venerdì 29 aprile 2011
Brescia, il garante dei detenuti e i guasti della politica
A Brescia in questi giorni si sta consumando uno spettacolo triste, uno spettacolo in cui la politica ha mostrato ancora una volta di avere un orizzonte ristretto, più orientato agli interessi propri che ai bisogni altrui. Una miopia funzionale che fa tristezza, soprattutto su scelte che dovrebbero essere trasversali per, come si dice, il bene comune.
Con una delibera del 6 giugno 2005 il consiglio comunale di Brescia ha istituito la figura del garante dei detenuti affidando tale ruolo a Mario Fappani, ex assessore regionale alla Sanità negli anni '80, ex democristiano di fede Bodratiana, attualmente manager nel sociale con un'esperienza alla Fondazione Don Gnocchi (dal '99 al 2005) e, oggi, come presidente del Consorzio cooperative sociali di Brescia. Quella di Fappani non fu una scelta casuale, fu lui stesso a sollecitare l'allora giunta di centro sinistra a creare la figura istituzionale (allora prerogativa di poche città e come tale quasi pionieristica) dopo che a Firenze (per la Fondazione Don Gnocchi si occupava di una struttura ad Impruneta) aveva conosciuto Franco Corleone, politico di lungo corso, che in Toscana aveva dato vita al Garante dei detenuti e che lo aveva contagiato con questa esperienza, tanto da muoversi affinchè si facesse altrettanto nella sua Brescia.
Oggi la sua Brescia è chiamata a rinnovare quella carica e lo sta facendo dando il peggio di sè, mostrando di non capire il problemi e agendo secondo logiche vecchie, partitocratiche, di etichettatura politica. Quella che dovrebbe essere una scelta unanime (i problemi dei detenuti non sono il ruolo nel cda di una società partecipata con lauti compensi al seguito) e condivisa per una figura superpartes si è trasformata in una guerra tra "bande", il candidato di una parte (Fappani, con l'appoggio delle associazioni che da anni lavorano in carcere) e l'ex magistrato Emilio Quaranta (prima pretore, poi dirigente dell'ufficio Gip, infine procuratore capo presso la procura minorile di Brescia), sponsorizzato da Lega e Pdl, oggi maggioranza a Brescia e quindi determinata a fare eleggere il suo candidato (anzi, mentre scrivo questo post a palazzo Loggia stanno eleggendo il nuovo Garante e Quaranta è rimasto il solo in corsa). Così nelle scorse settimane sulla figura del garante si è scatenata una lotta tutta politica, con guasti che solo la politica, quella più ottusa, sa fare, mostrando peraltro tutta la sua ignoranza su un tema delicato come quello delle carceri.
Premesso che la polemica non è sulle persone ma sul metodo, basta guardare sul sito del ministero di Grazie e giustizia per capire cosa significhi garante dei detenuti: "I garanti - vi si legge - ricevono segnalazioni sul mancato rispetto della normativa penitenziaria, sui diritti dei detenuti eventualmente violati o parzialmente attuati e si rivolgono all’autorità competente per chiedere chiarimenti o spiegazioni, sollecitando gli adempimenti o le azioni necessarie. Il loro operato si differenzia pertanto nettamente, per natura e funzione, da quello degli organi di ispezione amministrativa interna e della stessa magistratura di sorveglianza. I garanti possono effettuare colloqui con i detenuti e possono visitare gli istituti penitenziari senza autorizzazione, secondo quanto disposto dagli artt. 18 e 67 dell’ordinamento penitenziario (novellati dalla legge n. 14/2009)".
Davanti a ruoli così definiti come hanno risposto i politici bresciani? "Scegliamo un ex magistrato perchè questo possa intercedere per un nuovo carcere a Brescia". Ovvero i politici hanno mostrato tutta la loro approssimazione su un tema importante come quello della dignità del detenuto affidando ad un garante un ruolo che è della politica in tema di strutture carcerarie e dei rapporti con il ministero (di chi è la sconfitta di essere stati ignorati nel piano carceri? Non certo del garante).
Mario Fappani che è stato accusato di essersi occupato di cose di piccolo cabotaggio per aver fatto il suo dovere incontrando i detenuti, entrando in carcere, portandolo all'attenzione della città con determinazione e senza sconti per nessuno, ha gettato la spugna con una lettera che pubblichiamo qui a sotto. Una lettera che fa il punto della situazione, guarda con amarezza una politica politicante, punta il dito contro le inerzie di molti. C'è tanto da fare sul fronte delle carceri a Brescia (dove un magistrato di sorveglianza ha appena definito la carcerazione nella nostra città come "un trattamento inumano e degradante, da cagionare un disagio superiore all'inevitabile livello di afflittività conseguente alla privazione della libertà personale") e le polemiche che stanno accompagnando il nuovo mandato del garante non depongono a favore di interventi convinti e consapevoli per una detenzione più umana. Un tributo di riconoscenza a Mario Fappani, un augurio al nuovo garante e pollice verso alla politica che ancora una volta ha perso l'occasione di lavorare nell'interesse di tutti.
L'atto di accusa di Mario Fappani
Con una delibera del 6 giugno 2005 il consiglio comunale di Brescia ha istituito la figura del garante dei detenuti affidando tale ruolo a Mario Fappani, ex assessore regionale alla Sanità negli anni '80, ex democristiano di fede Bodratiana, attualmente manager nel sociale con un'esperienza alla Fondazione Don Gnocchi (dal '99 al 2005) e, oggi, come presidente del Consorzio cooperative sociali di Brescia. Quella di Fappani non fu una scelta casuale, fu lui stesso a sollecitare l'allora giunta di centro sinistra a creare la figura istituzionale (allora prerogativa di poche città e come tale quasi pionieristica) dopo che a Firenze (per la Fondazione Don Gnocchi si occupava di una struttura ad Impruneta) aveva conosciuto Franco Corleone, politico di lungo corso, che in Toscana aveva dato vita al Garante dei detenuti e che lo aveva contagiato con questa esperienza, tanto da muoversi affinchè si facesse altrettanto nella sua Brescia.
Oggi la sua Brescia è chiamata a rinnovare quella carica e lo sta facendo dando il peggio di sè, mostrando di non capire il problemi e agendo secondo logiche vecchie, partitocratiche, di etichettatura politica. Quella che dovrebbe essere una scelta unanime (i problemi dei detenuti non sono il ruolo nel cda di una società partecipata con lauti compensi al seguito) e condivisa per una figura superpartes si è trasformata in una guerra tra "bande", il candidato di una parte (Fappani, con l'appoggio delle associazioni che da anni lavorano in carcere) e l'ex magistrato Emilio Quaranta (prima pretore, poi dirigente dell'ufficio Gip, infine procuratore capo presso la procura minorile di Brescia), sponsorizzato da Lega e Pdl, oggi maggioranza a Brescia e quindi determinata a fare eleggere il suo candidato (anzi, mentre scrivo questo post a palazzo Loggia stanno eleggendo il nuovo Garante e Quaranta è rimasto il solo in corsa). Così nelle scorse settimane sulla figura del garante si è scatenata una lotta tutta politica, con guasti che solo la politica, quella più ottusa, sa fare, mostrando peraltro tutta la sua ignoranza su un tema delicato come quello delle carceri.
Premesso che la polemica non è sulle persone ma sul metodo, basta guardare sul sito del ministero di Grazie e giustizia per capire cosa significhi garante dei detenuti: "I garanti - vi si legge - ricevono segnalazioni sul mancato rispetto della normativa penitenziaria, sui diritti dei detenuti eventualmente violati o parzialmente attuati e si rivolgono all’autorità competente per chiedere chiarimenti o spiegazioni, sollecitando gli adempimenti o le azioni necessarie. Il loro operato si differenzia pertanto nettamente, per natura e funzione, da quello degli organi di ispezione amministrativa interna e della stessa magistratura di sorveglianza. I garanti possono effettuare colloqui con i detenuti e possono visitare gli istituti penitenziari senza autorizzazione, secondo quanto disposto dagli artt. 18 e 67 dell’ordinamento penitenziario (novellati dalla legge n. 14/2009)".
Davanti a ruoli così definiti come hanno risposto i politici bresciani? "Scegliamo un ex magistrato perchè questo possa intercedere per un nuovo carcere a Brescia". Ovvero i politici hanno mostrato tutta la loro approssimazione su un tema importante come quello della dignità del detenuto affidando ad un garante un ruolo che è della politica in tema di strutture carcerarie e dei rapporti con il ministero (di chi è la sconfitta di essere stati ignorati nel piano carceri? Non certo del garante).
Mario Fappani che è stato accusato di essersi occupato di cose di piccolo cabotaggio per aver fatto il suo dovere incontrando i detenuti, entrando in carcere, portandolo all'attenzione della città con determinazione e senza sconti per nessuno, ha gettato la spugna con una lettera che pubblichiamo qui a sotto. Una lettera che fa il punto della situazione, guarda con amarezza una politica politicante, punta il dito contro le inerzie di molti. C'è tanto da fare sul fronte delle carceri a Brescia (dove un magistrato di sorveglianza ha appena definito la carcerazione nella nostra città come "un trattamento inumano e degradante, da cagionare un disagio superiore all'inevitabile livello di afflittività conseguente alla privazione della libertà personale") e le polemiche che stanno accompagnando il nuovo mandato del garante non depongono a favore di interventi convinti e consapevoli per una detenzione più umana. Un tributo di riconoscenza a Mario Fappani, un augurio al nuovo garante e pollice verso alla politica che ancora una volta ha perso l'occasione di lavorare nell'interesse di tutti.
L'atto di accusa di Mario Fappani
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giovedì 28 aprile 2011
Nutella e orgoglio italiano
Capita spesso che si riscopra l'orgoglio italiano, dell'italiano del fare, quello di poche parole che non vende specchietti per le allodole, quando muore qualcuno. Così i trentamila che ieri ad Alba hanno salutato Pietro Ferrero l'imprenditore morto nei giorni scorsi in Sud Africa, rampollo della famiglia che costruì le sue fortune sulla Nutella, hanno avuto il pregio di farci riscoprire l'orgoglio industriale italiano. Apre il cuore vedere ricostruita sui giornali (bello ad esempio l'articolo di Aldo Grasso sul Corriere) l'epopea di una avventura senza eguali come quella dei Ferrero, di Alba e delle Langhe, che hanno saputo conciliare territorio e industrializzazione, con quell'illuminismo imprenditoriale che parte da un presupposto: io cresco se insieme a me cresce il territorio e la sua gente.
Ci riempie di orgoglio, ma ci apre sotto i piedi una voragine dettata da una domanda inquietante: dove è finito tutto ciò? Dove è rimasto quell'illuminismo industriale che fa crescere le persone e le comunità? E' stato dilapidato nella finanza, annegato nella globalizzazione. I cattivi maestri in questa Italia sempre più terra di conquista non mancano (il caso Parmalat è lì a raccontarci un'altra storia di avidità e di incapacità), tanto che storie come quelle della Ferrero finiscono per diventare quasi vicende mitologiche.
Non è bello che un Paese moderno viva di troppi miti, è il segno che nutre dei sogni che sa di non poter più realizzare. Tempo fa raccontai in questo blog la storia di Adriano Olivetti che a Ivrea costruì una fabbrica che sembrava una grande famiglia in grado di far crescere un territorio e una nazione. Il mito dell'Olivetti sappiamo tutti come è finito e ieri il fratello di Pietro Ferrero, Giovanni ha spiegato che nel nome di Pietro la Ferrero continuerà a costruire pagine di successo, a tener vivo l'orgoglio di una famiglia e quello di un Paese.
E l'auspicio di tutti. Non si può vivere senza Nutella.
LEGGI QUI UN'INTERVISTA A PIETRO FERRERO
Ci riempie di orgoglio, ma ci apre sotto i piedi una voragine dettata da una domanda inquietante: dove è finito tutto ciò? Dove è rimasto quell'illuminismo industriale che fa crescere le persone e le comunità? E' stato dilapidato nella finanza, annegato nella globalizzazione. I cattivi maestri in questa Italia sempre più terra di conquista non mancano (il caso Parmalat è lì a raccontarci un'altra storia di avidità e di incapacità), tanto che storie come quelle della Ferrero finiscono per diventare quasi vicende mitologiche.
Non è bello che un Paese moderno viva di troppi miti, è il segno che nutre dei sogni che sa di non poter più realizzare. Tempo fa raccontai in questo blog la storia di Adriano Olivetti che a Ivrea costruì una fabbrica che sembrava una grande famiglia in grado di far crescere un territorio e una nazione. Il mito dell'Olivetti sappiamo tutti come è finito e ieri il fratello di Pietro Ferrero, Giovanni ha spiegato che nel nome di Pietro la Ferrero continuerà a costruire pagine di successo, a tener vivo l'orgoglio di una famiglia e quello di un Paese.
E l'auspicio di tutti. Non si può vivere senza Nutella.
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mercoledì 27 aprile 2011
Educare i figli, rieducare i genitori
"Spaventosi e spaventati". La definizione è dello scrittore e giornalista Cesare Fiumi che domani su Sette, il settimanale del Corriere della Sera, presenta il suo ultimo libro "La Feroce gioventù" (Dalai editore). Spaccati del branco giovanile che agita le nostre notti, le nostre strade, i nostri sonni di genitori. Una generazione che ci sfugge di mano, di cui conosciamo il lato famigliare, ma di cui ignoriamo il lato feroce, senza rete, senza vergogna ed educazione. Una generazione perduta, a rischio, osserva Fiumi. Una generazione spaventata e spaventosa dove (fonte Eurispes) dal 2001 al 2009 i minori in comunità di recupero sono raddoppiati così come i minori che delinquono commettendo reati da grandi come l'omicidio.
Così le cronache ci raccontano di tre minorenni (tra i quali una ragazza) e di un 19enne che, tra una serata in discoteca e un rave, massacrano di botte due carabinieri che stavano semplicemente compilando un verbale per il ritiro della patente al maggiorenne che aveva bevuto troppo. Ora si disperano quei ragazzi (il gip ha definito il più vecchio lucido e spietato nell'agire), ma la notte di Pasqua sulle strade della Maremma (il fatto è avvenuto in provincia di Grossetto) hanno persino divelto il palo di legno da una recinzione per picchiare più forte.
Le cronache ci raccontano di famiglie smarrite, di genitori che non capiscono la metamorfosi, la notte di follia, quel pestaggio che i giudici hanno rubricato come tentato omicidio.
Comportamenti che ci interrogano ogni giorno nel nostro difficile mestiere di genitori, che devono inquietare un Paese che avverte così drammaticamente l'assenza di maestri e l'emergenza educativa in cui si dibatte. Un'emergenza che tocca anche i genitori se è vero che basta sfogliare qualche pagina di un giornale qualsiasi per trovare un'altra storia: le minacce e gli spintoni ad un arbitro da parte di un gruppo di genitori durante un torneo giovanile di calcio a Jesolo. Genitori ultrà che ora rischiano il Daspo, genitori che, ne riferisce Beppe Savergnini in un corsivo sul Corriere, fanno dire ad un arbitro di calcio giovanile che il suo sogno sarebbe dirigere una partita di orfani. Genitori che andrebbero rieducati al vivere civile, al senso della vita vera, all'orgoglio di essere buoni maestri e non cattivi esempi, fari della crescita e non eroi negativi. Genitori in grado di riconquistare il rispetto dei figli restituendoli alla società meno spaventati e, di conseguenza, meno spaventosi.
Così le cronache ci raccontano di tre minorenni (tra i quali una ragazza) e di un 19enne che, tra una serata in discoteca e un rave, massacrano di botte due carabinieri che stavano semplicemente compilando un verbale per il ritiro della patente al maggiorenne che aveva bevuto troppo. Ora si disperano quei ragazzi (il gip ha definito il più vecchio lucido e spietato nell'agire), ma la notte di Pasqua sulle strade della Maremma (il fatto è avvenuto in provincia di Grossetto) hanno persino divelto il palo di legno da una recinzione per picchiare più forte.
Le cronache ci raccontano di famiglie smarrite, di genitori che non capiscono la metamorfosi, la notte di follia, quel pestaggio che i giudici hanno rubricato come tentato omicidio.
Comportamenti che ci interrogano ogni giorno nel nostro difficile mestiere di genitori, che devono inquietare un Paese che avverte così drammaticamente l'assenza di maestri e l'emergenza educativa in cui si dibatte. Un'emergenza che tocca anche i genitori se è vero che basta sfogliare qualche pagina di un giornale qualsiasi per trovare un'altra storia: le minacce e gli spintoni ad un arbitro da parte di un gruppo di genitori durante un torneo giovanile di calcio a Jesolo. Genitori ultrà che ora rischiano il Daspo, genitori che, ne riferisce Beppe Savergnini in un corsivo sul Corriere, fanno dire ad un arbitro di calcio giovanile che il suo sogno sarebbe dirigere una partita di orfani. Genitori che andrebbero rieducati al vivere civile, al senso della vita vera, all'orgoglio di essere buoni maestri e non cattivi esempi, fari della crescita e non eroi negativi. Genitori in grado di riconquistare il rispetto dei figli restituendoli alla società meno spaventati e, di conseguenza, meno spaventosi.
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martedì 26 aprile 2011
25 Aprile, gocce di memoria
Il solito 25 Aprile, i soliti fischi, le solite contestazioni della sinistra sulla destra, le solite indifferenze che hanno il profumo della rivalsa e della derisione. Saremo mai un popolo normale? Un popolo capace di ricordare a prescindere, in grado di capire, ad esempio, che dalla lotta della Liberazione è uscita un'Italia migliore di quella che c'era prima (quantomeno una democrazia e non una dittatura), un'Italia libera, più consapevole, capace di costruire la nazione del miracolo economico, delle conquiste sociale, del nuovo welfare, di dar vita ad una Costituzione, che ancora oggi in tanti ci invidiano.
Ieri ho portato mio figlio di dieci anni in riva al fiume Oglio, là dove alcuni ragazzi del mio paese (Orzinuovi, provincia di Brescia) il 26 aprile 1945 (il giorno dopo la liberazione di Milano) tentarono di fermare una colonna di tedeschi in fuga. Il loro destino era segnato: lì morirono in due, un terzo fu fucilato davanti al municipio, un quarto giovane subì la stessa sorte quando la colonna stava già lasciando la cittadina.
Mentre raccontavo queste cose a mio figlio davanti alle lapidi che ricordano quei quattro morti (nella foto qui sopra) è arrivato un anziano del paese: lui, allora ragazzino, quei giovani li ricordava bene, conosceva le sue famiglie, sapeva che erano morti da piccoli eroi di un paese che ancora li ricorda. E' la nostra storia, perchè dimenticarla? Perchè dimenticare quei piccoli grandi sacrifici che hanno contributo a quest'Italia di cui tutti stiamo godendo e che resiste, nonostante tutto, agli attacchi di chi la vorrebbe più disinvolta, meno attenta agli altri, con la memoria corta.
Nutrirsi di piccole gocce di memoria, delle piccole grandi storie di eventi come la Resistenza (nel bene e nel male), ci aiuta a capire il presente a lavorare per il bene di tutti. Dire che non ha più senso ricordare ora che molti testimoni di quegli anni se ne sono andati è come dilapidare un'eredità fatta di valori poveri ma genuini. Non ricordare è far finta di non capire che sono ancora oggi le grandi scelte del passato che ci preservano da un presente non proprio indimenticabile.
Ieri ho portato mio figlio di dieci anni in riva al fiume Oglio, là dove alcuni ragazzi del mio paese (Orzinuovi, provincia di Brescia) il 26 aprile 1945 (il giorno dopo la liberazione di Milano) tentarono di fermare una colonna di tedeschi in fuga. Il loro destino era segnato: lì morirono in due, un terzo fu fucilato davanti al municipio, un quarto giovane subì la stessa sorte quando la colonna stava già lasciando la cittadina.
Mentre raccontavo queste cose a mio figlio davanti alle lapidi che ricordano quei quattro morti (nella foto qui sopra) è arrivato un anziano del paese: lui, allora ragazzino, quei giovani li ricordava bene, conosceva le sue famiglie, sapeva che erano morti da piccoli eroi di un paese che ancora li ricorda. E' la nostra storia, perchè dimenticarla? Perchè dimenticare quei piccoli grandi sacrifici che hanno contributo a quest'Italia di cui tutti stiamo godendo e che resiste, nonostante tutto, agli attacchi di chi la vorrebbe più disinvolta, meno attenta agli altri, con la memoria corta.
Nutrirsi di piccole gocce di memoria, delle piccole grandi storie di eventi come la Resistenza (nel bene e nel male), ci aiuta a capire il presente a lavorare per il bene di tutti. Dire che non ha più senso ricordare ora che molti testimoni di quegli anni se ne sono andati è come dilapidare un'eredità fatta di valori poveri ma genuini. Non ricordare è far finta di non capire che sono ancora oggi le grandi scelte del passato che ci preservano da un presente non proprio indimenticabile.
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mercoledì 20 aprile 2011
Settimana santa, perdono e bestie di satana
Elisabetta Ballarin |
Oggi i giornali riportano la notizia di un padre, Silvio Pezzotta, che, a sorpresa, non si stupisce che chi ha concorso all'uccisione di sua figlia Mariangela possa uscire dal carcere per frequentare l'Università e diventare restauratrice.Quella persona non è una ragazza qualunque è Elisabetta Ballarin , una delle persone che le cronache hanno etichettato come le "Bestie di Satana". Detenuta nel carcere bresciano di Verziano, polo universitario, Elisabetta deve scontare 23 anni di reclusione e dopo sette anni ha ottenuto il permesso di frequentare l'Università. Chi si attendeva gli strali dei famigliari delle vittime, categoria, è giusto dirlo, troppo spesso bistrattata da una giustizia che non sa garantire pene eque e certe, si è trovato davanti un padre che con un ampio sorriso ha detto: "giusto così". Già al processo aveva spiegato alla ragazza, poco più che diciottenne al momento dei fatti: "Quando avrai pagato il conto con la giustizia, la porta di casa mia per te è aperta". Una linea che non ha rinnegato davanti alla notizia che dopo solo 7 anni dalla condanna Elisabetta rimette il naso fuori dal carcere. In molti avrebbero letto questo permesso di studio come l'ennesimo insulto alla memoria delle vittime, papà Silvio no: "Ho una faccia sola - ha spiegato al Corriere della Sera - e sono pronto a ripetere quelle parole. Se Elisabetta ha scontato la sua pena, io non ce l'ho certo con lei". Un atteggiamento che deriva dalla convinzione che quella ragazza (era la nuova fidanzata dell'ex compagno della figlia Mariangela) sia finita in una storia di sangue più grande di lei, plagiata dalla violenza delle Bestie di Satana.
"E' giusto che Elisabetta si rifaccia una vita, è giusto che le venga data una seconda possibilità. So che frequenta l'Università che ha buoni voti e dunque è una cosa bellissima. Le auguro ogni bene". Papà Silvio, che ha saputo lenire il dolore per la perdita di una figlia con il servizio agli altri (disabili e anziani), ci racconta dunque una bella storia di perdono, saggezza e coerenza, ci affida una testimonianza forte. E in questa settimana santa di metà aprile non è cosa da poco.
martedì 19 aprile 2011
Occhi di ragazza....
Occhi di ragazza
quanti cieli quanti mari che m’aspettano
occhi di ragazza
se vi guardo
vedo i sogni che farò
partiremo insieme per un viaggio
per città che non conosco
quante primavere che verranno
che felici ci faranno
sono già negli occhi tuoi....
(Occhi di ragazza, Gianni Morandi)
Jamila, la ragazza di origine pachistana diventata un caso a Brescia perchè tenuta a casa da scuola dai fratelli che la volevano "proteggere" dalle attenzioni occidentali, è, con buona pace di tutti, il nuovo volto della nostra società. Quegli occhi di ragazza, quei sogni nascosti dietro allo scarf ci interrogano sulla nostra (e per nostra intendo di tutti, italiani e stranieri) capacità di gestire il cambiamento, di abituare il nostra palato a fare i conti con gusti e sapori diversi, che magari, sia che li si guardi da occidente o da oriente, appaiono poco tollerabili, perchè troppo liberi, o, al contrario, troppo incompatibili con una serie di conquiste che ci fanno più uguali, tolleranti, democraticamente rispettosi dell'autonomia individuale.
Belle sfide dietro quegli occhi di ragazza, belle scommesse per tutti (famiglia, scuola, società, mondo del lavoro) tra singolare e plurale, religione e laicità, tradizione e nuovi valori, con l'umile consapevolezza che più che giudicare bisogna capire, masticare, digerire la diversità, nutrirsene e crescere insieme.
Paura, eh? Ma è l'inevitabile: è l'integrazione, bellezza!
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lunedì 18 aprile 2011
Settimana santa, giorni del paradosso
Settimana santa, settimana di passione, "giorni del paradosso" come ha spiegato il cardinal Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano. "Giorni strani" nei quali pare che il velo del tempio debba squarciarsi per la seconda volta sotto gli strali di chi si crede un nuovo messia, ma è solo un vecchio, senza se e senza ma.
Settimana santa in cui un cardinale arriva a chiedersi dal pulpito: «Perché molti agiscono con ingiustizia, ma non vogliono che la giustizia giudichi le loro azioni?». L'anno chiamata una predica ad personam, ma ci interessa un po' tutto quando arriva a parlare di uomini che combattono «ma non vogliono che loro decisioni vengono definite “guerra”». Quando giunge a domandarsi: «perché tanti vivono arricchendosi sulle spalle dei Paesi poveri, ma poi si rifiutano di accogliere coloro che fuggono dalla miseria?». O a constatare come «nella società, nella politica, nelle famiglie e anche nella Chiesa, consideriamo stoltezza mettere gli altri al di sopra di noi e crediamo piuttosto nella forza del denaro, del potere, del successo ad ogni costo. Alzare la voce, cercare giusta vendetta, mostrare la nostra forza sono diventati i criteri per regnare». Giorni strani in questa settimana santa che di santo, guardandosi in giro, sembra aver conservato assai poco. Giorni del paradosso, dell'invettiva, della menzogna, dove alla forza dei cavalli non sarebbe male riscoprire la "mansuetudine dell'asino".
Che fare? La risposta è forse quella di un altro uomo di chiesa, Luciano Monari, vescovo di Brescia, che sabato sera ha parlato ai giovani durante la veglia delle Palme: "Abituatevi, educate voi stessi a fare tutto ciò che fate perfettamente, con cura e precisione; che il vostro agire non abbia niente d'impreciso, non fate niente senza provarvi gusto, in modo grossolano. Ricordatevi che nell'approssimazione si può perdere tutta la vita, mentre al contrario, nel compiere con precisione e al ritmo giusto anche le cose e le questioni di minore importanza, si possono scoprire molti aspetti che in seguito potranno essere per voi fonte… di un nuovo atto creativo… non permettete a voi stessi di pensare il maniera grossolana. Il pensiero è un dono di Dio ed esige che si abbia cura di sé. Insomma, abbiate fede in Dio e abbiate cura di voi stessi: siate umani e ogni giorno cercate di diventare più umani: più attenti, più intelligenti, più razionali, più responsabili, più giusti, più buoni. Facendo così salverete la vostra anima e renderete più umano il mondo".
E forse così anche un nano come Zaccheo (e con lui tutti i nani della terra) può diventare un gigante. Buona settimana.
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venerdì 15 aprile 2011
Vik, Moreno e gli altri: onore ai martiri di un'utopia
Vittorio Arrigoni
"La pace è per il mondo quello che il lievito è per la pasta"Hanno ucciso Vik, Vittorio Arrigoni, 36 anni, il cooperatore della provincia di Lecco rapito ieri a Gaza City da un commando ultraestremista salafita. L'hanno ucciso come un agnello sacrificale in una guerra fratricida, hanno ucciso proprio lui che sognava una striscia di Gaza libera, lui che sulla sua pagina di Facebook esortava: "restiamo umani". Lui che, reporter e blogger per dovere di testimonianza, scriveva: "E se ho ancora la forza di raccontare della loro fine è anche perchè voglio rendere giustizia a chi non ha più voce, forse, a chi non ha mai avuto orecchie per ascoltare".
Talmud
Hanno ucciso Vittorio, che amava fregiarsi di un nome di battaglia speciale: "Utopia". Utopia come il sogno di una pace durevole e di una vita dignitosa in una terra martoriata come quel lembo di terra mediorientale scomodo al mondo intero.
Vittorio Arrigoni a Gaza |
Utopia di un mondo migliore come quella che portarono i bresciani Sergio Lana, Guido Puletti e il cremonese Fabio Moreni, trucidati il 29 maggio 1993 dal commando paramilitare del comandante Paraga, sulla strada dei diamanti nei pressi di Gornji Vakuf, mentre, da volontari pacifisti, erano diretti a Zavidovici in Bosnia per una missione umanitaria: un progetto salvare vedove e bambini dalle atrocità del conflitto, portare aiuto e speranza.
Avevano sfidato la guerra, come Moreno e Vik, e la loro sorte era stata accolta da qualcuno con il più sprezzante dei giudizi: "Beh, forse un po' se la sono cercata". Altrettanto fecero con Moreno e, c'è da giurarci, lo stesso destino toccherà a Vittorio Arrigoni. Come accade tutte le volte che, anche sfidando la logica, si mette in gioco la propria coscienza, mettendo a dura prova, di conseguenza, quella degli altri. Così la testimonianza pacifista diventa disturbo; il navigare contro corrente provocazione; la morte ineludibile effetto collaterale di un comportamento a rischio. Insomma: un "infortunio sul lavoro" da mandare in "prescrizione breve" per evitare turbamenti, per non farsi troppe domande. Così il ricordo di Vik, come è successo per Moreno, Sergio, Guido e Fabio verrà affidato agli amici, a pochi "costruttori di pace" di buona volontà.
Invece dovremmo essere in tanti a rendere onore a questi martiri della non violenza. A questi testimoni di un'utopia che ci aiuta a vivere.
Che ci aiuta, per dirla con le parole di Vittorio Arrigoni, a "restare umani".
giovedì 14 aprile 2011
Mafia al nord: profumo di Casalesi
La mafia al Nord? Non esiste. Mentre si fatica ad ascoltare i campanelli d'allarme lanciati da magistratura e inquirenti sulle infiltrazioni della criminalità organizzata nelle province del Nord Italia, copio e incollo questa notizia diffusa poche ore fa, giusto per tenere alta la guardia: ovviamente l'operazione di polizia ha interessato anche la provincia di Brescia.
Un’organizzazione mafiosa collegata al clan camorristico dei casalesi è stata sgominata dai carabinieri di Vicenza e dalla Direzione investigativa antimafia di Padova che stanno eseguendo, dalle prime ore di oggi, 29 provvedimenti restrittivi in Veneto, Lombardia, Sardegna, Campania e Puglia. L’operazione, coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Venezia, è l’epilogo delle indagini avviate nei confronti degli indagati accusati di associazione di tipo mafioso,usura, estorsione, esercizio abusivo dell’attività di intermediazione finanziaria, in danno di centinaia di imprenditori operanti in quasi tutto il nord Italia (prevalentemente nel nord-est), in alcune regioni del centro e del Mezzogiorno d’Italia.
Nel blitz sono impegnati circa 300 militari dell’Arma dei Comandi Provinciali di Brescia, Cagliari, Caserta, Mantova, Milano, Napoli, Padova, Rovigo, Taranto, Verona, Napoli e Salerno oltre a due velivoli dei Nuclei Elicotteri dei carabinieri di Salerno e di Treviso; due unità cinofile del Nucleo carabinieri Cinofili di Torreglia (Padova) e militari dei Centri Operativi Dia. I carabinieri hanno accertato, nell’ambito dell’inchiesta, che oltre 100 società sono state estorte, hanno ricostruito due episodi di sequestro di persona a scopo di estorsione, verificato 61 episodi di usura aggravata, 17 episodi di estorsione aggravata, il forzato trasferimento di intere quote societarie dalle vittime ai loro aguzzini e il diffuso ricorso a illecite operazioni di attività di intermediazione finanziaria.
L’attività criminosa del gruppo legato ai clan camorristici dei casalesi, resa particolarmente insidiosa dalla delicata congiuntura economica e dal ricorso a modalità violente tipiche dell’associazione mafiosa, si concentrava su soggetti in difficoltà finanziaria, utilizzando come copertura lo schermo legale della società di recupero crediti "Aspide", con sede principale in Padova, base logistica-direzionale da cui promanavano le direttive per i sodali sottordinati, venivano pianificate le attività di riscossione e le spedizioni punitive nei confronti dei debitori insolventi.
L’organizzazione, armata, gerarchicamente strutturata con distinzione di ruoli operativi, e diretta con spietata determinazione da Mario Crisci, detto "il dottore" erogava crediti a tassi fortemente usurari (fino al 180% annuo) alle vittime, sino a soffocarle, costringendole a cedere le proprie attività economiche (imprese, società e beni valutati nell’ordine di svariati milioni di euro) o, talvolta, a procacciare per la struttura criminale nuovi «clienti» nel tentativo di arginare il proprio debito cresciuto vorticosamente in breve tempo. Di fronte ai ritardi nel pagamento scattavano brutali pestaggi.
Il denaro affluiva nelle «casse» del gruppo tramite l’ingegnoso sistema della carte poste-pay (ricaricate dalle elargizioni delle vittime) in dotazione ai sodali e serviva, inoltre, a distribuire fra di essi i compensi dell’attività criminale (veri e propri stipendi mensili). Parte dei proventi, infine, era destinata a soddisfare le necessità economiche di detenuti affiliati alla camorra e dei loro familiari.
L’attività investigativa, sviluppata attraverso intercettazioni telefoniche, servizi di osservazione e pedinamento, e con l’ausilio di sofisticati accertamenti tecnici del Ris dei carabinieri di Parma e della Dia di Roma, ha consentito il sequestro di una copiosa documentazione di rilevante interesse probatorio detenuta dall’organizzazione (assegni, cambiali e cessioni di credito aziendali degli usurati per un valore complessivo di circa 4 milioni di euro), oltre ad armi e munizionamento da guerra.
(dalla versione online de Il Giornale di Vicenza)
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Editoria: la stampa in crisi, soprattutto di entusiasmo
La Fieg, la federazione che raccoglie gli editori italiani (una sorta di confindustria dei giornali) ha presentato il consueto rapporto sullo stato di salute della stampa italiana relativo al biennio 2008-2010. Un check-up economico che dopo un 2009 di crisi nera induce a un po' di ottimismo, i numeri dopo le pesanti opere di ristrutturazione dei costi, i prepensionamenti e una cintura arrivata all'ultimo buco, fanno sperare che il peggio sia passato per il comparto, ma spiegano gli editori: "Ci sono segni di ripresa che vanno sostenuti". Perchè, teorizza Carlo Malinconico presidente della Fieg: "L’editoria subisce le conseguenze di condizioni generali problematiche e incerte e sono particolarmente esposte (alla congiuntura sfavorevole, ndr) le due fonti principali di finanziamento della carta stampata: le vendite e la pubblicità. L’ambiente in cui le imprese operano non è favorevole al loro sviluppo. Specie in settori dominati dalla modernità. Non ha senso una regolazione che è molto minuziosa in termini di adempimenti e di responsabilità nei confronti della carta stampata e che invece ne prescinde per i nuovi canali comunicativi".
Anomalie, quelle denunciate da Malinconico che vanno a sommarsi a peculiarità tutte italiane che riguardano i giornali (guardate le tabelle, soprattutto quelle nelle quali si fanno i confronti con gli altri paesi, allegate a questo post e capirete): dalla loro penetrazione nella società, ai metodi di diffusione tra abbonamenti ed edicola, alla grande anomalia italiana del mercato pubblicitario, sbilanciato sulla televisione (un tema in cui dal presidente del consiglio, in chiaro conflitto di interessi, non è lecito aspettarsi grandi aiuti, al di là della "massima attenzione" di cortesia manifestata dal sottosegretario Gianni Letta).
E mentre gli editori tornano a chiedere un sostegno che sia anche un equilibrio delle fonti di sostentamento fra i vari media, non mancano di sottolineare i dati positivi: "Positive - osserva la Fieg in una nota - sono inoltre la tenuta degli indici di lettura, con un numero di lettori stabilmente sopra i 24 milioni (che restano pochi rispetto all'Europa, ndr), e la capillare presenza delle testate giornalistiche nell’area della multimedialità, con siti web che hanno conseguito risultati di assoluto rilievo in termini di contatti: a fine 2010 circa il 50% degli utenti nel giorno medio lo sono di siti gestiti da giornali, con un incremento del 37% nell’ultimo anno".
Una frontiera, che ha il sapore della terra vergine per l'esploratore e sulla quale il presidente Malinconico sostiene che: ”la valorizzazione dei contenuti editoriali sulle reti di comunicazione elettronica è la strada da percorrere se si vuole garantire una tutela efficace di tali contenuti e non penalizzare la modernizzazione del sistema”.
Insomma una nuova frontiera che va esplorata senza indugi con l'autorevolezza di sempre, una nuova frontiera davanti alla quale, però, molti appaiono (forse memori di passate esperienze poco felici) titubanti. Insomma, la stampa, che ha passato gli ultimi mesi ad arrovellarsi sui costi e che non è escluso rappresentino il fulcro anche degli interventi per l'immediato futuro, sembra in crisi soprattutto di entusiasmo, di voglia di scoprire nuovi strumenti che siano anche anche fonte di profitto. Ha la qualità e gli uomini per farlo in scioltezza. E davanti alle migliaia di persone che in questi giorni affollano gli incontri del Festival del Giornalismo di Perugia ha ancora molto da insegnare in termini di buona professione e affidabilità.
L'EDITORIA ITALIANA (NUMERI E TABELLE)
La Stampa in Italia 2008-2010
Anomalie, quelle denunciate da Malinconico che vanno a sommarsi a peculiarità tutte italiane che riguardano i giornali (guardate le tabelle, soprattutto quelle nelle quali si fanno i confronti con gli altri paesi, allegate a questo post e capirete): dalla loro penetrazione nella società, ai metodi di diffusione tra abbonamenti ed edicola, alla grande anomalia italiana del mercato pubblicitario, sbilanciato sulla televisione (un tema in cui dal presidente del consiglio, in chiaro conflitto di interessi, non è lecito aspettarsi grandi aiuti, al di là della "massima attenzione" di cortesia manifestata dal sottosegretario Gianni Letta).
E mentre gli editori tornano a chiedere un sostegno che sia anche un equilibrio delle fonti di sostentamento fra i vari media, non mancano di sottolineare i dati positivi: "Positive - osserva la Fieg in una nota - sono inoltre la tenuta degli indici di lettura, con un numero di lettori stabilmente sopra i 24 milioni (che restano pochi rispetto all'Europa, ndr), e la capillare presenza delle testate giornalistiche nell’area della multimedialità, con siti web che hanno conseguito risultati di assoluto rilievo in termini di contatti: a fine 2010 circa il 50% degli utenti nel giorno medio lo sono di siti gestiti da giornali, con un incremento del 37% nell’ultimo anno".
Una frontiera, che ha il sapore della terra vergine per l'esploratore e sulla quale il presidente Malinconico sostiene che: ”la valorizzazione dei contenuti editoriali sulle reti di comunicazione elettronica è la strada da percorrere se si vuole garantire una tutela efficace di tali contenuti e non penalizzare la modernizzazione del sistema”.
Insomma una nuova frontiera che va esplorata senza indugi con l'autorevolezza di sempre, una nuova frontiera davanti alla quale, però, molti appaiono (forse memori di passate esperienze poco felici) titubanti. Insomma, la stampa, che ha passato gli ultimi mesi ad arrovellarsi sui costi e che non è escluso rappresentino il fulcro anche degli interventi per l'immediato futuro, sembra in crisi soprattutto di entusiasmo, di voglia di scoprire nuovi strumenti che siano anche anche fonte di profitto. Ha la qualità e gli uomini per farlo in scioltezza. E davanti alle migliaia di persone che in questi giorni affollano gli incontri del Festival del Giornalismo di Perugia ha ancora molto da insegnare in termini di buona professione e affidabilità.
L'EDITORIA ITALIANA (NUMERI E TABELLE)
La Stampa in Italia 2008-2010
mercoledì 13 aprile 2011
Processo breve e politica dallo sguardo corto
Risolvere il problema della giustizia in Italia con il processo breve (anzi, sarebbe meglio dire brevissimo visto che la prescrizione breve l'abbiamo già introdotta con la cosidetta legge ex Cirielli, norma sconfessata dallo stesso promotore) è come risolvere il problema delle strade ridotte ad un gruviera imponendo il limite di velocità dei 30 orari. In entrambi i casi è una soluzione che non risolve il problema: non velocizzerà la giustizia, non garantirà strade più sicure.
Del resto basta vedere cosa dice il disegno di legge per capire come la giustizia, a corto di risorse e senza uno snellimento delle procedure e una organica armonizzazione delle norme sedimentate negli anni, difficilmente reggerà degnamente l'impatto di questa ulteriore granellino di sabbia in un ingranaggio già provato. Quello che si sta registrando in questi giorni nei palazzi della politica non è tanto l'ennesimo tentativo di introdurre una legge ad personam, ma è la totale mancanza di un progetto in un settore importante come quello della giustizia. Sentire il ministro Angelino Alfano spiegare che «l'impatto di questa norma è legato a due circostanze: riguarderebbe solo i processi in primo grado che sono stati 125mila nel 2009 e solo gli incensurati che sono il 55% sul totale dei condannati. Quindi i processi penali a rischio diventano circa lo 0,2% mentre ogni anno si prescrivono in media il 5% dei procedimenti penali aperti» mi indigna. Non tanto perchè l'ulteriore 0,2% dei processi che resterà impunito, ma perchè un ministro della Giustizia non spende una parola per impedire che il 5% dei processi italiani anche senza prescrizione breve finisca al macero.
Il compito di un politico è dare efficienza e funzionalità al sistema con grandi riforme "epocali", queste sì, che diano credibilità al comparto con pene certe e processi spediti. Invece assistiamo ad una battaglia parlamentare, ad uno zelo senza precedenti, a spettacoli turpi da decadenza dell'Impero romano per una norma che rischia di cancellare 60 mila processi compresi quelli, ma a questo punto è un dettaglio, del presidente del Consiglio. Di un'Italia politica così, senza prospettive, senza uno sguardo verso il futuro, ne faremmo volentieri a meno.
Ieri a Ballarò (che ha proposto servizi interessanti su come i tg stranieri di mezza Europa parlano di noi e dei nostri leader) Alessandro Sallusti, il direttore del Giornale, ha spiegato che nel '92 quando c'era tangentopoli (e il quotidiano, allora diretto da Feltri, sparava cannonate su tutto e tutti senza troppi garantismi) si perseguivano i politici-ladri che rubavano al Paese, ora si va contro un uomo solo ed è persecuzione politica. I magistrati, però, erano praticamente gli stessi: un tempo paladini della giustizia, oggi accecati dall'odio berlusconiano? Sarà, certo è che Pierferdinando Casini ha ribattuto a questa tesi con prontezza: "Se mi si dice se politicamente preferisco Fanfani alla Brambilla non ho dubbi. Mi tengo Fanfani". Non ho particolari simpatie per l'ex leader Dc, ma come dargli torto?
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CROZZA IERI A BALLARO'
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martedì 12 aprile 2011
Giornalismo in festa, tra idee e reporting civile
Torna oggi con un prologo dedicato a Roberto Saviano, il festival internazionale del Giornalismo in programma a Perugia fino a domenica. Con la performance di questa sera dello scrittore di Gomorra si riapre una vetrina sul giornalismo del presente e SU quello del futuro. Il programma è fitto di incontri, momenti di confronto, grandi ospiti, spettacoli. A Perugia negli anni scorsi sono intervenuti Al Gore e Julian Assange e anche quest'anno (peccato non esserci) si alterneranno grandi giornalisti del presente e giovani promesse, si studieranno fenomeni mediatici (dal processo alla stampa sull'omicidio Scazzi alle regole di ingaggio per i giornalisti di guerra) e si discuterà di un futuro fatto di giornalismo diffuso.
Seguire, sia pur a distanza, gli approfondimenti del Festival è come salire su un traghetto che ti aiuta ad intravedere l'altra sponda: quella di un giornalismo 2.0 (definizione di Alessandro Gilioli su L'Espresso) che riesca a garantire libertà e sopravvivenza ad una professione che, nei suoi linguaggi tradizionali e nella sua autorevolezza complessiva, è in affanno. Positivo è che un Festival così sia stato creato e voluto da appassionati di giornalismo e non da giornalisti, in modo che il confronto sia più schietto, aperto e trasparente.
Spesso siamo una categoria un po' troppo autoreferenziale per cogliere i cambiamenti, per capire quello che ci sta passando attorno, per intercettare le novità, forse un po' faticose da capire, ma ricche di talenti.
Ben vengano dunque esperienze come quelle di Perugia che obbligano il giornalismo paludato e pieno di sè a scendere nell'arena e a mettersi in discussione. E' divertente, aiuta a pensare con ottimismo al futuro e mantiene giovani.
Seguire, sia pur a distanza, gli approfondimenti del Festival è come salire su un traghetto che ti aiuta ad intravedere l'altra sponda: quella di un giornalismo 2.0 (definizione di Alessandro Gilioli su L'Espresso) che riesca a garantire libertà e sopravvivenza ad una professione che, nei suoi linguaggi tradizionali e nella sua autorevolezza complessiva, è in affanno. Positivo è che un Festival così sia stato creato e voluto da appassionati di giornalismo e non da giornalisti, in modo che il confronto sia più schietto, aperto e trasparente.
Spesso siamo una categoria un po' troppo autoreferenziale per cogliere i cambiamenti, per capire quello che ci sta passando attorno, per intercettare le novità, forse un po' faticose da capire, ma ricche di talenti.
Ben vengano dunque esperienze come quelle di Perugia che obbligano il giornalismo paludato e pieno di sè a scendere nell'arena e a mettersi in discussione. E' divertente, aiuta a pensare con ottimismo al futuro e mantiene giovani.
QUESTO BLOG SEGUE IL FESTIVAL CON UNA SEZIONE FATTA DI NOTIZIE E VIDEO CHE TROVATE NELLA COLONNA QUI A DESTRA
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lunedì 11 aprile 2011
Il fattorino di fiducia e le veline
Franco Cerri |
"Mia madre sognava che diventassi fattorino di fiducia" ha raccontato Cerri al giornalista Paolo di Stefano del Corriere della sera. Leggendo questa frase mi sono chiesto quali siano i sogni dei genitori d'oggi per i loro figli e non ho potuto fare a meno di pensare a quei papà entusiasti per le feste della figlia alla corte di Arcore, alle lacrime di gioia di madri e padri al Grande fratello, alle aspirazioni per un mondo virtuale tutto lustrini e superficialità. E' quasi passato un secolo da quel "fattorino di fiducia", ma sembra che tutti questi anni in cui con fatica si è costruito benessere e condizioni di vita migliori per tutti si siano persi nel nulla.
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domenica 10 aprile 2011
Quaresima: diversamente cristiani, diversamente vicini agli uomini
don Gallo sulla copertina del suo ultimo libro |
Non so come la pensiate voi di questo figlio di don Bosco, tagliato per andare all'università della strada, che ha combattuto nella Resistenza, che doveva fare il marinaio, ma è salito sulla "barca di Pietro" per diventare pescatore di uomini, ovviamente i più derelitti e non quelli che siedono nei Consigli di amministrazione, uomo che nel suo ultimo libro scrive "sono venuto per servire".
Io ho guardato questo video e ho visto nella sua prorompente vitalità di ottuagenario, il volto di una Chiesa che ha ancora molte cose da dire, che potrebbe in scioltezza vincere questi anni di carestia. Che potrebbe tornare a parlare agli uomini di questa società con il linguaggio a loro più vicino e comprensibile. Basta poco, forse: basta essere diversamente vicini a Cristo e agli uomini. Come don Gallo.
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sabato 9 aprile 2011
Piano carceri: tutto fermo o quasi. Intanto si muore in cella
Oltre un anno fa in questo blog (era il gennaio del 2010) manifestavamo una preoccupazione: che il piano carceri (l'ampliamento e la realizzazione di nuovi penitenziari per far fronte all'emergenza sovraffollamento messo in cantiere dal Governo) non finisse come il piano caserme (nuove stazioni dei carabinieri in mezza Italia, per dare più sicurezza ai cittadini, un progetto ipotizzato nel 2004 e non ancora ultimato). Ieri sul Corriere della Sera Giovanni Bianconi, davanti all'ennesima morte (la numero 40 del 2011) in cella (quella di Claudio Saturno, 22 anni, impiccatosi nel penitenziario di Bari e deceduto dopo giorni di agonia) fa il bilancio, fallimentare, di quel piano rimasto l'ennesimo elenco di buoni propositi e protocolli di intesa senza futuro.
"Oggi - scrive Bianconi -, un anno e quattro mesi dopo, i detenuti sono 67.648 (dato rilevato al 4 aprile dall`associazione A buon diritto), cioè 2.658 in più rispetto al numero per cui la situazione fu accostata a una calamità. E i posti in più? Pochi, pochissimi. C`è chi dice duemila, con un`approssimazione probabilmente per eccesso, ma sarebbe comunque una cifra inferiore all`incremento degli «ospiti». Dunque la realtà è peggiorata.
Ma non solo per la crescita dei detenuti. Parte delle nuove prigioni che si è riusciti a costruire sono vuote perché mancano i soldi per metterle in funzione. E soprattutto manca il personale della polizia penitenziaria. Sempre nel gennaio 2010 il ministro della Giustizia Alfano dichiarò che a breve sarebbero entrati in servizio altri duemila agenti. A luglio ribadì la promessa, abbassando i reclutamenti «in prima battuta» a mille. Sono passati altri nove mesi, e ancora si attende l`ingresso delle nuove guardie carcerarie. Quando arriveranno, paventa qualcuno, saranno meno di quelle che nel frattempo hanno lasciato il servizio per raggiunta pensione o altri motivi. Sono i numeri di una crisi che l`annunciato impegno del governo non è riuscito a scalfire. Di cui la politica generalmente si disinteressa - a parte il costante impegno dei radicali e pochi altri esponenti sparsi nei diversi partiti -, ma che continua a lasciare i detenuti italiani in condizioni di vivibilità al limite della sopportazione".
La politica è sorda anche ai suoi stessi proclami e così mentre, noi viviamo in una logica fatta di annunci, qualcun altro muore in condizioni di inciviltà. Come se la morte dentro una cella sia la più naturale fra le pene accessorie. Questa è l'Italia, ha 150 di battaglie civili, ma è come se fosse nata ieri.
"Oggi - scrive Bianconi -, un anno e quattro mesi dopo, i detenuti sono 67.648 (dato rilevato al 4 aprile dall`associazione A buon diritto), cioè 2.658 in più rispetto al numero per cui la situazione fu accostata a una calamità. E i posti in più? Pochi, pochissimi. C`è chi dice duemila, con un`approssimazione probabilmente per eccesso, ma sarebbe comunque una cifra inferiore all`incremento degli «ospiti». Dunque la realtà è peggiorata.
Ma non solo per la crescita dei detenuti. Parte delle nuove prigioni che si è riusciti a costruire sono vuote perché mancano i soldi per metterle in funzione. E soprattutto manca il personale della polizia penitenziaria. Sempre nel gennaio 2010 il ministro della Giustizia Alfano dichiarò che a breve sarebbero entrati in servizio altri duemila agenti. A luglio ribadì la promessa, abbassando i reclutamenti «in prima battuta» a mille. Sono passati altri nove mesi, e ancora si attende l`ingresso delle nuove guardie carcerarie. Quando arriveranno, paventa qualcuno, saranno meno di quelle che nel frattempo hanno lasciato il servizio per raggiunta pensione o altri motivi. Sono i numeri di una crisi che l`annunciato impegno del governo non è riuscito a scalfire. Di cui la politica generalmente si disinteressa - a parte il costante impegno dei radicali e pochi altri esponenti sparsi nei diversi partiti -, ma che continua a lasciare i detenuti italiani in condizioni di vivibilità al limite della sopportazione".
La politica è sorda anche ai suoi stessi proclami e così mentre, noi viviamo in una logica fatta di annunci, qualcun altro muore in condizioni di inciviltà. Come se la morte dentro una cella sia la più naturale fra le pene accessorie. Questa è l'Italia, ha 150 di battaglie civili, ma è come se fosse nata ieri.
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venerdì 8 aprile 2011
Legittima difesa, sicurezza e temi mai affrontati
(da www.ansa.it) |
Intanto la questione della legittima difesa pone un interrogativo che non è mai stato affrontato dal legislatore italiano. "Un vero stato liberale non si chiede fino a che punto un cittadino di fronte ad un reato può usare le armi, ma si chiede fino a che punto lo stato può punire un cittadino che reagisce ad un crimine che lo Stato non ha saputo prevenire". A parlare in questi termini è il procuratore aggiunto di Venezia, Carlo Nordio, nel 2006 coordinatore di una commissione che aveva il compito di riformare il codice penale. Nei lavori della sua commissione, spiega oggi Nordio, c'era anche questo principio che però non è stato accolto, forse per il timore di trasformare l'Italia nel Far West, ma Nordio sul punto rassicura: "In ogni caso prevale la proporzione tra l'offesa e la reazione: non posso sparare a qualcuno che sta rubando una mela".
Non sarebbe male, dunque, in un'ottica di riforma "epocale" della giustizia, che qualcuno metta mano ad un tema così spinoso. Non è un argomento facile da affrontare, ma non va eluso a meno che allo Stato, che non è in grado di garantire la sicurezza ai propri cittadini, non vada bene questa fumosità legislativa che finisce per creare ora dei martiri, ora degli assassini con la politica (vedi, ad esempio, la presa di posizione sul caso dell'onorevole Viviana Beccalossi) sempre pronta a cavalcare gli umori della gente per altri scopi, scordando di essere colei che dovrebbe chiarire le incertezze, dire, da legislatore, limiti e connotati della legittima difesa.
E "l'invocazione della legittima difesa - spiegava giovedì 7 aprile su Bresciaoggi Bruno Cescon - non può essere soggetta a slogan, al confronto politico in vista del consenso elettorale.(...) Anche nell'offesa subita la società, la politica hanno il dovere di restare civili, umani, pur nell'inciviltà perpretata. In ogni caso il problema della sicurezza permane (...), ma non si risolve con proposte diversive e frastornanti, magari a rilevante impatto mediatico, più di fantapolitica di politica...".
Insomma, il tema c'è e andrebbe chiarito e affrontato presto, ma in questa fantapolitica da cartone animato è pretendere troppo.
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giovedì 7 aprile 2011
Naufraghi e lapidi
(foto di Alfredo Bini, da www.alfredobini.com) |
Corpi senza nome e corpi di cui nessuno saprà mai nulla, tragedie fatte di sacrificio, scommessa, speranza, miraggi, sguardi su una vita che si crede migliore, su un mondo che si pensa meno tiranno.Non fa nulla se il mondo fatica, se il mare in tempesta, in realtà, è più facile trovarlo sulla terra ferma, se le lapidi non sono tanto l'inventario dei lutti, ma l'amara constatazione che i sepolcri, spesso, son quelli che stanno oltre le onde, che predicavamo libertà, uguaglianza, fraternità, che ora diffondono solo, dice qualcuno, aggressivité, rapacité... "egoistité", e già pensano alle prossime elezioni, il segno inevitabile che la grandeur si è persa ad iniziare dalla statura del suo leader.
Corpi vivi e disperati che oggi sul Corriere Claudio Magris paragona bibblicamente agli operai della vigna. Gli ultimi chiamati al lavoro, ma che riceveranno il medesimo compenso di chi fatica dall'alba perchè sono solo quelli che per ultimi e non per colpa loro (anzi se si dovessero cercare le colpe qualche nostro esame di coscienza sarebbe inevitabile) hanno la possibilità di dimostrare quello che valgono. E la parabola della diseguaglianza, come se quel braccio di mare marcasse più che confini geografici, distanze etnografiche, disparità storiche che si stanno rapidamente assottigliando. La vigna è grande, la scommessa è riuscire a fare un raccolto che sia equo con tutti.
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martedì 5 aprile 2011
Tu rapini, io ti uccido: dove sta il giusto?
Il tema è di quelli che aprono discussioni profonde che stanno a metà tra lo stato di diritto e il far west. E' un dilemma che inquieta giuristi e cittadini, che interroga la coscienza e che agita lo stomaco.
La notizia. Ieri tre rapinatori (vecchi professionisti, gente che di mestiere, dicono dalle mie parti "la fà 'lader") armati di taglierino entrano in una banca di Quinzano d'Oglio (pianura bresciana), il classico colpo del primo pomeriggio, diecimila euro in cassa, fuori un paese all'ora del riposino a garantire, nei progetti, una fuga tranquilla. Tutto va secondo copione fino a quando, sulla via della fuga, il terzetto incontra un furgone portavalori, diretto ad un altro istituto della zona. Una delle guardie, che, racconta, si è sentita minacciata dall'auto dei banditi in fuga, spara oltre una decina di colpi: uccide due banditi, il terzo viene catturato mentre tenta la fuga con una bici rubata poco lontano.
L'epilogo. Nel corso della notte la procura di Brescia decide il fermo della Guardia giurata per duplice omicidio volontario, la fine che i magistrati hanno ritenuto naturale davanti ad un comportamento che "presenta qualche problema giuridico", come hanno sin dall'inizio evidenziato.
Tu rapini, io ti uccido: dove sta il giusto? E' la domanda che sorge naturale in episodi come questi, dove è naturale che ci si divida tra chi sta dalla parte della guardia e chi, senza giustificare i rapinatori, pensa che davanti alla morte delle persone nessun comportamento sia giustificato. Spiattellare ora la risposta giusta sarebbe presunzione anche perchè chi di mestiere fa il rapinatore sa che quelli sono gli inconvenienti della "professione", un rischio calcolato; così come chi indossa la divisa malpagata e poco considerata della guardia giurata vive nel perenne ricordo di quanti, alla guida di un portavalori, sono finiti sotto i colpi dei kalasnikov delle bande dei blindati.
Dividere ora tra buoni e cattivi è quindi prematuro. Cercare di capire quello che è successo, coglierne gli eventuali eccessi è un passo doveroso. Scandalizzarsi ora per l'accusa di omicidio volontario è far finta di non capire che, grazie a Dio, non viviamo nel far west, che le regole sono a tutela di tutti, che la vita di una persona ha valore a prescindere dal fatto che sia quella di un rapinatore. Giudicare passi dolorosi come quelli del fermo della guardia giurata come l'inizio di un percorso per cogliere eventuali accessi in quel comportamento è quindi indispensabile. E l'essenza di uno stato di diritto che troppo spesso dimentichiamo di avere.
La notizia. Ieri tre rapinatori (vecchi professionisti, gente che di mestiere, dicono dalle mie parti "la fà 'lader") armati di taglierino entrano in una banca di Quinzano d'Oglio (pianura bresciana), il classico colpo del primo pomeriggio, diecimila euro in cassa, fuori un paese all'ora del riposino a garantire, nei progetti, una fuga tranquilla. Tutto va secondo copione fino a quando, sulla via della fuga, il terzetto incontra un furgone portavalori, diretto ad un altro istituto della zona. Una delle guardie, che, racconta, si è sentita minacciata dall'auto dei banditi in fuga, spara oltre una decina di colpi: uccide due banditi, il terzo viene catturato mentre tenta la fuga con una bici rubata poco lontano.
L'epilogo. Nel corso della notte la procura di Brescia decide il fermo della Guardia giurata per duplice omicidio volontario, la fine che i magistrati hanno ritenuto naturale davanti ad un comportamento che "presenta qualche problema giuridico", come hanno sin dall'inizio evidenziato.
Tu rapini, io ti uccido: dove sta il giusto? E' la domanda che sorge naturale in episodi come questi, dove è naturale che ci si divida tra chi sta dalla parte della guardia e chi, senza giustificare i rapinatori, pensa che davanti alla morte delle persone nessun comportamento sia giustificato. Spiattellare ora la risposta giusta sarebbe presunzione anche perchè chi di mestiere fa il rapinatore sa che quelli sono gli inconvenienti della "professione", un rischio calcolato; così come chi indossa la divisa malpagata e poco considerata della guardia giurata vive nel perenne ricordo di quanti, alla guida di un portavalori, sono finiti sotto i colpi dei kalasnikov delle bande dei blindati.
Dividere ora tra buoni e cattivi è quindi prematuro. Cercare di capire quello che è successo, coglierne gli eventuali eccessi è un passo doveroso. Scandalizzarsi ora per l'accusa di omicidio volontario è far finta di non capire che, grazie a Dio, non viviamo nel far west, che le regole sono a tutela di tutti, che la vita di una persona ha valore a prescindere dal fatto che sia quella di un rapinatore. Giudicare passi dolorosi come quelli del fermo della guardia giurata come l'inizio di un percorso per cogliere eventuali accessi in quel comportamento è quindi indispensabile. E l'essenza di uno stato di diritto che troppo spesso dimentichiamo di avere.
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venerdì 1 aprile 2011
Il ballerino Scilli...: ovvero ridiamo per non piangere
"Pubblico in visibilio ieri a Montecitorio per lui, Domenico Scilipoti. Nel ruolo di parlamentare del gruppo dei responsabili si è confermato un grandissimo interprete in grado di rendere appieno lo spirito dell’opera in tutte le sue sfaccettature e nell’interpretazione del carattere dei personaggi.Scilipoti è stato un parlamentare perfetto, elegante, raffinato, dio ed umano al tempo stesso, l'espressione più alta della danza, nei suoi movimenti fluidi, delicati e nello stesso tempo intensi, un vero spettacolo nello spettacolo. Molto bravi anche tutti gli altri solisti e componenti del corpo parlamentare nei vari intrecci coreografici. Molto interessante dal punto di vista coreografico il contrappunto fra i momenti “festosi” e i momenti tragici e l’accento posto sui temi del duello e della lotta anche fisica fra le gli opposti schieramenti. Elemento di sorpresa il recitato come trait d’union fra i passaggi danzati, una scelta che però non ha convinto tutti. La tensione politica si adagia tra le grida dell'aula, con le sue tensioni e le sue sfumature, a scandire il tempo mai fermo degli eventi sia esteriori che interiori, il trascorrere delle ore, la trasformazione dei pensieri e le consapevolezze del deputato-ballerino Scilipoti nel momento finale, di estrema intensità. Amore e guerra, amore e morte si confondono nel tempo dell’anima che è già movimento, puro e leggiadro. Si deve ancora una volta a questo Parlamento il merito di aver avuto la possibilità di assistere ad uno spettacolo così bello, che è parte di una programmazione estremamente ricca. Un grande rilancio per l'Italia e per il mondo della politica in un momento così difficile per l’arte!".Non, non ho bevuto, non mi sono fatto di strane sostante allucinogene. Ho solo visto la foto (pubblicata qui sopra) del deputato Domenico Scilipoti precipitarsi al voto con la leggiadria di un danzatore e ho adattato da internet la recensione (leggete qui l'originale) di uno spettacolo di danza, la prima del balletto "Romeo e Giulietta" al San Carlo di Napoli con Roberto Bolle e Lucia Lacarra. Ho sostituito qualche parola e sembra la versione benevola di quello che è accaduto ieri nell'aula della Camera dei Deputati. Che sia il segno tangibilie che, in luogo della politica, in Parlamento si stia facendo solo dello spettacolo? Ridiamo per non piangere.
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