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martedì 22 marzo 2011

Libia/2: meglio un anno di negoziati che un giorno di guerra, ovvero come si costruisce la pace

Oggi "Nigrizia", la rivista dei missionari comboniani, ospita una severa analisi del Movimento nonviolento, una realtà attiva dal 1964 che nella home page del suo sito ospita una frase di Aldo Capitini "Noi dobbiamo dire no alla guerra ed essere duri come pietre". Così sotto il titolo "Noi non firmiamo appelli" la rivista ospita una nota alla quale fa da sfondo la frase di Alexander Langer "Meglio un anno di negoziati che un giorno di guerra". Il segno che la pace non si improvvisa e che nessuna guerra è giusta o ammissibile, ma evitarla costa fatica e impegno di tutti.
"Difendere le vittime inermi è doveroso - è l'analisi del movimento non violento - . Quando qualcuno interviene per tutelare i diritti umani e salvare una vita, è una buona notizia. Da quando il samaritano ha soccorso il poveretto incappato nei briganti sulla strada di Gerico, è sempre stato così. Era dovere della comunità internazionale mobilitarsi per impedire che a Bengasi potesse avvenire un massacro (nel 1996 l'Europa si macchiò di “omissione di soccorso” quando non fece nulla per impedire il genocidio a Srebrenica).
L'obiettivo delle due risoluzioni dell'Onu (n. 1970 e 1973) sulla crisi libica è quello di proteggere i civili, gli insediamenti urbani e garantire assistenza umanitaria. L'uso della forza viene invocato per limitare i danni che già sono in corso sul campo, affermando il chiaro rifiuto dell'opzione di occupazione militare straniera, la priorità del cessate il fuoco e della soluzione politica, il rafforzamento dell'embargo militare e commerciale, il riconoscimento del ruolo prioritario della Unione Africana, della Lega Araba, della Conferenza Islamica.
Ci sono però due cattive notizie. La prima è il ritardo spaventoso (e l'ambiguità) con cui si è mossa la diplomazia degli stati, e la seconda è che l'Onu non dispone di una forza di polizia internazionale permanente ma deve affidarsi, di volta in volta, agli eserciti degli stati membri (articoli 43-49 della Carta della Nazioni Unite, in questo caso Francia, Inghilterra, Stati Uniti).Quando la parola passa dalla diplomazia alle armi, succede che le operazioni militari si trasformano subito in guerra. E' quello che sta accadendo in Libia. Gli strumenti utilizzati (bombardieri, caccia, tornado, missili, incrociatori, portaerei, sommergibili, ecc.) sono quelli tradizionali della guerra, gli unici disponibili, pronti, efficienti. Come nei Balcani, come in Iraq, come in Afganistan, viene messa in campo solo l'opzione militare, l'unica che è stata adeguatamente preparata e finanziata. Una cosa è certa: non sarà con un'altra guerra che la democrazia potrà affermarsi nel mondo arabo".
"Noi non firmiamo appelli" dice il Movimento Nonviolento rispondendo a quanti con colpevole ritardo chiamano alla mobilitazione e il tono è risoluto: "Noi non firmiamo appelli che non contemplino una precedente opzione per la nonviolenza costruttiva, né convochiamo mobilitazioni che si limitino a proteste e condanne di ciò che è già avvenuto. Non basta mettere a verbale il nostro “no” alla guerra. Certo, meglio che niente, ma bisogna aggiungere una parola in più: quando la guerra inizia nessuno riesce a fermarla; bisogna prevenirla una guerra, affinché non avvenga. Lo si può fare solo non collaborando in nessun modo alla sua preparazione.
Quando la prima bomba è stata sganciata, ormai lo sappiamo bene, a nulla serve dire “basta”, essa cadrà e molte altre ne seguiranno. La guerra, una volta accettata, conduce a tali delitti e tali stragi che è assurdo pensare di farla e contenerla".
Che fare, dunque? Il dilemma che mi assilla da sabato sera qui trova, a mio avviso, un minimo di appagamento.
"Per uscire dall’apparente contraddizione - scrivono i non violenti - fra chi è sempre, e comunque, contro la guerra e chi è favorevole, a volte, ad azioni anche armate, bisogna saper vedere la differenza che c’è tra la violenza e la forza; tra la polizia internazionale e l'esercito. Gli amici della nonviolenza sono sempre stati favorevoli al Diritto e alla Polizia, due istituzioni che servono a garantire i deboli dai soprusi dei violenti. E’ per questo che da anni sono impegnati, a partire dalle iniziative europee di Alexander Langer, per lo studio, la ricerca, la sperimentazione e l’istituzione di Corpi Civili di Pace. Gli amici della nonviolenza chiedono la diminuzione dei bilanci militari e il sostegno finanziario alla creazione di una polizia internazionale, anche armata, che intervenga nei conflitti a tutela della parti lese, per disarmare l’aggressore e ristabilire pace e diritto. Contemporaneamente al sostegno di questi progetti, gli amici della nonviolenza sono contro la preparazione della guerra (qualsiasi guerra: di attacco, di difesa, umanitaria, chirurgica o preventiva), contro il commercio delle armi, contro gli eserciti nazionali, contro i bilanci militari e lo fanno anche con le varie forme di obiezione di coscienza. La proposta politica dei nonviolenti è quella di uno stato che rinunci al proprio esercito nazionale, e si impegni a fornire mezzi, finanziamenti e personale per la polizia internazionale di cui si dovrà dotare l'Onu".
Parole di fantasiosi sognatori? Analisi fuori dal mondo e dalla realtà? Non mi pare, visto che la nota (leggila integralmente cliccando qua) prosegue con una disanima feroce su cosa hanno fatto i governi che oggi bombardano in quella fetta di mondo arabo, azioni che non hanno certo lavorato per migliorare i diritti umani e impedire la repressione.
Se vuoi la pace, prepara la pace è questa la convinzione del movimento. Una pace che non è una bandiera che si estrae dal cassetto e si mette alla finestra alla prima bomba intelligente, ma un percorso che coinvolge ognuno di noi. Perchè, sostengono i pacifisti veri: "La diplomazia la fanno i governi, ma la nonviolenza la fanno i popoli".
Così il mio dilemma, se questa guerra sia giusta o sbagliata, diventa un'amara constatazione: che forse, per evitarla questa guerra, tutti, governanti e popolo dovevamo e potevamo fare di più.



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