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mercoledì 21 aprile 2010

Giornalisti e giornalismo: un festival per continuare a crederci

"Qualunque sia il tema di un'informazione di stampa o radio-televisiva lo scopo dichiarato, il risultato perseguito è di non informare, di essere oscuri e noiosi quanto basta perché la platea degli italiani cambi canale e si rifugi in qualche 'Verissimo' mignottificio e finalmente la gente capisca quel che si dice e si scrive: per far carriera bisogna andare a letto con i padroni. La logorrea ermetica copre gli spazi d'informazione come il petrolio degli spurghi industriali il fiume Lambro affluente del Po".
Giorgio Bocca
da L'Espresso del 6 aprile 2010
Giorgio Bocca, grande vecchio dell'informazione italiana, uno dei pochi rimasti di una generazione di giornalisti che ha provato sulla propria pelle, ai tempi della guerra e negli anni che ne seguirono, cosa vuol dire libertà di opinione, libertà di informazione, un paio di settimane fa, nella sua rubrica l'Antitaliano, c'è andato giù pesante con l'informazione, con i giornali e con i giornalisti. "C'era una volta l'informazione" spiega Bocca, quella che informava in modo chiaro, senza remore, con trasparenza e semplicità. Ora c'è il vuoto che apre le strade ad una informazione asservita.
 "Quando entrai nel giornalismo una settantina di anni fa, che c'era ancora un re sul trono e non al Festival di Sanremo, - scrive Bocca - i giornalisti migliori per sintesi e chiarezza erano i 'pastonisti', i corrispondenti da Roma dei grandi giornali, i Mattei, i Gorresio, i Negro che avendo a disposizione una colonnina su giornali allora a due fogli vi riassumevano i fatti politici ed economici della giornata in modo chiarissimo. Ed erano fatti spesso drammatici, decisivi per il Paese. Oggi a leggere o ad ascoltare i resoconti di giornata, in un italiano bastardo zeppo di parole straniere, idiomatiche, gergali viene voglia di gridare basta, torniamo tutti a scuola, torniamo a parlare come si mangia. E mettiamo una cosa in chiaro: l'ermetismo, l'oscurità, gli idiomi segreti della ricchezza e del potere non sono un capriccio, sono un portato inevitabile di rapporti sociali inconfessabili.  Avete letto o ascoltato le registrazioni telefoniche dei nostri politici e affaristi? Si compongono di gerghi segreti, mafiosi, intercalati da scurrilità plebee, di affari sporchi e di 'vaffan', un linguaggio misto di banda del buco e di postribolo. Non è un caso che la scuola anglosassone d'informazione, i fatti distinti dalle opinioni, gli incipit essenziali i quando-come-dove, i dati anagrafici precisi, il tempo che faceva e anche il due più due fa quattro, siano sostituiti da tiritere senza fine, da confronti specialistici: tu giornalista che capisci i miei doppi sensi, le mie allusioni, quanto siamo bravi, quanto siamo nel giro che conta, alla faccia del popolo sovrano che per tenerlo buono basta dirgli che è il più intelligente e il più bravo del mondo".
Parole dure ma, noi che siamo sempre più orfani di buoni maestri indipendenti, sentiamo che in fondo in fondo sono vere e contribuiscono forse a quel declino, di contenuti ancor prima che tecnologico, che accompagna in questi anni la nostra professione.
Ho rispolverato oggi queste parole di Giorgio Bocca non a caso: è iniziato ieri e proseguirà fino al 25 aprile a Perugia "L'international jornalism festival", un modo per raccontare un giornalismo che cambia nei contenuti e nelle forme, un modo anche per ridare gas ad una professione con qualche crisi di identità, con qualche scheletro di troppo nell'armadio e con una verginità fatta di rigore professionale almeno in parte da ricostruire.

Stamane ho acceso il computer e sul mio profilo di Facebook sono comparse le foto degli amici di "Giornalisti nell'erba", un concorso nazionale riservato a giovanissimi reporter ambientalisti, pronti a partire (vedi foto) da Roma per Perugia dove esporranno la loro esperienza da piccoli giornalisti crescono. Piccole speranze per noi che in erba non lo siamo più da un pezzo, piccoli riscatti di una professione che ha ancora molto da raccontare.


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