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giovedì 31 marzo 2011

Scene da un'Italia in codice rosso

La notte è il tempo dei bilanci della giornata e ieri davanti alla tv ho sbocconcellato scene di vita quotidiana di un giorno qualunque in questa penisola strana. Così ho messo giù due righe che sembrano un testamento.

Italia: addì 30 marzo 2011, 150esimo anno dell'era unitaria.
Caro concittadino, caro vicino di casa, compagno di lavoro, caro sconosciuto che passi per strada: questa è un'Italia da codice rosso. E' un Italia da curare, di quei malati che al pronto soccorso arrivano in sirena, hanno la corsia preferenziale e di solito finiscono direttamente in sala di rianimazione, se prima non deviano verso l'obitorio. E' un Italia che si crede Batman, ma è solo Bombolo, che ha il costume del supereroe, ma la pancia da dipendenza da hamburger. Che affronta i problemi come si gioca alla lotteria, incrociando le dita, più che i neuroni. Che fa politica come un tempo si faceva la campagna del grano, a torso nudo, con le telecamere delle tv invece delle vecchie cineprese dell'Istituto Luce.

Guardo video come questo e mi chiedo in che cinematografo sono andato, ma purtroppo è lo spettacolo triste della politica.



Rivedo scene come queste e mi chiedo dove è finito il legislatore saggio e lungimirante che fa gli interessi di una nazione e di tutti i cittadini.



Guardo contestazioni così e mi chiedo se alla morte per cause naturali questa Italia non stia preferendo il suicidio.

mercoledì 30 marzo 2011

Mediatrade e conflitto di interessi: forse non tutti sanno che...

Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi l'altro giorno è tornato in un'aula di tribunale dopo otto anni. Prima di farlo ha spiegato ai microfoni dell'emittente ammiraglia del suo gruppo televisivo (Canale 5) che si tratta di accuse assurre quelle mosse nei suoi confronti dalla procura di Milano nel cosidetto processo Mediatrade, che ipotizza irregolarità nella compravendita di diritti televisivi. "Sono un perseguitato, mai trattato diritti televisivi" ha spiegato il premier scaricando le eventuali responsabilità su dirigenti del gruppo di cui è stato presidente, ma all'apertura dell'udienza preliminare è balzato all'occhio degli esperti un particolare non secondario: che fine ha fatto la costituzione di parte civile del ministero del Tesoro?
E' normale, infatti, che in processi di questo genere, di natura tributaria e fiscale (è accaduto anche nel procedimento che ha portato in tribunale gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana) l'avvocatura dello Stato sieda fra le parti civili per tutelare gli interessi del ministero del Tesoro, danneggiato dalla presunta frode fiscale. Così - ha spiegato oggi sul Corriere della Sera Luigi Ferrarella - è accaduto per il processo Mediatrade: espletata una verifica preliminare sull'esistenza di un eventuale danno, il ministero del Tesoro ha autorizzato l'avvocatura dello Stato a costituirsi parte civile, la costituzione, però, è stata bloccata indovinate da chi? Direttamente dalla presidenza del Consiglio.
Insomma: per lo Stato è vietato chiedere i danni  alle società del presidente del Consiglio. Berlusconi sarà anche perseguitato dalla giustizia, ma mostra di utilizzare bene tutte le armi in suo possesso (a proposito, sulla stesso Corriere di oggi, due pagine dopo la notizia di Mediatrade, ampio spazio al triste scempio del diritto che si sta consumando in parlamento sul processo breve "ad usum Berlusconi"), con buona pace del conflitto di interessi.

martedì 29 marzo 2011

Zona 508: nel nuovo numero i detenuti parlano di infanzia


E' uscito il nuovo numero di Zona 508, il giornale edito dall'Associazione carcere e territorio di Brescia e dai detenuti delle carceri di Verziano e Canton Mombello. La parte monografica di questo numero è dedicata all'infanzia. Condivido con voi l'editoriale che ho scritto per questo numero e di seguito l'intera rivista che potrete leggere on line e scaricare in Pdf. Buona lettura.

Quella infanzia che ci fa pensare al futuro

“Ora che avverto quotidianamente l’incedere della vecchiaia, la memoria mi riporta sovente ai luoghi in cui ho vissuto o dove sono passato nei miei numerosi viaggi e che hanno suscitato affetti e sentimenti diversi”.
Enzo Bianchi, priore della comunità di Bose, uomo illuminato, interprete della modernità con l’acume e l’intelligenza di chi sa dialogare con lo spirito (anche lui, paradossalmente, da dentro una cella, quella del monaco), ha recentemente scritto un libro (“Ogni cosa alla sua stagione”, Einaudi) per raccontare i luoghi della sua vita e, soprattutto, quelli della sua infanzia sulle colline del Monferrato. Una vita povera, ma carica di grandi speranze, una vita sulla quale meditare, appagare le nostalgie ma trarre le risorse per andare avanti.
Anche i redattori di Zona 508 in questo numero hanno fatto come il priore di Bose, si sono raccontati partendo dall’infanzia. Partendo dagli amici e dai luoghi che in tanti ricordano con struggente nostalgia: ora perché la nostalgia è quella per un paese lontano, per una persona cara; ora perché rimane il rammarico per le occasioni perse, per le strade non percorse, per una vita che, forse, poteva andare diversamente.
Sono acquarelli di campagne nebbiose e solitarie, di periferie degradate, di città lontane che vivevano però degli stessi giochi, si nutrivano delle stesse inquietudini infantili, delle medesime preoccupazioni di padri e di madri. Così nei ricordi d’infanzia dei nostri cronisti la città marocchina non è molto diversa dalla periferia di una città italiana, entrambe popolate di fatiche e di sogni.
Traspare in alcuni anche la vita che sarebbe stata con la consapevolezza che, forse, con un minimo di sforzo avrebbe potuto anche scrivere, questa vita, un epilogo diverso. Così, sfogliando questo numero, troverete anche i consigli di chi non vuol più rifare gli errori di un tempo, di chi sollecita un’attenzione e un ascolto per i figli, sia pur in condizioni difficili come quelle di un padre e madre carcerati, affinchè siano il più efficace degli antidoti per evitare che le storie si ripetano. Insomma, ricordare l’infanzia è stato per molti come fare memoria, masticare il pane di ieri (per usare il titolo di un altro libro di Enzo Bianchi) per nutrire il presente, per dargli un senso, anche se è difficile, duro, perché non si ha più l’innocente incoscienza dei bambini, ma la spigolosa e arida consapevolezza degli adulti.
E bello leggere l’infanzia dei nostri redattori riscoprendo un po’ la nostra di infanzia, fatta di fughe e voglie di scoprire, fatta di choccanti scontri con la realtà (la bugia del malato di diabete, per mascherare chi si bucava per strada tra i casermoni popolari è patrimonio comune di molti). E un modo per scoprire, magari, quanto investire sull’infanzia sia importante per investire sul futuro di tutti noi; quanto le attenzioni all’infanzia siano importanti per accompagnare i nostri figli a superare ostacoli non sempre facili.
“La vita continua – scrive ancora Enzo Bianchi - e sono gli uomini e le donne che si susseguono nelle generazioni, pur con tutti i loro errori, a dar senso alla terra, a dar senso alle nostre vite, a renderle degne di essere vissute fino in fondo”.
Insomma, anche noi di Zona 508 scrivevano di infanzia ma pensavamo al futuro.
Marco Toresini
da Zona 508 (febbraio 2011)
 Zona 508 Febbraio 2011

lunedì 28 marzo 2011

Strage di Brescia: ascoltare il nemico. La lezione di Milani


"La riconciliazione non è un processo facile. Perché è un processo che non si propone solo di sapere chi è la vittima e chi è il carnefice; il nostro compito è cercare di capire in tutte le sue sfaccettature e in tutta la sua complessità quello che è successo. Credo che questo sia un problema che non riguarda solo l'oggi, ma il futuro. E’ una cosa che abbiamo ribadito più volte nell'ambito della Commissione: che esiste non solo per indagare il passato, ma per ricostruire il futuro".
(Russell Ally, Signor nemico crudele: lei è stato perdonato. In: Diario della settimana, anno III, n.10, 11/17 marzo 1998)

Sabato sera, hotel dell'hinterland di Brescia, fuori manifestanti, striscioni, polizia in assetto anti sommossa, dentro un incontro destinato a far discutere: Manlio Milani, presidente dell'associazione familiari delle vittime di piazza Loggia, incontra gli esponenti di Casa Pound Italia, ovvero i fascisti del terzo millennio. Un incontro storico in una città che ancora si lecca le ferite per un atto di terrorismo che non ha tuttora colpevoli, che solo qualche mese fa ha vissuto l'ennesimo dramma di una assoluzione, di un inchiesta che pur disegnando i contorni non riesce, a distanza di decenni (la strage è del 28 maggio 1974), a delineare i profili di chi mise quella bomba che provocò 8 morti e decine di feriti. Un incontro tra nemici accolto come un'oltraggio dalla rete antifascista bresciana, che boccia l'iniziativa di Milani come "vergognosa". Ma di vergognoso, in questa vicenda, spiace dirlo, mi pare ci sia solo la miopia di quanti non colgono il coraggio del gesto di una persona (tanto antifascista da pagare a caro prezzo questa sua militanza) che si è sempre battuta per la verità e che nel nome della verità è andato fino in Giappone da Delfo Zorzi (uno degli indagati dell'ultima inchiesta giudiziaria sulla Strage), ha parlato in centinaia di scuole, si è confrontato con tutti.
Davanti a quanti non riescono ad uscire da schemi da guerra fredda (tanto da far sorgere il sospetto che da quegli schemi ci si autoalimenti e nell'esistenza di quelle contrapposizioni si giustifichi la propria esistenza) la lezione di Milani rappresenta un segnale forte, un gesto da pioniere che va sostenuto e incoraggiato. Del resto la sua scelta è la diretta conseguenza di un percorso di ricostruzione della verità che passa anche in casa del "nemico" senza rinnegare la propria storia e senza addomesticarla ai compromessi. Del resto basta ascoltare (clicca qui) l'intervista rilasciata dallo stesso Milani a Radio Onda d'urto per capire quanto sia meditato quel gesto. "Questa scelta - ha spiegato - rientra all'interno di un percorso intrapreso da tempo in cui io credo che la ricerca della verità passi attraverso la ricostruzione della storia che coinvolga tutti. Molti aderenti a Casa Pound, poi sono nati ben dopo il '74 e quindi si tratta non tanto di aprire un dialogo, quanto di far sentire loro le nostre posizioni, le nostre ragioni, le nostre convinzioni su come si siano sviluppate le stragi in Italia e porli di fronte alle loro responsabilità".
Un dialogo senza reticenze, insomma, senza sconti. "Ho accettato - ha ribadito Milani nel corso dell'incontro (leggi qui la cronaca di Bresciaoggi) - perché in questa memoria distratta dell'Italia che preferisce rimuovere gli anni'70, è necessario andare oltre le nostre diversità e incontrarci, senza limitarci ad osservare l'orrore in quanto tale, ma nel tentativo di trovare nella memoria elaborata degli insegnamenti utili rispetto al presente e al domani. (...) Quegli 8 morti sono ancora lì, a raccontare i valori di democrazia, lavoro, libertà di espressione. Perché chi compì quella strage voleva sovvertire le istituzioni".
"Senza ascoltarci non andremo da nessuna parte, il rischio peggiore sarebbe il silenzio" ha sostenuto ancora Milani davanti ai microfoni critici di Radio Onda d'Urto e non è un caso che la premessa di questo post sia stata affidata alla riflessione di un componente della Commissione per la verità e riconciliazione nata in Sudafrica per tentare di rimarginare le ferite dell'Apartheid. Un percorso in cui "ascoltare
il nemico" era una delle tappe determinanti per riaffermare un principio che in quella terra di odio razziale fino ad allora non aveva avuto asilo: la tutela dei diritti dell'uomo.
Allo stesso modo in Italia "ascoltare il nemico" e, soprattutto, "farsi ascoltare dal nemico" diventa, grazie a scelte come quelle di sabato a Brescia, determinante per ricostruire un percorso di verità sugli anni '70. Manlio Milani sta imboccando questa strada tortuosa e difficile con il "fiato" del maratoneta. Altri, purtroppo, arrancano, tergiversano, guardano indietro. Così la ferita aperta in questa città dalla strage rischia di non rimarginarsi mai.

venerdì 25 marzo 2011

Mafia a Brescia: e se facessimo il punto?

Gli allarmi si susseguono. Prima la relazione semestrale (clicca qui per leggere le oltre 400 pagine del documento) della Direzione investigativa antimafia che lancia inquietanti segnali spiegando che la criminalità organizzata, 'ndrangheta in primis, sta colonizzando la Lombardia a partire dalle sue province più ricche. "In Lombardia - vi si legge- la ‘ndrangheta si è diffusa non attraverso un modello di imitazione, nel quale gruppi delinquenziali autoctoni riproducono modelli di azione dei gruppi mafiosi, ma attraverso un vero e proprio fenomeno di ‘colonizzazione’, cioè di espansione su di un nuovo territorio, organizzandone il controllo e gestendone i traffici illeciti, conducendo alla formazione di uno stabile insediamento mafioso. Qui la ‘ndrangheta ha ‘messo radici’, divenendo col tempo un’associazione dotata di un certo grado di indipendenza dalla ‘casa madre’, con la quale però comunque continua ad intrattenere rapporti molto stretti e dalla quale dipende per le più rilevanti scelte strategiche. (...) In Lombardia si è riprodotta una struttura criminale che non consiste in una serie di soggetti che hanno semplicemente iniziato a commettere reati in territorio lombardo; ciò significherebbe non solo banalizzare gli esiti investigativi a cui si è potuti giungere con le indagini collegate, ma anche contraddire la realtà che attesta tutt’altro fenomeno e cioè che gli indagati operano secondo tradizioni di ‘ndrangheta: linguaggi, riti, doti, tipologia di reati sono tipici della criminalità della terra d’origine e sono stati trapiantati in Lombardia dove la 'ndrangheta si è trasferita con il proprio bagaglio di violenza”.
Poi, pochi giorni dopo, tocca al governatore della Banca d'Italia (leggi qui l'intero intervento su Le mafie a Milano e nel Nord) mettere nero su bianco valutazioni inquietanti: "Le infiltrazioni nel sistema economico e finanziario sono tuttavia insidiose - scrive Draghi -. Esse sono documentate, tra l’altro, dai dati sulle denunce per riciclaggio di capitali illeciti e per usura, reati più “silenziosi” e tuttavia spesso riconducibili a
sodalizi criminali di stampo mafioso. In Lombardia l’infiltrazione delle cosche avanza, come ha recentemente avvertito la Direzione nazionale antimafia. Le denunce per associazione a delinquere di stampo mafioso si sono concentrate fra il 2004 e il 2009 per quattro quinti nelle province di Milano, Bergamo e Brescia. In quello stesso periodo più dell’80 per cento delle denunce per associazione mafiosa in Lombardia ha riguardato individui provenienti da Sicilia, Calabria, Campania, confermando che al Centro Nord la presenza mafiosa rimane un fenomeno d’importazione. Tuttavia la criminalità locale appare coinvolta in molti
reati pure tipicamente riconducibili al crimine organizzato di stampo mafioso, come l’usura, il riciclaggio e le estorsioni: ne emerge una preoccupante saldatura con le mafie tradizionali".
Ieri sul Corriere il procuratore capo di Reggio Calabria in una lettera ha lanciato un appello al Nord perchè batta l'omertà che rischia di favorire la criminalità: "Come ha documentato l'indagine «Il Crimine» - scrive il magistrato -, frutto della collaborazione tra le procure di Milano e Reggio Calabria e che il 13 luglio scorso ha portato a 300 arresti in tutta Italia, la 'ndrangheta è riuscita a realizzare una vera e propria «colonizzazione» in ampie zone della Lombardia, e non solo, riproducendo la sua peculiare struttura organizzativa con la creazione di decine di locali e con l'affiliazione di centinaia di persone, ma senza mai interrompere il legame essenziale con la terra d'origine a cui sono sempre rimesse le decisioni strategiche. (...)
"Ma la repressione non basta - conclude-. È necessaria la reazione della società civile, con tutte le sue articolazioni, ognuna delle quali può svolgere un ruolo prezioso, innanzi tutto agendo secondo le regole e contrastando il silenzio e l'omertà: così si può sconfiggere questo cancro della società, come l'hanno definito i vescovi italiani, che mette a rischio l'economia e la democrazia del nostro Paese".
Oggi infine gli industriali lombardi promettono di cacciare gli imprenditori che sono vicini ai clan.
Accanto ai rinnovati allarmi sulla criminalità organizzata nel bresciano, ecco affacciarsi poi episodi inquietanti come l'esclusione di 12 azienda dai lavori per la Brebemi perchè sospette collusioni mafiose (con l'arrivo dei lavori per la Tav, il tema si fa di scottante attualità) o il ferimento. con dinamiche da avvertimento mafioso (e per ora nessun investigatore ci ha detto che le cose sono andate diversamente), di un imprenditore di Cazzago San Martino che (sarà un caso?) si occupa proprio di strade e asfaltature.
Scoprire la mafia a Brescia è un po' come scoprire l'acqua calda: a corredare questo post allego un documentario girato qualche anno fa proprio nella nostra città e un mio articolo scritto su Bresciaoggi all'indomani dell'omicidio della famiglia di Angelo Cottarelli, una esecuzione in piena regola i cui sicari, riconosciuti colpevoli dalla Corte d'Assise d'Appello arrivavano da Trapani, giusto per dare un quadro di come le mafie si muovano da tempo all'interno del nostro tessuto sociale ed economico. Ma se il fenomeno è radicato, oggi, dopo operazioni antimafia che negli anni passati hanno offerto uno spaccato inquietante nella nostra provincia (capace di dar vita in Valtrompia ad una "simil-mafia" autoctona), come è la situazione?
In Tribunale è in corso da qualche tempo un processo (noto come il caso Fortugno) che lascia aperti scenari inquietanti su Brescia e la criminalità organizzata, ma pare che il dibattimento su quella definita da qualcuno una 'ndrina del Garda resti quasi un'episodio isolato, nulla nei confronti della maxi inchieste dei decenni passati.
Va tutto bene? I segnali lanciati in questi giorni da investigatori preparati e autorevoli esponenti del mondo economico sono solo allarmismi? Urge fare il punto della situazione. Quantomeno per dirci  (anche se ho qualche dubbio che sia così) che possiamo dormire sonni tranquilli.




LA MAFIA A BRESCIA (come eravamo... non molto diversi da ora)

Brescia tra le spire della piovra? La criminalità organizzata ha messo gli
occhi sulla nostra città? L’efferata esecuzione della famiglia cottarelli,
il sangue sparso copioso in via Zuaboni sembrano aver squarciato il velo su inediti scenari criminali, ma, in realtà, nulla di nuovo brilla sotto il sole pallido e spaventato di questa fine estate tutta sangue e delitti.
Nulla di nuovo per una provincia che ne ha viste tante sul fronte della criminalità organizzata. Che non ha dovuto fare i conti con le guerre di mafia che hanno insanguinato il meridione, ma ha rappresentato un rifugio sicuro per tanti boss: da «don» Raffaele Cutolo, leader della Nuova Camorra organizzata, approdato in una villetta di Soiano negli anni ’77 - ’78, al tempo della sua fuga da Poggioreale; a Felice Maniero, il «bello» e indiscusso capo della «Mafia del Brenta», approdato anche lui da queste parti dopo l’evasione, il 16 dicembre 1987, dal penitenziario di Fossombrone. Rifugi sicuri e amici fidati. Così Raffaele Cutolo poteva contare su Oreste Pagano, rappresentante di biancheria trapiantato sul Garda, poi approdato in Sud America a trafficare droga ( con un contabile di Rodengo Saiano) per i clan della famiglie Caruana - Cuntrera, ora pentito con buona memoria. Mentre Maniero, anche lui saltato il fosso del pentimento, non si è certo lasciato pregare nel raccontare degli amici bresciani e di quel covo dove sarebbero transitati anche 10 chili di esplosivo gelatinoso provenienti da Milano e dagli amici del boss Francis Turatello, nome illustre, da cronaca criminale ormai diventata storia come le bische del Ticinese e il clan dei marsigliesi. Nulla di nuovo, dunque, per una provincia che ha sempre rappresentato, prima come satellite più appartato di una Milano onnivora e supercontrollata, poi come volano in proprio di una criminalità sempre più spinta sulla strada del riciclaggio e del businness finanziario, un granaio ricco. Un ambiente tranquillo solo in apparenza, che ha saputo digerito misteri che rimangono ancora oggi gialli intriganti. Come non ricordare ad esempio la storia di Antonio Messina, catanese fuggito dalla Sicilia, il cui corpo fu trovato nel settembre 1991 sulle colline di Sale Marasino? Era nel bosco da giorni se non da mesi e fu difficile anche capire le cause della sua morte. Ad identificarlo un amico siciliano che si presentò il giorno dopo la scoperta del cadavere ai carabinieri. Come era venuto a conoscenza della morte di Antonio Messina non lo disse, così come tacque - fu l’opinione degli inquirenti - molti particolari su quel decesso. Segreti che si portò nella tomba, visto che quell’uomo, qualche mese dopo fu freddato dai sicari nell’hinterland milanese, allungando una scia di sangue, partita da Sale Marasino e costellata di morti e feroci esecuzioni. Quante efferatezze ha visto il Lago di Iseo, tomba per molti malavitosi! Fu il caso di due amici di origine meridionale scomparsi da Darfo e i cui corpi riaffiorarono negli anni ’90 fasciati come mummie e assicurati a pesanti zavorre. La macabra scoperta fu fatta anni dopo la scomparsa e proprio mentre il caso era stata riaperto sugli schermi della trasmissione «Chi l’ha visto?». Esecuzione di stampo mafioso si disse allora (un boss locale, da sempre indicato come referente delle famiglie calabresi, finì sotto indagine, ma poi l’inchiesta si incagliò senza un nulla di fatto). Così come la mafia si evocò quando, ad esempio, il 17 novembre ’95 il corpo bruciato di Adolfo Pedana, di Villa Literno, fu trovato nelle campagne di Lonato carbonizzato come l’auto nella quale era stato incaprettato. Oppure come quando una sera del settembre 1998 il parcheggio del Centro commerciale «Le Rondinelle» di Roncadelle si trasformò in un’arena. Il toro da freddare era Alessio Magistro, manager tarantino, che nella sua città natale era stato anche presidente di una municipalizzata. Quella notte, poche ore dopo, qualcuno uccise nelle campagne di Brandico Stefano Punzi, avvocato di Taranto, freddato a colpi di pistola e poi bruciato nell’auto - sarcofago. Per Punzi e Magistro fu processato e condannato un boss di Marcianise, al confino in provincia di Brescia, e dal processo emerse che la coppia di professionisti erano emissari della criminalità organizzata, coletti bianchi spediti al nord per fiutare buoni affari, immobili nei quali investire denaro sporco. Così gli inquirenti scoprirono che Punzi e Magistro erano pronti a trattare l’acquisto di alberghi sul lago di Garda, dove avevano già alloggiato in diverse occasioni prima di finire stritolati in quella che aveva tutta l’aria di essere una guerra tra bande. E se stupisce l’efferatezza di via Zuaboni a Urago Mella, che dire della sorte di Giuseppe Leonardo Leonardi e di Alena Koldelocova, ballerina ceka di 19 anni? La coppia, che vive sul Sebino, con interessi tra la nostra provincia e quella di Bergamo, fu trovata il 30 agosto del 2000 in un campo di mais a Erbusco, a ridosso dell’autostrada. Uccisi e bruciati in un linguaggio mafioso che oltre a lasciare pochi dubbi ai compagni del gruppo, era avaro di tracce per gli inquirenti. Un pugno di cenere che rende fragile ogni castello accusatorio. Ma nei fascicoli passati sui tavoli della procura distrettuale antimafia e di altre procure del Nord tracce mafiose a Brescia ne sono state trovate tante da far finire la nostra provincia anche nelle relazioni della Commissione parlamentare antimafia. Così capita di ritrovare Lumezzane in una delle inchieste più estese sulle infiltrazioni delle cosche calabresi al Nord (qui i pentiti raccontano di cresime in riva al Sebino usate come incontri al vertice tra i boss); o un imprenditore di Concesio nella storica «Pizza Connection», la prima grande inchiesta su «Cosa Nostra»; oppure il lago di Garda e i locali della periferia cittadina come i ritrovi preferiti nei quali gruppi vicini alla Camorra avevano basi e interessi economici. In qualche indagine si arrivò ad ipotizzare la presenza di una vera e propria cellula affiliata alle grandi organizzazioni (accadde qualche anno fa con le indagini sulla cosiddetta «Camorra bresciana»), ma la tesi accusatorie non superarono il vaglio giudiziario, sempre avaro a Brescia nel confermare ipotesi di associazione a delinquere. Questo non vuole dire, però, che nei decenni Brescia e la sua provincia non sia diventata terra di conquista. Lo dicono le inchieste giudiziarie, lo confermano le cronache fatte di sangue ed esecuzioni. Stupirsi oggi di quanto accaduto a Urago Mella e come confessare di aver nascosto fino agli orrori di casa Cottarelli la testa sotto la sabbia.
Marco Toresini
(da Bresciaoggi - 1 settembre 2006)

mercoledì 23 marzo 2011

Libia: se si combatte con le nostre armi


Saccheggio il sito di PeaceReport per offrirvi alcuni link che mi sembrano interessanti e parlano delle armi italiane in Libia. Basta una ricerca (l'hanno fatta sul sito pacifista Luca Galassi e su unimondo.org Giorgio Beretta) per capire quanti affari abbiamo fatto con il tiranno. Lascio a voi ogni commento.
Ecco i link:

PeaceReporter - Libia, il mestiere delle armi

PeaceReporter - Italia primo fornitore europeo di armi alla Libia

Libia - La scheda del paese


Nel video qui sotto l'intervento di Gino Strada sulla guerra in Libia da Repubblica.tv

martedì 22 marzo 2011

Libia/2: meglio un anno di negoziati che un giorno di guerra, ovvero come si costruisce la pace

Oggi "Nigrizia", la rivista dei missionari comboniani, ospita una severa analisi del Movimento nonviolento, una realtà attiva dal 1964 che nella home page del suo sito ospita una frase di Aldo Capitini "Noi dobbiamo dire no alla guerra ed essere duri come pietre". Così sotto il titolo "Noi non firmiamo appelli" la rivista ospita una nota alla quale fa da sfondo la frase di Alexander Langer "Meglio un anno di negoziati che un giorno di guerra". Il segno che la pace non si improvvisa e che nessuna guerra è giusta o ammissibile, ma evitarla costa fatica e impegno di tutti.
"Difendere le vittime inermi è doveroso - è l'analisi del movimento non violento - . Quando qualcuno interviene per tutelare i diritti umani e salvare una vita, è una buona notizia. Da quando il samaritano ha soccorso il poveretto incappato nei briganti sulla strada di Gerico, è sempre stato così. Era dovere della comunità internazionale mobilitarsi per impedire che a Bengasi potesse avvenire un massacro (nel 1996 l'Europa si macchiò di “omissione di soccorso” quando non fece nulla per impedire il genocidio a Srebrenica).
L'obiettivo delle due risoluzioni dell'Onu (n. 1970 e 1973) sulla crisi libica è quello di proteggere i civili, gli insediamenti urbani e garantire assistenza umanitaria. L'uso della forza viene invocato per limitare i danni che già sono in corso sul campo, affermando il chiaro rifiuto dell'opzione di occupazione militare straniera, la priorità del cessate il fuoco e della soluzione politica, il rafforzamento dell'embargo militare e commerciale, il riconoscimento del ruolo prioritario della Unione Africana, della Lega Araba, della Conferenza Islamica.
Ci sono però due cattive notizie. La prima è il ritardo spaventoso (e l'ambiguità) con cui si è mossa la diplomazia degli stati, e la seconda è che l'Onu non dispone di una forza di polizia internazionale permanente ma deve affidarsi, di volta in volta, agli eserciti degli stati membri (articoli 43-49 della Carta della Nazioni Unite, in questo caso Francia, Inghilterra, Stati Uniti).Quando la parola passa dalla diplomazia alle armi, succede che le operazioni militari si trasformano subito in guerra. E' quello che sta accadendo in Libia. Gli strumenti utilizzati (bombardieri, caccia, tornado, missili, incrociatori, portaerei, sommergibili, ecc.) sono quelli tradizionali della guerra, gli unici disponibili, pronti, efficienti. Come nei Balcani, come in Iraq, come in Afganistan, viene messa in campo solo l'opzione militare, l'unica che è stata adeguatamente preparata e finanziata. Una cosa è certa: non sarà con un'altra guerra che la democrazia potrà affermarsi nel mondo arabo".
"Noi non firmiamo appelli" dice il Movimento Nonviolento rispondendo a quanti con colpevole ritardo chiamano alla mobilitazione e il tono è risoluto: "Noi non firmiamo appelli che non contemplino una precedente opzione per la nonviolenza costruttiva, né convochiamo mobilitazioni che si limitino a proteste e condanne di ciò che è già avvenuto. Non basta mettere a verbale il nostro “no” alla guerra. Certo, meglio che niente, ma bisogna aggiungere una parola in più: quando la guerra inizia nessuno riesce a fermarla; bisogna prevenirla una guerra, affinché non avvenga. Lo si può fare solo non collaborando in nessun modo alla sua preparazione.
Quando la prima bomba è stata sganciata, ormai lo sappiamo bene, a nulla serve dire “basta”, essa cadrà e molte altre ne seguiranno. La guerra, una volta accettata, conduce a tali delitti e tali stragi che è assurdo pensare di farla e contenerla".
Che fare, dunque? Il dilemma che mi assilla da sabato sera qui trova, a mio avviso, un minimo di appagamento.
"Per uscire dall’apparente contraddizione - scrivono i non violenti - fra chi è sempre, e comunque, contro la guerra e chi è favorevole, a volte, ad azioni anche armate, bisogna saper vedere la differenza che c’è tra la violenza e la forza; tra la polizia internazionale e l'esercito. Gli amici della nonviolenza sono sempre stati favorevoli al Diritto e alla Polizia, due istituzioni che servono a garantire i deboli dai soprusi dei violenti. E’ per questo che da anni sono impegnati, a partire dalle iniziative europee di Alexander Langer, per lo studio, la ricerca, la sperimentazione e l’istituzione di Corpi Civili di Pace. Gli amici della nonviolenza chiedono la diminuzione dei bilanci militari e il sostegno finanziario alla creazione di una polizia internazionale, anche armata, che intervenga nei conflitti a tutela della parti lese, per disarmare l’aggressore e ristabilire pace e diritto. Contemporaneamente al sostegno di questi progetti, gli amici della nonviolenza sono contro la preparazione della guerra (qualsiasi guerra: di attacco, di difesa, umanitaria, chirurgica o preventiva), contro il commercio delle armi, contro gli eserciti nazionali, contro i bilanci militari e lo fanno anche con le varie forme di obiezione di coscienza. La proposta politica dei nonviolenti è quella di uno stato che rinunci al proprio esercito nazionale, e si impegni a fornire mezzi, finanziamenti e personale per la polizia internazionale di cui si dovrà dotare l'Onu".
Parole di fantasiosi sognatori? Analisi fuori dal mondo e dalla realtà? Non mi pare, visto che la nota (leggila integralmente cliccando qua) prosegue con una disanima feroce su cosa hanno fatto i governi che oggi bombardano in quella fetta di mondo arabo, azioni che non hanno certo lavorato per migliorare i diritti umani e impedire la repressione.
Se vuoi la pace, prepara la pace è questa la convinzione del movimento. Una pace che non è una bandiera che si estrae dal cassetto e si mette alla finestra alla prima bomba intelligente, ma un percorso che coinvolge ognuno di noi. Perchè, sostengono i pacifisti veri: "La diplomazia la fanno i governi, ma la nonviolenza la fanno i popoli".
Così il mio dilemma, se questa guerra sia giusta o sbagliata, diventa un'amara constatazione: che forse, per evitarla questa guerra, tutti, governanti e popolo dovevamo e potevamo fare di più.



Libia/1: io sto con Garatti

"La guerra è uno strumento pericoloso. Innescarla per uno scopo nobile, come quello di salvare i civili attaccati da Gheddafi, non basta: miete comunque vittime altrove. Quelli che stiamo bombardando in realtà li abbiamo armati noi, l'Italia non dimentichiamolo, è il primo esportatore mondiale di armamenti".

Marco Garatti
Marco Garatti, il medico bresciano di Emergency, che ha attraversato gli ultimi conflitti del mondo in piedi ad un tavolo operatorio ricucendo arti straziati dalle mine antiuomo "made in Italy", corpi dilaniati dalle bombe delle "guerre giuste" è come sempre un distillato di concretezza. Dalle colonne di Bresciaoggi spiega alla collega Mara Rodella che la pace non si porta con le bombe, senza se e senza ma, senza dubbi e dilemmi, senza pelosi giochi diplomatici, senza tristi teatrini che le cronache delle ultime ore, con i leader divisi e gli italiani a far la figura dei cioccolatai, ci hanno riservato.
"Chi ci va di mezzo, come sempre, sono persone innocenti - spiega il medico che lo scorso anno fu arrestato in Afghanistan con accuse false pagando lo scotto di una presenza scomoda e critica in un paese in guerra -. Forse non si sarebbe dovuto dare così potere e riconoscimento a Gheddafi: in fondo, che cosa è cambiato da quando lo abbiamo ospitato in Italia circa sei mesi fa? Se è un dittatore sanguinario ora, lo era anche allora, quando lo si definiva un grande statista. Non è bombardando a raffica Tripoli, come sto vendendo, che si contribuirà a interrompere il percorso al massacro iniziato da Gheddafi. Ci si accorge solo ora degli abusi sui diritti umani commessi dal Colonnello? Buttarla ancora una volta sulla guerra umanitaria, dire che bombardiamo per la pace, non ha senso: questa formula ha stancato". Così come, prosegue, parlare di rischio terroristico integralista. "Non credo proprio nel rischio vero della presa di potere di attivisti che appartengono a un'organizzazione sovranazionale e che gestirebbe il terrore, Al Qaeda, per intenderci: in Egitto i musulmani hanno già accettato le regole democratiche e non vedono l'ora di riformare il Paese. In Libia la sollevazione è prettamente interna".
Non so come la pensiate voi, ma io sto con Marco Garatti, come sto con quelli che, ancora una volta, su questa guerra come su altre dicono le cose come stanno. Ad esempio che Brescia, tradizionalmente, arma molte delle parti in conflitto. Lo sottolinea sempre su Bresciaoggi Fabio Corazzina, prete di Pax Christi che non manca di mettere in mora la propria diocesi per i troppi silenzi sul conflitto.
Si finge di non vedere, sottolinea don Fabio, così come sembra dire fra le righe Marco Garatti. Si finge di non vedere che la guerra, nel bene e nel male mette a nudo le nostre contraddizioni: i pacifisti che tacciono, i politici che si scoprono contro la guerra per ragioni elettorali o per semplice cinismo, quelli che agitano la guerra giusta ben sapendo che l'unico giovamento sarà al proprio portafoglio.
Insomma non esiste la guerra giusta, così come non esiste il tiranno a corrente alterna. E la pace non si costruisce nelle piazze con gli appelli, ma con l'impegno che va oltre i conflitti. Ma di questo parleremo nel prossimo post...
(continua)

lunedì 21 marzo 2011

Libia: la guerra come sconfitta della ragione e i limiti del pacifismo

A voler essere realisti sul conflitto libico come dar torto alla Lega Nord? "Qualcuno si ciuccierà il petrolio e a noi resteranno i profughi!". A guardare lo scenario politico internazionale come non condividere le perplessità che aleggiano anche a Centro-destra, soprattutto dopo la desolante constatazione di essere solo "i benzinai" di questa "Odyssey Dawn" come la chiamano gli americani, di essere gli hangar e i porti per le truppe della coalizione, di essere quelli che aspettano fuori dalla porta come i cagnolini la fine dei vertici trilaterali tra Francia - Germania e Stati Uniti, scontando così la familiarità pelosa con il Rais in stato di assedio.
Ma il dibattito in queste ore si è allargato, è diventato, come sempre accade in questi casi e senza che il confronto riesca a dettare una linea condivisibile da tutti, il tentativo di sciogliere il dilemma sulla guerra giusta. "C'è una guerra giusta? O tutto ciò che necessità di violenza è ingiusto?" si chiede Armando Torno sul Corriere della Sera di oggi, raccontandoci. attraverso le opinioni sedimentatesi, nella storia come sia sottile il confine tra guerra giusta e ingiusta. Emanuele Severino spiega che di questi tempi la guerra giusta è banalmente solo quella che si vince, perchè la distinzione tra giusto e ingiusto presuppone un'etica viva ma viviamo in un'epoca in cui "la crisi della verità porta con sè la crisi dell'etica". Così ci resta solo la parola "vincere". Il vescovo di Terni Vincenzo Paglia, dal canto suo, osserva invece che: "ogni guerra è una sconfitta. E' una sconfitta della ragione che mostra il suo fallimento. Le armi sono più forti delle parole. Nel caso libico e non solo, non possiamo non esaminare i comportamenti scorretti del passato che hanno indebolito la ragione: c'è quindi bisogno di un serio esame di coscienza. Non si doveva forse intervenire prima? I ritardi non complicano la situazione?".
Ma la guerra è veramente una "difesa necessaria", socialmente giustificata, quando c'è di mezzo un tiranno che  spara sul proprio popolo? E' il dilemma che ci attagnaglia da giorni, che divide il mondo politico, che inquieta i pacifisti.
Personalmente penso che non esista "difesa necessaria" se ad essere messa in campo, per dirla con monsignor Paglia, è innanzitutto la ragione, la forza della parola che previene il conflitto e non si limita a giudicarlo a posteriori. E su questo tema (Non si doveva intervenire prima?) anche il mondo pacifista e quel mondo politico che si  autocandida a rappresentarlo (penso alla sinistra) forse avrebbe bisogno di fare autocritica, di capire i propri silenzi . Affrontando la crisi libica, una decina di giorni fa  "ScienzaePace", la rivista del Centro Interdisciplinare Scienze per la Pace dell'Università di Pisa si chiedeva dove fossero finiti i pacifisti e dove fosse la politica.
""In questi giorni mi domando con crescente angoscia: perché sinistre, movimenti, sindacati, centri sociali, pacifisti e società civile variamente attiva sembrano più che altro indifferenti a quel che sta avvenendo in Libia?". Così inizia un articolo di Pierluigi Sullo pubblicato il 7 marzo su Democrazia Km Zero. Già Walter Veltroni, secondo quanto riportato dal Sole24Ore del giorno prima, si era chiesto polemicamente come mai nessuno scendesse in piazza al fianco dei patrioti libici: “Perché era così facile mobilitare giustamente milioni di persone contro Bush e gli americani per la guerra in Iraq e nessuno prova a riempire le piazze contro il dittatore Gheddafi?”". Questo è l'incipit di un intervento sul tema firmato dal docente universitario Giorgio Gallo, un intervento che punta il dito sulle debolezze del movimento pacifista, un movimento - osserva - che se nel 2003 era stato definito dal New York Times "la seconda superpotenza mondiale globale" si è poi progressivamente accasciato davanti all'innegabile sconfitta di non essere comunque stato in grado di evitare la guerra. Un movimento che, osserva ancora Gallo, non è estraneo a ragionamenti di convenienza a dubbie cautele quando di mezzo c'è un tiranno anti statunitense, anche se questi massacra la propria gente come un deposta qualcisasi.
Giorgio Gallo con lucidità spiega anche: "il movimento pacifista ha al suo interno tante anime, tante tradizioni e tante storie. Anime e tradizioni diverse che riescono a trovare momenti di unità di fronte a situazioni di rottura e di conflitto particolarmente forti, come sono state le due guerre del Golfo, ma nell'impegno quotidiano seguono percorsi diversi. Come scriveva Giulio Marcon in occasione di un seminario sui movimenti per la pace a Barcellona, lo scorso 29 ottobre, “la debolezza del pacifismo – nei momenti di scarsa mobilitazione – sembra più evidente che per altri movimenti sociali: questo forse perché la dimensione della protesta contro la guerra sembra avere (ed è naturale che sia così) una capacità di coagulazione molto più forte della “pace positiva” nella quotidianità dell'azione sociale collettiva. Il pacifismo continua ad essere un movimento che riemerge nei momenti di frattura e di rottura dell'ordine dato (conflitti, tensioni internazionali, ecc.), ma che rimane sotterraneo (nel bene e nel male) di fronte alla stabilità delle condizioni di dominio o di equilibrio interno ed internazionale.” Questo spiega la difficoltà ad agire in modo efficace o comunque forte in situazioni caratterizzate da elementi contraddittori e che comunque non coinvolgono in modo diretto".
Un'analisi che mi sento di sottoscrivere. Una valutazione alla luce della quale pare difficile che il pacifismo possa diventare utile ed efficace stimolo alla ragione dei potenti, all'uso della parola come elemento di prevenzione delle armi.

IL BLOG DEI FRATI DI ASSISI CHE RACCOGLIE MESSAGGI E TESTIMONIANZE E CHIEDE LA CESSAZIONE DEL CONFLITTO IN LIBIA

domenica 20 marzo 2011

Libia: il dibattito pacifista. Ma "il mio nome è mai più"?

Ai mie tormenti notturni se il raid sulla Libia sia la strada corretta da percorrere. Al dilemma di un pacifista che ad ogni crisi internazionale, dalla prima guerra del Golfo al dopo Saddam, passando per il Kosovo, si chiede se esista mai una guerra giusta, risponde un mondo inquieto: quello dei pacifisti italiani, presi come sempre tra idealismo e ragion di Stato.
Mentre, guardando i bagliori dei primi missili partire alla volta di Tripoli e della Sirte, condividevo il mio dilemma, tanti altri erano tormentati dagli stessi dubbi. Così su facebook Giovanni Barletta da Poggio a Caiano (Prato) mi racconta di "voler stare dalla parte del torto", di aver postato sul suo blog, mentre io facevo altrettanto, i dubbi di uno con la testa che gli dice che si tratta di una guerra inevitabile e con lo stomaco che rema contro perchè in una guerra c'è sempre qualcuno che subisce. "La guerra può avere tutte le ragioni del mondo ma poi si fa sulla pelle, nella carne viva dei poveri cristi. - scrive - Cosa importa il cambio di regime, cosa importa la speranza stessa di miglioramento a chi guarda la bomba dalla parte del detonatore? A quelli che cercano inutilmente riparo dalle schegge intelligenti di una guerra speditagli da diecimila metri d’altezza? A quelli che hanno il torto di essere nel posto sbagliato?".
Un post da leggere, un contributo al dibattito importante per cercare di metabolizzare la dicotomia che ci opprime e che da pacifisti ci rende un po' schizofrenici e dissociati.

Gino Strada
Non ci resta che un granitico Gino Strada che al solito non ha dubbi e contraddizioni: "Il problema - ha detto parlando di Libia - è il ricorso allo strumento guerra. Io sono contrario alla guerra per tante ragioni, una delle quali è che sono italiano e ho una Costituzione che ripudia la guerra". Per non dire dell'analisi di Angelo Miotto su PeaceReporter (agenzia legata a Emergency e Misna) che si chiede alla vigilia del raid quanta propaganda stia dando benzina al fronte interventista. Una ricostruzione, quella di Miotto, che vale la pena di leggere per capire: "L'informazione - scrive - ha vissuto una sorta di black-out nei primi giorni, reso ancora più evidente dalle immagini ancora nei nostri occhi di piazza Tahrir. Poche informazioni e contraddittorie. Emittenti che hanno sparato cifre tremende sulla contabilità della repressione del dittatore libico. Al Arabya, ripresa da tutti i giornali italiani (noi ci siamo astenuti) arrivò a parlare di diecimila morti. In un solo giorno. Per poi calare alla chetichella nelle ore successive. I primi bombardamenti sulla folla senza prove evidenti. Gli insorti che scorrazzano a bordo di pick-up Toyota equipaggiati con armi che sarebbero, sarebbero, state prese nelle caserme dei militari passati con gli insorti.
Tutto questo senza sminuire la violenza della repressione del regime, le notizie sui mercenari arrivati in charter, le immagini drammatiche che sono arrivate dagli ospedali, le fonti mediche.
Ma il racconto di una rivoluzione non può sottostare al dubbio della propaganda.
E, fatte salve le cronache degli inviati e dei loro occhi a testimoniare, non si può negare che ci sia stata una forte accelerazione sull'opinione pubblica perché si prendesse un partito. E che questa strategia, ormai collaudata, portasse all'eventuale accettazione di un intervento armato. Che sta arrivando (il pezzo è stato scritto poco prima degli attacchi, ndr), in nome della risoluzione Onu che prevede una zona di non sorvolo, l'unica arma davvero determinante in uno scontro - lo ricordavano gli stessi insorti - che si gioca su ampie zone allo scoperto fra militari e aviazione che hanno gioco facile a martellare le roccaforti espugnate dai ribelli.
Di fronte alle due parti in lotta, l'intervento della comunità internazionale appare quasi liberatorio: come si fa a stare dalla parte di Gheddafi? La domanda appare retorica, oggi. Già. Ma ieri?
Come ha fatto il governo italiano, Silvio Berlusconi e la famosa finanza che non si pone certo problemi di etica, l'Europa e altri importanti Paesi amici di petrolio a tollerare, a stare con Gheddafi?
L'insorto che vuole liberare il territorio che presidia e il popolo disperato di chi attraversa deserti per approdare su spiagge e scogli europei non sono uomini eguali. I lager libici per migranti descritti così tante volte da inchieste e reportage, testimonianze dirette di violenze e torture, uccisioni, omicidi per abbandono nel deserto, tutto questo non ha provocato lo sdegno internazionale come ora accade.
Come si fa a baciare le mani al carnefice e guardiano del Grande bastione anti-immigrazione?
I motori dei jet si scaldano mentre scriviamo, la risposta tardiva della comunità internazionale è comunque arrivata, proprio quando - vero o falso che sia - i lealisti iniziavano a bombardare aeroporto e strade della città simbolo ribelle, Bengasi. Rimane quel sapore amaro dell'ineluttabilità di copioni già visti e del criminale gioco di finanza e potere che nutre le guerre".
Un sapore amaro che non puo' non alimentare i dilemmi di noi pacifisti, dannatamente idealisti, forse, ma altrettanto consapevoli che, come sempre, qualcuno sta decidendo per noi e forse tutto ciò non è la decisione migliore.



Libia: dilemma di un pacifista


Vista sul divano di casa la guerra di Libia e' una cosa desolante per come ne parla la tv di stato e quella parastatale (Rai e Mediaset) tra Ballando con le Stelle e La Corrida. Da giornalista mi sento un po' in crisi perché: e' come se alla guerra sotto casa si preferisse un twist, tranquillo come una camomilla. Brutta pagina di un giornalismo bolso e frastornato.
Ma, da pacifista dentro, e' un altro il dilemma che mi assilla: e' la risposta giusta?
Gheddafi giustifica una guerra? Invidio chi ha risposte pronte, chi non ha mai dubbi, chi tira dritto anche se sa di dover abbattere un muro.
Io qui vacillo: fatico a capire come dai baciamano si sia passati ai missili, dagli ammiccamenti alle condanne.
Fatico a capire tanta determinazione per la Libia e altrettanta titubanza per altri soprusi dimenticati: dal sud Sudan al Rwuanda.
Fatico a capire (o meglio capisco ma non mi adeguo) la logica degli interessi e delle lobby che dividono le guerre in conflitti di serie A e serie B. Fatico a capire questa Realpolitik da superpotenze in cui noi siamo sempre dei nani.
Fatico. Guardo il primo missile partire da una portaarei americana e non riesco a vedere oltre quei bagliori la lotta giusta contro il tiranno, la solidarietà occidentale per la democrazia nascente.
Scusatemi, sono un pacifista pieno di limiti. Ma che non fatica ad ammettere il disagio di una notte passata sul divano di casa ad ascoltare bollettini di guerra.



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venerdì 18 marzo 2011

L'ottimismo che sta nella fiducia per gli altri: la lezione del priore

Enzo Bianchi
Ieri sera al termine di una giornata che tutti abbiamo vissuto all'ombra di un tricolore, mi è venuto spontaneo chiedermi se le cose viste in tv, raccontate dalle mille piazze d'Italia, fossero solo il bagliore episodico di una giornata grigia o l'inizio di un  nuovo cammino. Non vi nascondo di propendere per la prima ipotesi: festeggiare l'Italia unita non è ancora per molti sinonimo di costruire un'Italia a misura dei propri cittadini, in grado di soddisfare i bisogni di tutti e non gli  interessi di pochi.
Nonostante i dubbi, la giornata è finita però con una iniezione di fiducia, arrivata dalle ultime pagine di un libro che ieri ho finito di leggere. Un libro che parla ai cattolici come ai laici, che parla al mondo come sa parlare al mondo il suo autore, Enzo Bianchi, priore della comunità di Bose, in provincia di Biella. "Risveglio quel buon senso e quella sapienza che tutti abbiamo dentro. E la gente mi ringrazia", spiega proprio oggi il monaco, 68 anni di origini piemontesi, al Corriere della Sera in occasione di un incontro sul tema "Vivere la città" nella chiesa di San Carlo a Milano. E nel suo libro "Ogni cosa alla sua stagione" (Einaudi) il priore di Bose fa proprio questo, ci insegna a leggere la nostra vita per guardare avanti, per continuare ad essere protagonisti del nostro mondo.
Così, mentre mi chiedevo quanto la festa del 17 marzo potesse cambiare questa Italia in stato confusionale, persa e arrabbiata, egoista e povera, mi sono imbattuto in una riflessione come questa:
"Chi, come me, ha sognato un mondo più abitabile, segnato da maggiore giustizia e pace, oggi si ritrova a volte smarrito, misura l'impotenza, avverte la tentazione del cinismo... Nonostante questo, mi sento ancora di rinnovare la mia fiducia negli altri, nell'essere umano, mi sento ancora di riaffermare la mia fedeltà alla terra, e di proseguire con rinnovata lucidità la battaglia ingaggiata da tanto tempo: se ho combattuto e continuo a combattere perchè il mondo cambi, oggi più che mai mi ritrovo a combattere perchè il mondo non cambi me. Davvero la bontà, la bellezza, la felicità richiedono una lunga pazienza e una fiducia nell'altro sempre da rinnovare, a conto di sperare contro ogni speranza".
Enzo Bianchi (da: Ogni cosa alla sua stagione - Einaudi)
E, grazie a Enzo Bianchi, mi sono addormentato sotto un tricolore sì gonfio di vento e carico di pioggia, ma anche brillante di orgoglio. L'orgoglio frutto di quella speranza che sa vedere un orizzonte meno grigio.

giovedì 17 marzo 2011

Italia 150: finiamo questa festa in musica con dieci canzoni per la nostra nazione


Abbiamo ospitato nell'Armadio delle parole tanti commenti e riflessioni in questa giornata di festa che ci verrà riproposta forse fra altri 50 anni. Vogliamo chiudere questa giornata con un tributo alla musica, a chi ha cantato l'Italia con i suoi difetti e i suoi pregi, i suoi tic e le sue eccellenze. A questa playlist ha collaborato la mia famiglia cercando di sopperire alle mie carenze in campo musicale e cercando di intercettare gusti intergenerazionali. L'elenco è ovviamente incompleto, le integrazioni e i suggerimenti sono bene accetti oltre che auspicati.
Ecco le dieci canzoni sull'Italia:
1) Luciano Ligabue: Buonanotte all'Italia.
2) Francesco De Gregori: Viva l'Italia.
3) Ivano Fossati: Una notte in Italia
4) Eugenio Finardi: Dolce Italia
5) Fabbri Fibra e Gianna Nannini: In Italia
6) Elio e le Storie tese: La terra dei cachi
7) Nino Moroni: Vivere in Italia
8) Edoardo Bennato: Ok Italia
9) Pooh: In Italia si può
10) Marco Masini: L'Italia

Italia 150: dieci frammenti di televisione

Oltre un terzo della nostra storia di italiani figli della medesima nazione si è consumata all'ombra della televisione. Ecco l'elenco, ampiamente incompleto per forza di cose, di dieci frammenti cult della televisione, storie che hanno divertito e scosso molti di noi (chi c'era e chi ne ha sentito solo parlare): dalla tragedia di Vermicino, a Mani Pulite, da Falcone e Borsellino a Rischiatutto, dai Mondiali dell'82 ai grandi campioni come Coppi e Bartali. Il passando, inevitabilmente, per la pubblicità.

Le dieci cose che servirebbero per rifondare l'Italia: l'elenco di Michela Arcai

Il mio elenco delle 10 cose per cambiare l'Italia:1)Insegnare a bimbi ed adulti il significato della parola rispetto, per gli altri, per gli animali, per la natura, per i nostri monumenti;
2)Riscoprire il piacere di leggere un libro, insegnarlo a chi se n'è dimenticato e a chi non l'ha mai imparato;
3)Riempire di nuovo le nostre vie e le nostre piazze, non solo in occasioni delle notti bianche, creare nuovi luoghi di incontro e dialogo; 4)Ripulire un po' la tv da talk show e reality e sostituirli con un po' di documentari sulla nostra storia e sui luoghi e le culture del mondo;
5)Rivoluzionare il nostro sistema penitenziario: punire chi va punito e aiutare chi va aiutato;
6)Diminuire l'uso di droghe e alcol, ci anestetizzano dalla realtà;
7)Incoraggiare tutti a fare almeno un paio d'ore di volontariato alla settimana, solo aiutandoci l'un l'altro ci potremo risollevare;
8)Incoraggiare anche con azioni concrete l'utilizzo dei mezzi pubblici e delle bici, sono occasioni di incontro, di sport e dell'aria pulita abbiamo bisogno tutti!;
9)Dare la possibilità ai giovani di amarsi e di fare progetti e figli in modo più spontaneo e genuino, senza esser condizionati quotidianamente da contratti di lavoro precari e da mutui insostenibili;
10)Dare a tutti la possibilità, come'è questa, di esprimersi, e confrontarsi, ascoltarsi, unirsi per realizzare le idee affinchè gli italiani tornino ad essere celebri nel mondo per le imprese, per le invenzioni, e per l'arte.

Michela Arcai
via mail

L'Italia e gli italiani in dieci frasi


Ecco dieci frasi (celebri e non) sull'Italia e gli italiani (da Wikiquote).

1) Adoro l'Italia perché non è pretenziosa come la Francia e ogni volta che ci vado sono accolta da folle enormi e calorose. (Toni Morrison)
2) Gli italiani guadagnano netto, ma vivono lordo. (Giuseppe Saragat)
3) Gli Italiani perdono le guerre come se fossero partite di calcio e le partite di calcio come se fossero guerre. (Winston Churchill)
4) Gli italiani quando sono in due si confidano segreti, tre fanno considerazioni filosofiche, quattro giocano a scopa, cinque a poker, sei parlano di calcio, sette fondano un partito del quale aspirano tutti segretamente alla presidenza, otto formano un coro di montagna. (Paolo Villaggio)
5) In Italia, sotto i Borgia, per trent'anni hanno avuto guerre, terrore, assassinii, massacri: e hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera, hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e cos'hanno prodotto? Gli orologi a cucù. (Il terzo uomo)
6) L'Italia è ancora come la lasciai, ancora polvere sulle strade, | ancora truffe al forestiero, si presenti come vuole. | Onestà tedesca ovunque cercherai invano, | c'è vita e animazione qui, ma non ordine e disciplina; | ognuno pensa per sé, è vano, dell'altro diffida, | e i capi dello stato, pure loro, pensano solo per sé. (Johann Wolfgang von Goethe)
7) L'Italia è bella, è fatta di uomini bizzarri e di eroi. (Mario Tobino)
8) L'Italia sta in piedi solo perché non sa da che parte cadere. (Roberto Gervaso)
9) La storia considerata come una vicenda di buono e di cattivo tempo, di uragani e di sereni, ecco che cos'è la storia per un italiano. Per questo scetticismo della storia non si sono prodotti tanti tragici fenomeni in Italia, dove nulla è mai scontato interamente, dove tutti possono avere la loro parte di ragione, o dove tutti hanno torto, dove si ritrovano viventi i residui di tutte le catastrofi e di tutte le esperienze e di tutte le epoche. Ci sono ancora i guelfi, i neoguelfi, i separatisti, i federalisti, i sanfedisti, i baroni, i feudatari, ecc. Questi caratteri italiani sono l'origine delle più strane sorprese e delle più incredibili involuzioni. (Corrado Alvaro)
10) Propongo che l'Italia come Stato indipendente sia abolito e che diventi una colonia di un Paese civile. (Oliviero Toscani)

Gli italiani: parole di Enzo Biagi

Ecco alcune frasi di Enzo Biagi sugli italiani. Un elenco che è anche un piccolo ritratto, una mappa che aiuta a capire una nazione nel giorno del suo compleanno.

1. Gli italiani non esistono. Nessuno è riuscito neppure a catalogarli. Venire al mondo a Palermo o a Catania, è già una classifica. Qui si può morire di mafia come di cassa integrazione.
2. Chi sottovaluta gli italiani sbaglia. Abbiamo risorse imprevedibili. Quando un partito va male, i responsabili non si sgomentano: lo rifondano.
3. Gli italiani campano soprattutto per quello che non dipende da loro: il sole, la bellezza dei luoghi, la bontà dei cibi, e le opere d’arte che hanno ereditato e di cui non si curano gran che.
4. Ogni ottocento italiani, uno è presidente: del condominio, della Pro Loco, della squadra di calcio, di una qualche confraternita di mangioni.
5. Qui si condona, si esonera, si appella, si grazia. Non si previene mai, se va bene si risana. Il bilancio, il fiume inquinato, la finanza pubblica.
6. è sempre stato difficile avere vent’anni, e non sarà mai semplice essere italiani.
7. Eppure così com’è, ingiusta e anche crudele, l’Italia io la trovo insostituibile. Non è la migliore, ma è umana. Ha rispetto della vita. Chiesero alla moglie di Manzù perché le piacevano le sculture del marito. “Perché le fa lui”, disse. Mi piace l’Italia: perché mi ha fatto.


Enzo Biagi
Giornalista

Le dieci cose che servirebbero per rifondare l'Italia. L'elenco di Daniela Rossi

1. Il RISPETTO dei propri diritti e di quelli degli altri
2. La CONDIVISIONE di un senso di appartenenza
3. La LIBERTA' di scegliere
4. La DIGNITA' di avere ancora il coraggio d'indignarsi
5. La RESPONSABILITA' di chi si occupa della cosa pubblica
6. La CONOSCENZA perché è la più alta forma di potere contro il buio
7. La PASSIONE per la politica come partecipazione
8. L'IMPEGNO verso gli obiettivi comuni
9. La LUNGIMIRANZA verso le generazioni più giovani
10. La SPERANZA perché senza non si va da nessuna parte



Daniela Rossi
(sulla pagina Facebook de "L'armadio delle parole. Il Blog di Marco Toresini)

L'elenco di un'italiana diversa: Lina


Questo è un elenco particolare, lo ha lasciato Lina il 13 gennaio sul sito della trasmissione Vieni via con me. Lina elenca i motivi per i quali si sente un'italiana diversa. Ci è sembrato giusto registrare oggi anche la sua opinione.


Perché mi sento italiana ma “diversa” da un italiano comune
- Perché non mi lamento se sono l’ultima di una lunga fila in Posta;
- Perché per attraversare una strada passo sulle strisce pedonali.
- Perché se alla cassa di un supermercato una signora mi passa davanti non lo dico al primo che capita vicino, ma richiamo direttamente la signora.
- Perché in una strada a senso unico non imbocco mai dalla parte del divieto, anche se il tragitto è breve e non passa nessuna macchina nel giusto senso.
- Perché quando ho torto preferisco fare prima di tutto le mie scuse piuttosto che scaricarmi la colpa di dosso menzionando a gran voce tutti i motivi che mi abbiano potuto spingere verso il torto.
- Perché detesto la frase “tanto in Italia le cose vanno così!” perché io sono la prima a non volere “le cose così”.
- Perché dimostro di saper fare il lavoro per cui sono pagata e non pretendere di essere pagata prima di dimostrare di fare il mio lavoro.
- Perché se qualcuno mi presenta davanti una verità assoluta, mi informo per accertarmi che quella verità sia effettivamente assoluta.
- Perché per tante altre cose io mi sento diversa da un “italiano medio”, molto spesso non condivido le regole di questo Paese come un po’ tutti, ma questo non mi sembra un buon motivo per infrangerle, soprattutto se parliamo di regole così semplici.
- Non so se restare per continuare a sentirmi diversa e quasi unica, oppure andarmene per trovare compagnia.

Le dieci cose che servirebbero per rifondare l'Italia. L'elenco di Daniele Bonetti

1) Smettere di guardare ai giovani con rancore travestito da invidia (o viceversa, cambia poco)
2) Riconsiderare il significato della parola giovane
3) Non pensare agli under 35 come a dei fannulloni a prescindere
4) Cercare di alimentare i sogni della gente
5) Internet gratis per tutti
6) Regalare una copia della costituzione ad ogni maggiorenne
7) Obbligare al rispetto delle regole da parte di tutti
8) Creare una classe politica pagata come un lavoratore e non come un calciatore
9) Togliere l'obbligo scolastico ma introdurre l'obbligo di consocenza
10) l'ultima la lascio agli altri perchè un'idea buona viene sempre dal prossimo
Daniele Bonetti
(elenco inviato via e-mail)

Il paese che sogno. L'elenco di Maria

Questo è l'elenco del paese sognato da Maria, anonima telespettatrice di "Vieni via con me". Maria lo ha postato il 6 dicembre sul sito del programma di Fazio e Saviano. Ci è piaciuto e lo abbiamo preso in prestito.

Elenco del paese che sogno:
I. Un paese in cui la libertà di affermare la verità regni sovrana, senza essere perseguitati, o senza dover vergognarsi e nascondersi per aver detto la verità
II. un paese in cui ti senti governato davvero da qualcuno che faccia l’interesse della collettività, non meschinamente il proprio
III. un paese in cui la giustizia sia davvero uguale per tutti, e non solo per pochi
IV. un paese dove governino persone con la fedina penale pulita
V. un paese che rispetti la sua storia e i sacrifici di chi l’ha reso tale

Italia 150: da Benigni ad Allevi, Mameli in dieci performance


Abbiamo curiosato sul web ed ecco dieci inni di Mameli cantati, recitati e suonati da grandi nomi come Robero Benigni o Giovanni Allevi, ma anche da stadi gremiti, da bambini e pensionati, dai calciatori che hanno appena vinto il mondale. Ce n'è per tutti i gusti in questa carrellata dedicata al Canto degli Italiani, appena scovata nel web.

Le dieci cose che servirebbero per rifondare l'Italia. Ecco il mio elenco






Oggi si celebra l'Unità d'Italia. E' una giornata speciale anche per questo blog: la dedicheremo alle cose necessarie per far rinascere questa nostra nazione. Qualcuno ci ha mandato un suo elenco altri li abbiamo cercati e scelti noi facendo anche deviazioni sul tema, seguiteci: ci saranno molte sorprese in questa giornata, tanti post da leggere e guardare. Ecco, per incominciare, il mio elenco delle cose che servirebbero per rifondare e far rinascere l'Italia.



LE DIECI COSE CHE SERVIREBBERO PER RIFONDARE L'ITALIA


  1. Che la parola onesto non facesse più rima con coglione. 
  2. Che si rispolverasse questa frase latina, che troppo spesso abbiamo dimenticato ma che è per tutti una piccola regola di vita: "Iuris praecepta sunt haec: honeste vivere alterum non laedere, suum cuique tribuere" (Traduzione: "Le regole del diritto sono queste: vivere onestamente, non recare danno ad altri, attribuire a ciascuno il suo").
  3. Che non si avesse paura di riscoprire la parola "silenzio" così come l'ho sentita declinare da Enzo Bianchi, priore della comunità di Bosè: "Il silenzio ci insegna a parlare, ci aiuta a discernere il peso delle parole, porta a interrogarci su quanto abbiamo detto o sentito: nessun mutismo, ma quel silenzio che restituisce ad ogni parola un significato, che impedisce ai suoni di diventare i rumori che trasforma il "sentito dire" in ascolto".
  4. Che si tornasse a ragionare di scuola così come l'ho sentito fare nelle parole dello scrittore Domenico Starnone: "La scuola peggiore è quella che esclama: meno male, ne abbiamo bocciati sette, finalmente abbiamo una bella classetta. La scuola migliore è quella che dice: che bella classe, non ne abbiamo perso nemmeno uno".
  5. Che fosse un'Italia senza paure: paura degli altri, paura del diverso, paura del potente, paura del delinquente, paura del prepotente.
  6. Che fosse un'Italia di uomini e di donne cittadini e non di uomini e di donne divisi in chi sta sopra e chi sta sotto.
  7. Che fosse un'Italia capace di coltivare la propria memoria, sapendo investire su di essa. Affinchè possa imparare dagli sbagli commessi e possa far fruttare le eccellenze di un tempo.
  8. Che fosse un'Italia in grado di rispettare i giovani così come i vecchi. Dando ai primi i giusti strumenti per crescere e scommettere sul futuro e ai secondi le giuste sicurezze per ripagarli delle fatiche di una vita.
  9. Che fosse un'Italia in grado di mettere ognuno in condizione di far fruttare i propri talenti senza penalizzazioni e senza corsie preferenziali: con l'onesta dei giusti.
  10. Che non ci fossero più le condizioni in Italia per far dire alla mia amica Luisa che gira il mondo per lavoro "ma all'estero è diverso" e alla mia amica Belkys che vive in Venezuela "Sveglia!".

lunedì 14 marzo 2011

Il ministro, la scuola e le domande di un genitore

Maryyyyyy, Marystar! Luciana Littizzetto la chiamerebbe così, lei ex insegnante, che ora siede tra i banchi solo per fiction, il ministro per l'istruzione Mariastella Gelmini da Brescia, che ieri da Fabio Fazio ha difeso la sua idea  di scuola  uscita dalla riforma spiegando di non aver tagliato risorse, ma solo gli sprechi. Mi è sembrata la solita difesa d'ufficio, il solito procedere per slogan (in questo molti giornali oggi hanno sottolineato le critiche piovute su questo aspetto) cercando di accreditare una scuola migliore e più razionale, prendendosela con professori e bidelli, ma eludendo un tema importante come quello della qualità della proposta scolastica e delle risorse (inesistenti) per migliorarla. Mariastella Gelmini continua a sostenere di voler pagare di più i professori, di aver fatto tutto questo per rendere fattibile tale progetto, ma fino ad ora tutto ciò è rimasto lettera morta: sotto gli slogan, il nulla.
Da genitore di due figli in età scolare, che non manda i figli alla scuola privata per scelta anche se è tutt'altro che un ateo comunista, alla ministra bresciana vorrei fare alcune semplici domande alle quali vorrei risposte scevre da slogan e polemiche.
1) Mio figlio il prossimo anno frequenterà la prima media, stessa scuola frequentata dal primogenito oggi alle superiori: perchè, a distanza di quattro anni, per chi approda alla secondaria di primo grado la qualità della proposta educativa è peggiorata, si è fatta più incerta e nebulosa, ostaggio delle ristrettezze di bilancio e di altri tagli in vista?
2) Perchè anche alle elementari la proposta si è fatta più smunta? Che fine ha fatto, ad esempio, l'informatica prima venduta come la grande innovazione del nuovo millennio e poi abbandonata a se stessa come un vecchio Commodore 64 (si fa come e quando si può)?
3) Come concilia i suoi proclami per restituire efficienza alla scuola pubblica (a proposito: fino ad ora ad aver ricevuto risorse in questi ultimi anni sono state le scuole private) con l'ennesima lettera del provveditore agli studi di Milano che invita i dirigenti scolastici delle medie a non promettere ai genitori quello che non potrebbero non essere in grado di garantire come tempo pieno e seconda lingua straniera (destinata a passare da grande innovazione a spreco di risorse)?
Questa è la realtà con la quale noi genitori ci confrontiamo ogni giorno (per non parlare di quei servizi collaterali garantiti dai Comuni, mandati in soffitta per ristrettezze di bilanci e tagli sulla spesa pubblica), gli slogan, a noi, interessano poco e l'interesse corporativo che difendiamo non è nè quello dei bidelli, nè quello dei professori: è quello dei nostri figli che, per fortuna, non hanno sentito le sue parole da Fazio. Ed erano già a letto quando, dopo due risate con Luciana Littizzetto, è iniziato "Presa diretta". Riccardo Iacona e i suoi collaboratori saranno anche dei pericolosi comunisti, ma hanno raccontato una scuola diversa da quella che lei aveva appena tentato di affrescare da Fazio. Chi ha detto la verità, chi ha dipinto con obiettività la realtà?  L'esperienza quotidiana di ognuno di noi sarà il miglior giudice.

mercoledì 9 marzo 2011

De Gasperi e i "campioni" della politica

"Perchè statisti come Alcide De Gasperi ci paiono così lontani dai nostri governanti? E' solo una questione generazionale (quegli uomini si erano temprati nelle asperità della guerra ed erano mossi da profondi ideali), una felice combinazione o c'è dell'altro?" Le domande se le pone oggi Aldo Grasso sul Corriere della Sera parlando di una puntata di "Correva l'anno" andata in onda lunedì 7 marzo alle 22,50 sulla Rai. Confesso di essermi posto le stesse domande (da ciò deduco che gli interrogativi siano stati comuni a molti spettatori della puntata) imbattendomi nella ricostruzione di quegli anni fatta attraverso documenti d'epoca e testimonianze di alcuni collaboratori del politico trentino. Trovarsi davanti a parole come quelle pronunciate nel '46 alla conferenza di pace di Parigi per rappresentare un'Italia sconfitta e umiliata - "Prendendo la parola in questo consesso mondiale, sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia è contro di me; e soprattutto la mia qualifica di ex nemico che mi fa considerare come imputato e l'essere citato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione..." - danno la cifra dell'uomo e del politico che aveva a cuore il futuro del paese che era chiamato a governare. "De Gasperi - osserva Grasso - è stato un politico lungimirante, che ha saputo entrare nei tempi nuovi del dopoguerra senza portarsi dietro il peso delle recriminazioni nei confronti degli avversari, ma con la capacità di instaurare rapporti proficui con i partiti laici: insomma, un vero statista, un politico che ha sempre i problemi dell'Italia ai suoi personali...".
E noi oggi? Il teatrino della politica assomiglia troppo alla storiella evocata oggi, sempre sul Corriere, da Antonio Polito per testimoniare miopie e settarismi. Una storiella che racconta di un posto di blocco a Belfast (Irlanda del Nord) dove uomini armati fermavano i passanti chiedendo "Sei cattolico o sei protestante?" e lasciavano passare solo quelli della propria comunità. "Finchè - continua Polito - non arrivò uno che alla fatidica domanda rispose: "Veramente sono ebreo". E i miliziani infastiditi:  "Si va bene, ma ebreo cattolico o protestante?"".
Una divisione in classi che finisce per palarizzare tutto, denunciando l'incapacità di governare un paese non nel nome dei cattolici o dei protestante, ma semplicemente nel nome dei cittadini anche se questi sono ebrei.
Amare le conclusioni di Aldo Grasso sulla lezione di De Gasperi: "A volte si ha l'impressione che la Rai sia cauta nel celebrare l'Unità d'Italia per non suggerire delicati confronti". A pensar male si fa peccato, ma...

martedì 8 marzo 2011

Le donne e le storie, scordando l'Olgettina



Nigrizia, rivista missionaria e autorevole finestra su un mondo spesso dimenticato, in occasione dell'8 marzo racconta che la pace è donna. Scrive: "Il 3 marzo 6 donne ivoriane sono rimaste uccise sotto i colpi delle milizie fedeli al presidente uscente Laurent Gbabo. Manifestavano pacificamente in favore di Alassane Ouattara. Come loro, da settimane, nella vicina Liberia, un gruppo di donne scende in strada a Monrovia per mostrare solidarietà nei confronti delle loro sorelle ivoriane". E si affida al reportage di Olga De Baggio, fotoreporter friulana, per raccontare delle donne di Monrovia (Liberia) che manifestano per la pace, che vestono magliette bianche sui colorati abiti tradizionali per fissare principi che sembrano scontati, ma che tali non sono: "Pace? Si. Guerra? Mai più"; "Lo stupro è un crimine": "Anche le donne prendono decisioni". Cantano, ballano e vogliono contare in paesi, Liberia e Costa d'Avorio dove il cammino è ancora lungo.
Globalvoices vetrina e sintesi della rete internazionale di blogger sparsi per il mondo, racconta invece la storia di Fadoua Laroui giovane madre single marocchina che si è data fuoco davanti al municipio di Souq Sebt, dove viveva, aggiungendosi alla lunga lista di immolazioni che stanno attraversando il magreb dopo il gesto del giovane tunisino Mohamed Bouazizi che si è dato fuoco come estremo atto di protesta, estrema richiesta di cambiamento.
Così ricordano in Marocco la morte di Fadoua
Fadoua, secondo fonti marocchine, si sarebbe data fuoco perchè "l'amministrazione locale aveva distrutto la baracca in cui viveva con i figli per poi negarle l'accesso ad alloggi migliori, e solo perché era una madre single. E' morta in un ospedale a Casablanca due giorni dopo". Un'agonia che si sarebbe spenta nelle parole di Fadoua riportate da un blog "“Stop all'ingiustizia, alla corruzione e alla tirannia”. Così la testimonianza estrema di Fadoua sta diventando per il marocco un martirio nel nome della voglia di cambiamento. Così scrive Maroccans for change il blog che ha raccontato la storia, diventata anche una pagina di Facebook in sua memoria: "Forse se la vita non fosse stata così difficile per lei, se avesse vissuto in un ambiente migliore dove poter studiare, lavorare e avere successo in una società egualitaria senza ipocrisia, tutto ciò le avrebbe salvato la vita". E nel nome di quella madre single lo stesso sito lancia un forte appello al cambiamento: "Che tipo di cambiamento stiamo cercando? Un cambiamento che renda migliore la vita di ogni marocchino. Il genere di cambiamento che avrebbe permesso a Fadoua Laroui di nutrire e proteggere i suoi figli, di guadagnarsi il rispetto delle persone in quanto madre single che ha lavorato sodo, piuttosto che il loro disprezzo per la sfortuna che le è capitata. Cerchiamo il tipo di cambiamento che possa garantire cibo ai figli di Fadoua e un tetto sopra le loro teste. Il cambiamento che permetta a ogni bambino marocchino di crescere amato, nutrito ed educato, e ad ogni donna e madre che lavora sodo di sentirsi sicura e apprezzata. Un cambiamento che dica no all'indifferenza, sì alla responsabilità".
(da it.paecereporter. net)
PeaceReporter, la rete della pace vicino a Emergency, racconta invece dell'8 marzo a Kabul nella sede dell'Opawc, l'organizzazione per la promozione delle donne afghane creata - riferisce il reportage - da Malalai Joya, la giovane donna che denunciò, parlando in parlamento a 25 anni, i signori della guerra e la schiavitù delle donne. Un gruppo che lavora a stretto contatto con Rawa, l'associazione rivoluzionaria delle donne afgane, messa a dura prova dalle violenze degli integralisti. "Oggi, 8 marzo - scrive Rawa -, le donne afgane piangono ancora per gli stupri di gruppo, per essere bastonate in pubblico dai più schifosi figuri, per essere messe in vendita come merci al mercato, e per le loro giovani figlie che mettono fine ad una vita miserabile autoimmolandosi".
Donne martiri sparse per il mondo, donne testimoni della voglia di cambiamento come lo furono quelle donne, evocate oggi sul Corriere della Sera da Aldo Cazzullo, che fecero la patria.

(le donne dell'Unità d'Italia, da www.corriere.it)
Si chiamavano Adelaide Cairoli, Colomba Antonietti, Carolina Santi Bevilacqua, bresciana che a Brescia in pochi conoscono. "Sorelle d'Italia senza onori e cittadinanza" titolava sempre il Corriere il 5 ottobre scorso in un articolo di Maria Nadia Filippini. Sorelle d'Italia e del mondo alle quali va un tributo di riconoscenza, ieri come oggi. Cercando di dimenticare l'Olgettina.

I FUNERALI DI FADOUA, UNA DONNA CORAGGIOSA