, maestro quanto basta ma senza tirarsela troppo.
Ho ripensato a quegli anni leggendo i ricordi di Giuseppe D'Avanzo, giornalista di Repubblica, uomo di inchieste severe e scottanti, professionista di strada, nonostante qualifiche da editorialista e vice direttore. D'Avanzo, morto sabato per un infarto, era considerato uno dei maggiori giornalisti d'inchiesta italiani. "Mancherà a tutti" ha twittato sabato il direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli, che ha affidato il ricordo del giornalista napoletano (con un passato professionale anche al Corriere) ad un altro mostro sacro del giornalismo italiano d'indagine, Giovanni Bianconi. E' leggendo il suo affettuoso tributo ad un amico ho ritrovato l'essenza di un giornalismo che è fatica, che è giudizio critico, che - per colpa anche nostra - si insegna sempre meno.
"Una sera d' autunno di tanti anni fa - ricorda Bianconi, citando un caso che qualche notte in bianco è costata anche a me - ci ritrovammo insieme al palazzo del Viminale, ministero dell' Interno, il corridoio dove si affacciano gli uffici dei vertici della polizia. Era in corso il sequestro dell' industriale Giuseppe Soffiantini (imprenditore tessile di Manerbio, ndr), e gli investigatori pensavano di aver localizzato nei boschi della Toscana dov' era tenuto l' ostaggio. Era tardi, avevamo già consegnato l' articolo di giornata, ma bisognava saperne di più per quelli dell' indomani. A mezzanotte passata la nostra «fonte», prima di spegnere le luci e andare a casa, ci confidò che nelle ore successive avrebbero tentato un blitz. Io e Peppe ci guardammo in faccia. «Andiamo?», disse lui. «Ma lo vedi che ora è?», provai a dire. «Embè?». Poco dopo eravamo sull' autostrada, dove incrociammo le colonne di macchine della polizia che si avvicinavano al luogo dell' operazione. Arrivammo prima dell' alba, ma non servì a nulla. Il tentativo di liberare il sequestrato andò a vuoto, e aver passato la notte in bianco per giungere che era ancora buio in un posto dove non vedemmo accadere niente, fu perfettamente inutile. «Però abbiamo fatto bene», disse lui con un sorrisetto, quando ormai era giorno pieno, allungandosi sul sedile della macchina con un giornale sul viso, per dormire qualche quarto d' ora. Aveva ragione. Quel tentativo notturno, fatto sulle forze, fu inutile. Ma poteva non esserlo, e dunque bisognava provarci. È una delle regole di questo lavoro: non lasciare nulla di intentato - nemmeno le iniziative più astruse - per inseguire un fatto, raccogliere qualche dettaglio in più. E in questo Giuseppe D' Avanzo è stato davvero un maestro".
Un maestro umile ma mai appagato, come deve essere un giornalista con i gradi conquistati sulla strada. Ne parlavo ieri in redazione: avrei voluto ritargliare il pezzo di Bianconi e affiggerlo in bacheca, fra i turni di chiusura e i comunicati sindacali, affinchè lo leggessimo tutti, noi "vecchi" un po' sfiancati dalla routine, un po' distratti dalla banalità del quotidiano, come i giovani che pensano al giornalismo come a un lavoro con i suoi ritmi e i suoi orari e non ad una professione con i suoi talenti da far fruttare e una vocazione da coltivare.
Ha ragione forse Piero Colaprico quando su Repubblica ha scritto che: "I più giovani, quelli che credono di apprendere le notizie soprattutto da Internet, forse collegano D'Avanzo all'ultima stagione dello scandalo-Berlusconi. Alle sue "Dieci domande" sulla relazione tra il premier e la minorenne napoletana Noemi Letizia, che hanno fatto il giro del mondo, riprodotte da migliaia di media. E poi alle sue "Dieci bugie", scaturite dalle indagini, anche in strada, sui rapporti tra Berlusconi, Ruby Rubacuori e le altre ragazze che frequentavano le feste di Arcore. Ma D'Avanzo era uno che, come si dice, "non guardava in faccia nessuno" e dagli anni Ottanta, tra scoop da prima pagina e inchieste, ha modificato - e sul serio - uno stile giornalistico. Era l'unico a potere e sapere mescolare la cronaca, costruita e impreziosita da notizie esclusive, con i suoi commenti, le analisi, le "visioni". Eppure, decennio dopo decennio di fatiche e di strade - il tempo del giornalista che ama la cronaca è sempre intenso - D'Avanzo era rimasto esigente con se stesso, con le notizie, con la qualità nella scrittura degli articoli. "Quando funzionano, devono fiorire", diceva Giuseppe D'Avanzo, 58 anni da compiere, una quercia di giornalista, e di persona".
Fatiche e strade, gesti e condotte che dovremmo riscoprire e far riscoprire con umiltà per far rinascere la passione. La passione per un giornalismo vero, genuino, onesto e mai sottomesso, che non dimentica i fondamentali che tutti dovremmo avere nel dna. Come li aveva Giuseppe D'Avanzo.
Uno che "da opinionista affermato - conclude Bianconi sul Corriere - continuava a battere questure, tribunali e studi di avvocati alla ricerca di dettagli che potessero dare un senso alla storia che voleva raccontare, o alla tesi che intendeva sostenere. Come un cronista alle prime armi. Fino a scherzarci su, per esempio quando ci ritrovammo nella sala d' attesa di una stazione dei carabinieri dell'hinterland napoletano, per rincorrere le orme di chi aveva ammazzato e bruciato il cadavere di un ragazzino di nove anni. Si stava facendo tardi e noi stavamo ancora aspettando, stanchi e un po' sfiduciati. «E pensare che io ho un contratto da editorialista», disse prendendosi in giro. Ma bisognava stare lì. Poteva servire. E servì".



I LINK

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FEDERICO GEREMICCA SU LA STAMPA

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