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lunedì 12 aprile 2010

Edmondo Berselli: il curioso cantore di una società che cambia. Addio al giornalista timido e onesto

Se n'è andato Edmondo Berselli un giornalista timido e capace che ha scritto di politica, televisione e, soprattutto, ha raccontato la società italiana che cambia con rara maestria.
Per ricordarlo prendo in prestito e condivido con voi due ritratti di chi lo ha conosciuto e frequentato.
Dal blog di Vittorio Zucconi: "Una voce poco fa"

"Il mondo del giornalismo, anche quello italiano, è pieno di persone intelligenti, di ottime penne, di gente colta e di professionisti onesti, ma è la combinazione degli ingredienti che scarseggia. Con Berselli se ne è andato un giornalista intelligente, bravo, colto e onesto, proprio quando ne avremmo più bisogno, in questa fase di cortigiani della penna e del video e di eunuchi dell’ informazione. Come si dice dalle nostre comuni parti, nella provincia modenese, Adìo Edmànd".


Andrea Scanzi su La Stampa: Ciao Eddy, cesellatore di sublimi cazzeggi e adorabili tiri mancini

Questo è il piccolo ricordo di Edmondo Berselli che trovate nel giornale di stamani. Una piccola cosa per un grande amico. Che mancherà. A tutti.


Edmondo Berselli detestava i guru e la seriosità. Per questo non è mai andato d’accordo con i santoni della sinistra e la pletora di venerati maestri, più volte e goduriosamente sbertucciati. Inizialmente metteva inizialmente soggezione. Ne sa qualcosa Andrea Rivera. Eddy (noi lo chiamavamo così e a lui piaceva) se lo trovò premiato a Forte dei Marmi, nella rassegna per la satira. Non era d’accordo e, durante la conferenza stampa, se la prese con la sua parlata romanesca. Bastò una frase: “Per favore, Rivera, si esprima in italiano”. Risero tutti. Tranne Rivera.
Si sforzava di apparire cinico, ma non lo era. Lo muoveva una curiosità bulimica. Ecco perché ogni suo libro è gioiosamente incasinato. Tiri mancini su tiri mancini, da gran fantasista qual era. E chissà perché lo hanno sostituito così presto.
Le cose di cui amava parlare di più erano Lucio Battisti e la sua labrador. Se volevi provocarlo, bastava citargli i cantautori. Lui, a casa sua, prendeva la chitarra e sorrideva. Lodava l’era pre-68, si lamentava perché Shapiro gli faceva fare tardi (“Quello vive ancora da rockstar ma io no”) e si vantava che “i Pooh hanno suonato in casa mia” (ben sapendo che l’avrei mitragliato, citandogli oscuri gruppi islandesi).
Un altro suo must erano gli sms con cui, al mattino, ti tirava le orecchie se avevi usato parole come “topos”: “Non c’è bisogno di far sapere a tutti che hai studiato il greco”. Oppure l’aggettivo anteposto al sostantivo. Collezionava idiosincrasie e te le passava. Così: per osmosi.
Non tuttologo: onnivoro. Sublime e virtuoso – mai lezioso - cesellatore di altissimi cazzeggi. Lucido osservatore di un’Italia alla deriva. Aveva per bussole la compagna Marzia, gli amici (Beppe Cottafavi su tutti), la scrittura. Modena. E Liù. La sua labrador. La adorava, ma detestando lo stereotipo del “padrone di cani” ricominciava a fare il burbero. Si imponeva di non darle troppo da mangiare, di non imboccarla da tavola. Ti citava perfino Saussure (lo citava sempre, Saussure) pur di far credere che lui non stava parlando “solo” di un cane. Era la sua corazza finta. Noi la conoscevamo. Ci piaceva. E sorridevamo. Lui con noi".

Requiem...



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