«Mi chiedete se ho sbagliato? Sarei un cretino se dicessi il contrario. Qualche ragazzo che incontro mi dice che sono un mito. Rispondo loro che un mito che si fa 40 anni di galera è un mito idiota, e che di miti non devono averne, perché i miti sono pieni di debolezze».
Renato Vallanzasca
Tutte le volte che varchi le porte di un carcere ti capita di pensare: qui abita l'uomo della pena, colui che sconta per ciò che ha fatto. E talvolta quel "ciò che ha fatto" rivive, oltre il muro, nelle lacrime di una vedova, nella ferita mai rimarginata di una figlia, di una madre, di un famigliare che si è visto privato di un affetto, che si è visto la vita dilaniata da un dolore che può tramortire.
Quando incroci i tuoi occhi con quelli dell'uomo della pena non puoi fare a meno di pensare all'uomo del reato, a quello che è stato, a quello che ha fatto. E se l'uomo della pena si chiama Renato Vallanzasca, l'uomo del reato sembra immortale, nel senso che ogni cosa faccia l'uomo della pena, c'è accanto a lui lo spettro dell'uomo del reato, seminatore di lutti, di morti e di lacrime. Difficile spiegare come scriveva Beccaria che "l'uomo della pena è diverso dall'uomo del peccato", che chi ha un passato criminale possa vivere un presente con la voglia di costruire qualcosa di onesto. Difficile quando quel passato diventa un libro e pure un film da red carpet, di quelli ai quali la Mostra di Venezia tributa lodi e critiche, applausi e fischi, ma pur sempre quell'immortalità che fa di una storia tragica un mito.
Che dire se l'uomo della pena (il "bel Renè" di un romanzo criminale all'ombra della Madonnina e fra le nebbie di Lombardia) prende il sopravvento su quello della pena (un signore su d'età, classe 1950, con poco smalto un lavoro esterno in una cooperativa e una notte in carcere giusto per non scordarsi 4 ergastoli e 260 anni complessivi di reclusione)? Che dire davanti alle proteste di chi a quel nome associa quello di uno sterminatore tanto da sentirsi in dovere di protestare per quel tappeto rosso tributato a Vallanzasca "mito" del cinema. "Rispettate le vittime" chiedono i famigliari e il rispetto, insistono, si tributa con il silenzio non lucrando sulle disgrazie con un film e un libro. Michele Placido, che il film lo ha diretto, risponde che Vallanzasca è ancora in carcere e tra i politici c'è di peggio .
Una bella provocazione che sa di marketing avanzato, mentre lo stesso ex bandito della Comasina spiega che comprende l'incazzatura dei famigliari: è giusto che siano arrabbiati. E' l'uomo della pena che combatte contro il mito dell'uomo del reato; è il vuoto di un destino che non potrà mai ridare ciò che è stato tolto, colmare un affetto lasciato orfano; è la frustrazione di una legge e di uno Stato che non hanno mai saputo e voluto trovare una giustizia giusta per le vittime di un reato.
Che fare, dunque? Un giorno una ragazza in cella per aver ucciso il padre (un padre padrone, raccontavano le cronache, un colpo di coltello vibrato in uno stato di profonda prostrazione, riferirono i periti, che non evitarono però la condanna sia pur contenuta) mi raccontò che alcuni tg nazionali e trasmissioni tv l'avevano cercata per un'intervista dopo che gli amici avevano raccolto centinaia di firme per chiedere la grazia al presidente della Repubblica. Me lo disse aggiungendo che non aveva alcuna intenzione di finire davanti ad una telecamera: "Perchè dovrei andare in tv? Dopo tutto non ho fatto una bella cosa, ho ucciso mio padre, non c'è nulla di cui andare orgogliosa in televisione".
Oggi quella ragazza è tornata a casa, lavora e vuole essere dimenticata: incarna la donna della pena che sta vincendo la sua battaglia su quella del reato. Par di capire che per Renato Vallanzasca il cammino sia ancora lungo, ma la strada c'è: bisogna solo decidersi a percorrerla.
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