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mercoledì 30 dicembre 2009

2009: addio senza rimpianti



IL 2009 VERRA' RICORDATO COME L'ANNO DELL'AMORE O DELL'ODIO? IO PARAFRASEREI UN TITOLO DI OGGI DEL "CORRIERE DELLA SERA": ADDIO SENZA RIMPIANTI.

Ecco un link per ricordare il 2009 e pensare al 2010

2009 in fotografia (prima parte) - The Big Picture - Boston.com



Il 2009 ha proposto tanti eventi sui quali si sono accesi i riflettori dei media internazionali: dall’ondata di violenza che ha messo in ginocchio l’Afghanistan ed il Pakistan, alle calamità che hanno colpito l’Italia: il terremoto a L’Aquila e l’alluvione a Messina; dalle celebrazioni per il ventennale della caduta del muro di Berlino, fino al Premio Nobel per la Pace assegnato al presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che proprio in quest’anno ha definito le linee-guida della sua amministrazione. Sul cambio al vertice alla Casa Bianca, Salvatore Sabatino ha chiesto un commento a Fulvio Scaglione, vice-direttore di Famiglia Cristiana.

Ascolta:

Il piccolo Obama nel paese leghista


Buona notizia di fine anno: Stezzano, 12 mila abitanti alle porte di Bergamo, paesone a guida Lega-Pdl ha un baby-sindaco di origini ivoriane. La notizia è uscita sui giornali in queste ore (clicca qui per leggerla dall'Eco di Bergamo) e tutti concordano che sia il segno dei tempi. David N’Doua (nella foto), adottato da una coppia di italiani, siederà nel consiglio comunale dei ragazzi eletto alla scuola media in una giunta multicolore, non come orientamento politico, ma come provenienza geografica. Vi saranno, ci informano le cronache: "Nora Berrak e Camila Barionuevo – nate in Italia ma da genitori rispettivamente marocchini e argentini – Emiliano Caprini, Alessia Civera, Chiara Piazzalunga e Brahimi Rezart, albanese residente nel nostro Paese da diversi anni".
Il sindaco leghista Elena Poma, che pare persona di buon senso, abbozza al Corriere della Sera: "Il progetto messo in piedi dalla scuola è sicuramente un ottimo esempio di integrazione. Ma purtroppo non esaurisce il problema: il terreno difficile è quello che riguarda gli adulti. Difficile qui parlare di integrazione quando abbiamo a che fare con il fenomeno della clandestinità...".
La speranza è che David e i suoi colleghi rappresentino uno stimolo per una riflessione "adulta" (in tutti i sensi) sui temi dell'immigrazione e dell'integrazione. I presupposti ci sono tutti: Stezzano, del resto, è da anni impegnato in progetti di solidarietà con il sud del mondo (Bolivia in primo piano), qui, nonostante le apparenze, l'integrazione ha una casa fertile e un'esperienza di educazione civica e alla partecipazione politica come quella del consiglio comunale dei ragazzi non può che aiutare questo processo.

martedì 29 dicembre 2009

Carcere: 2009, il disastro. Un approfondimento


Voci dalle carceri italiane: clicca qui per leggere alcune lettere scritte a Riccardo Arena, motore di Radio Carcere. Una lettura sconvolgente e educativa sullo stato delle carceri italiane.
Buona lettura

Carcere: 2009, il disastro



Il 2009 è agli sgoccioli ed è tempo di bilanci. Ne segnalo uno che, da persona sensibile ai temi della giustizia e della politica carceraria, mi ha preoccupato: il 2009 passerà alla storia come l'anno orribile per i suicidi in carcere (71, mai così tanti negli ultimi anni) ai quali si aggiungono le morti in cella, spesso da accertare, altrettanto frequentemente frutto di un sistema carcerario incapace di rispondere con la necessaria puntualità alle esigenze sanitarie dei detenuti (non sta scritto da nessuna parte che una pena detentiva o, peggio, la custodia cautelare, debba vedere affievolirsi il diritto alla salute e all'assistenza sanitaria). Il cardinale Dionigi Tettamanzi visitando San Vittore sotto Natale ha parlato di "squallore intollerabile" e non credo che neanche il vescovo di Brescia, Luciano Monari. entrato in carcere per le feste, ne abbia tratto una sensazione diversa. Il campanello d'allarme lo ha suonato ieri anche Luigi Manconi, già garante delle persone prive di libertà e presidente dell'associazione "A buon diritto", con una lettera aperta al ministro Alfano in cui si evidenziavano alcuni dati su cui riflettere: nel 2010 ci saranno 10 mila detenuti in più; l'incidenza dei suicidi è 16-18 volte maggiore di quella rilevata nell'intera popolazione. Insomma non c'è solo il caso Cucchi a denunciare la drammatica situazione carceraria italiana. Bisogna intervenire, e intervenire subito.

Ecco il testo della lettera da "A buon diritto".
















Signor ministro della Giustizia,
l'annus horribilis del sistema penitenziario si va concludendo nel modo peggiore. E più tragico. Le cifre del disastro, ormai sufficientemente note, rappresentano altrettanti picchi di uno stato di perenne emergenza e danno la misura di una istituzione al collasso. Due dati colpiscono in particolare. L'elevatissimo numero delle morti in carcere, dovute, in percentuale rilevante, a “cause da accertare”. L'altissimo numero di quanti si tolgono la vita: 71 (le statistiche ufficiali indicano una cifra minore ed è un segno ulteriore dell'opacità del sistema).
Ne consegue che la frequenza dei suicidi in carcere (mai così tanti negli ultimi decenni) è 16-18 volte maggiore di quella rilevata nell'intera popolazione. Ciò ha una stretta relazione con il sovraffollamento: oggi il circuito penitenziario custodisce il 50% di detenuti in più rispetto alla capienza prevista. Ne deriva maggior carico di lavoro per la polizia penitenziaria e per il personale e livelli di servizi ancora più bassi di quelli già oggi gravemente deficitari: dall'assistenza sanitaria (in alcuni istituti per ogni detenuto la disponibilità dello psicologo è di 10 minuti al mese) all'istruzione scolastica, alle attività lavorative, fino allo spazio fisico, sempre più ridotto e promiscuo. Da qui uno “squallore intollerabile” (cardinale Dionigi Tettamanzi). Tutto ciò può sembrare un semplice, si fa per dire, peggioramento della qualità di un sistema già degradato. Ma c'è di più. Quello che dovrebbe davvero far tremare le vene ai polsi, innanzitutto a lei, signor ministro, ma anche a ciascuno di noi, è la prospettiva futura. Negli corso degli ultimi due anni il ritmo di crescita della popolazione detenuta è stato di 700-800 unità al mese. Non c'è ragione al mondo perché nel 2010 quel ritmo si riduca. Anzi: l'introduzione di nuove fattispecie penali, che qualificano come reato l'immigrazione irregolare, è destinata a incrementare ancor più, e più rapidamente, il sovraffollamento. Si tratta di un elementare calcolo matematico: tra dodici mesi ci saranno circa 10mila detenuti in più. Dove intendete metterli? È escluso che le attuali strutture possano accoglierli, anche se si accettasse di rendere il sistema persino più illegale e disumano di quanto già sia oggi. L'unica risposta finora abbozzata dal governo è, nelle attuali condizioni, semplicemente irrealizzabile. Infatti, il ritmo di costruzione delle nuove carceri (in un piano più che approssimativo e con finanziamenti che non superano un terzo del fabbisogno) è incomparabilmente più lento della velocità di crescita della popolazione detenuta. E, nella più ottimistica delle previsioni, i nuovi posti promessi potranno essere disponibili solo quando il numero dei detenuti sarà ulteriormente aumentato di 30mila unità. Sia chiaro: non penso che esistano soluzioni semplici, ma quello che colpisce è la totale assenza di soluzioni. Anche le più ragionevoli. Un esempio: tutti gli anni entrano in carcere, magari per un breve periodo, migliaia di semplici consumatori per una dose di sostanza stupefacente eccedente il limite previsto. Nulla si fa per ovviare a tanta irrazionalità: così come nulla si fa rispetto a quanto è stato indicato, in maniera univoca, dalle diverse commissioni per la riforma del codice penale, istituite dai governi di centrodestra e di centrosinistra. Ovvero la riduzione del numero degli atti qualificati come reati e la riduzione del numero dei reati che prevedono come sanzione la reclusione in cella. Se non si mette mano a questo, tutto il resto è niente più che una utopia negativa.
Luigi Manconi
presidente di A buon diritto


sabato 26 dicembre 2009

Pensierini e riflessioni natalizie

Pensierini di Natale. In questi giorni di festa ci sono alcune riflessioni che ho colto qua e là eccole:

Editoriali
24/12/2009 -
Il futuro colorato di speranza
di ENZO BIANCHI
Priore della Comunità di Bose

Il bilancio che ciascuno di noi fa sui dodici mesi trascorsi è sempre condizionato dalle aspettative che aveva nutrito nell'anno precedente e, specularmente, orienta le speranze per l'anno a venire, soprattutto quando ci veniamo a trovare alla fine di un decennio: allora attese e disillusioni si fanno più forti, quasi che il misurare il tempo in cifre tonde e simboliche - gli anni «zero» del terzo millennio - sia percepito con maggiore intensità e che le svolte impresse al corso della storia debbano assumere un carattere più marcato. Così, il dover constatare anche alla chiusura di quest'anno che ben poco è stato fatto per sanare situazioni negative nella convivenza umana, in ambito nazionale come a livello planetario, risulta fonte di particolare amarezza.

Non solo, sembra quasi che il protrarsi indefinito di profonde ferite inferte all'umanità e al creato finiscano per trasformarsi in ineluttabili calamità, cui si è fatta l'abitudine e che si derubricano a problemi cronici, non più degni di attenzione e di impegno. È il caso delle guerre e delle patenti violazioni dei diritti umani in certe aree del globo: i conflitti vengono dimenticati, le vittime ignorate, le sofferenze banalizzate, come se si trattasse di ciclici eventi naturali, analoghi all'alternarsi delle stagioni.

La crisi economica, per esempio, ha solo superficialmente scalfito la fiducia nell'autoregolamentazione del mercato globale, suggerendo al massimo alcuni accorgimenti per una maggiore vigilanza, mentre le ingiustizie di fondo che pervadono i rapporti produttivi e commerciali non sono state considerate degne di seria attenzione. Anche la mancanza di legalità o l'irrisione dello stato di diritto, il non rispetto delle minoranze e dei più deboli e indifesi, il diradarsi delle strutture di solidarietà e di integrazione sociale paiono ormai atteggiamenti passivamente acquisiti, la cui disumanità non interpella più le coscienze. A poco a poco ci si assuefa alla barbarie quotidiana, si rinuncia alla sana indignazione contro gli attentati portati alla dignità di ogni essere umano, si considera scontata l'impossibilità del dialogo civile, ci si rassegna a una sorda lotta di tutti contro tutti.

Eppure l'animo umano fatica a rinunciare alle aspettative di miglioramento, è portato a «sperare contro ogni speranza», soprattutto là dove percepisce che non è in gioco solo il mero interesse personale, ma il futuro delle generazioni che si affacciano oggi all'esistenza e di fronte alle quali saremo considerati responsabili: il desiderio di riconsegnare la società civile in condizioni migliori di quelle nelle quali ci è stata affidata da quanti ci hanno preceduto anima il cuore e l'intelligenza di ogni essere umano degno di tal nome. Per i cristiani, in particolare, cittadini come gli altri e solidali con loro nelle vicende quotidiane, questo desiderio assume anche i tratti dell'annuncio di verità in cui si crede: non dogmi astratti, ma convinzioni che muovono il pensare e l'operare. Allora non è utopia sperare che l'annuncio evangelico delle beatitudini, il disarmo di ogni inimicizia, il prendersi cura di chi è nel bisogno, il perdono per le offese ricevute possano trovare fecondo terreno di crescita non solo nei cuori dei singoli, ma nel tessuto stesso dalla convivenza civile: queste speranze non sono il non-luogo dei nostri sogni, ma l'anelito insopprimibile che rende sopportabile anche un presente intristito nel suo ripiegarsi su se stesso.

Cesserà l'imbarbarimento dei rapporti quotidiani? Rinascerà la solidarietà tra le generazioni e le popolazioni della terra? Si concretizzerà la cura e la custodia per un creato affidato alla mano sapiente dell'uomo? I più deboli troveranno nei più forti sostegno e non oppressione? Le carestie, le guerre e le pandemie finiranno di essere considerate ineluttabili e verranno contrastate nelle loro cause e nei loro effetti? La pace ritroverà nel concreto della storia il suo significato di vita piena e ricca di senso? E ancora, crescerà il dialogo franco e autentico all'interno della chiesa e tra le chiese? Ci si aprirà all'ascolto dell'altro, al rispetto delle sue convinzioni, al discernimento delle sue attese, indipendentemente dal suo credere o meno? A questo dovremmo pensare quando ci scambiamo gli auguri: non a un gesto formale e scaramantico, ma a una promessa di impegno e a un'assunzione di responsabilità. Perché lo sguardo critico e sereno sul grigiore del passato è già apertura a un futuro colorato di speranza.
da La Stampa




Buongiorno
24/12/2009 -
Vite spostate
di Massimo Gramellini
Ma perché non restano a casa loro? Penserà qualcuno, osservando la foto delle moltitudini che danno l'assalto ai treni ghiacciati delle Feste: migliaia di persone disposte, pur di mettersi in viaggio, a sopportare o a compiere qualsiasi sopruso. La risposta è abbastanza spiazzante: perché casa loro non è il luogo da cui partono, ma quello in cui cercano di arrivare. Distratti dall'epica moderna delle metropoli e dei social forum, ci eravamo dimenticati che l'Italia rimane un Paese di emigranti che per sopravvivere hanno dovuto crescere lontano dalle radici, di mammoni che sentono la mamma dieci volte al giorno ma la vedono una volta l'anno: a Natale.

Il ritorno a casa dell'eroe, coacervo di sensazioni malinconiche che oscillano fra il ricordo dell'antica appartenenza e il sospetto di una sopraggiunta estraneità, è un meccanismo della natura. E come tale, anche quando sembra illogico, si perpetua inesorabile. Non esiste animale capace di sottrarsi al richiamo della tana. Non esiste pericolo o disagio che possa fermare questa corsa al contrario verso l'utero da cui si è usciti. E' un bisogno dell'anima. Certo, se Natale cadesse d'estate come in Australia, tutto suonerebbe meno poetico ma maledettamente più comodo.
da La Stampa



Milano. Messa di Mezzanotte
dall'omelia del Cardinal Dionigi Tettamanzi
... La solidarietà infatti mira ad un orizzonte senza limiti: tanti e diversi sono i bisogni che attendono risposta. Quanti “fondi” si dovrebbero istituire per rispondere a tutte le urgenze! Quanta giustizia e carità, quanta solidarietà e fraternità sono necessarie per le innumerevoli situazioni di povertà, solitudine, malattia, dolore! Penso in particolare ai sofferenti cosiddetti invisibili: una categoria destinata allargarsi drammaticamente se venisse a mancare lo sguardo aperto e penetrante della carità che si fa prossimità e condivisione! Mi riferisco alle tante persone che soffrono per i più differenti disagi psichici, alle sofferenze dei loro familiari.
Come non pensare poi ai carcerati? L’altro ieri ho voluto passare a visitare e benedire le celle di numerosi detenuti a san Vittore. Ho provato tanta pena, anzi un vero e proprio sconcerto per quanto ho visto con i miei occhi. Non posso dimenticare la parola di un detenuto: “Sì, la giustizia deve fare il suo sacrosanto percorso e al colpevole la pena è dovuta, ma le condizioni abitative, nelle loro più elementari esigenze, non possono essere ingiustamente offensive della dignità personale di chiunque”. E concludeva: “In questo modo ci strappano via la nostra dignità umana!”. Mi dicevo, tornando a casa: dovremmo tutti ricordarci della parola del Signore: “Ero in carcere e siete venuti a trovarmi” (Matteo 25,36) e soprattutto viverla con gesti di solidarietà per rimediare - come e sin dove è possibile - a situazioni di squallore intollerabile.

E sulla terra pace agli uomini che egli ama

Come migliore augurio, in questa Santa Notte, vorrei risuonasse in ciascuno di voi il canto gioioso della moltitudine degli angeli sulla grotta di Betlemme: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama” (Luca 2,14). Il bambino che giace nella mangiatoia lui stesso è la pace, la pace fatta carne umana, la pace assicurata agli amati da Dio, ossia a tutti gli uomini e a ciascuno di essi. Cristo è il “Principe della pace”, scrive il profeta Isaia (9,5); è “la nostra pace”, lo definisce l’apostolo Paolo (Efesini 2,4); lui stesso, Cristo Signore, nelle beatitudini chiede ai suoi discepoli di essere “operatori di pace” (Matteo 5,9).
Quanto è necessaria oggi questa pace! Non solo per tanti popoli tuttora sconvolti dalla guerra, ma anche per il nostro Paese provato da continue tensioni e scontri verbali, forzature bugiarde e ipocrite, strumentalizzazioni inaccettabili e violenze morali e fisiche. Ma quanto è necessaria la pace anche nell’intimo delle nostre famiglie; nelle comunità cristiane, nelle relazioni quotidiane con gli altri: in casa, sul lavoro, nella scuola, in ogni ambito di vita!...

giovedì 24 dicembre 2009

Natale 2009: forse è solo questione di punti di vista



Dai il meglio di te...

L'uomo è irragionevole, illogico, egocentrico
NON IMPORTA, AMALO
Se fai il bene, ti attribuiranno secondi fini egoistici
NON IMPORTA, FA' IL BENE
Se realizzi i tuoi obiettivi, troverai falsi amici e veri nemici
NON IMPORTA, REALIZZALI
Il bene che fai verrà domani dimenticato
NON IMPORTA, FA' IL BENE
L'onestà e la sincerità ti rendono vulnerabile
NON IMPORTA, SII FRANCO E ONESTO
Quello che per anni hai costruito può essere distrutto in un attimo
NON IMPORTA, COSTRUISCI
Se aiuti la gente, se ne risentirà
NON IMPORTA, AIUTALA
Da' al mondo il meglio di te, e ti prenderanno a calci
NON IMPORTA, DA' IL MEGLIO DI TE

Madre Teresa di Calcutta (Skopje, 26 agosto 1910 – Calcutta, 5 settembre 1997)


Mi sono chiesto quale volto potrei dare al mio Natale. Gli darei il volto sorridente di Lord, 9 anni e il buon umore di quelli che sono nati nel 2000.
Mi sono chiesto quale colore potrei dare al mio Natale. E, di questi tempi, gli darei il colore fondente della pelle di Lord che qui da noi c'è forse nato, ma le sue radici stanno in Ghana.
Lord è amico di tutti; non so se sia cristiano, ma frequenta l'oratorio; gioca a calcio che sembra Seedorf e a pallacanestro, con quella divisa gialla che gli abbiamo regalato, che sembra Kareem Abdul-Jabbar ai tempi dei Lakers.
Lord è uno dei migliori amici di mio figlio Luca. E mi troverei in difficoltà a spiegare a Luca perchè potrebbe venire un giorno in cui il suo amico ghanese, ritrovandosi con alcuni connazionali, fosse costretto, per delibera di un sindaco, a parlare italiano, mentre noi, volendo, possiamo esprimerci in dialetto. Mi troverei in difficoltà a spiegare a mio figlio perchè Lord, nonostante il buon profitto non possa avere una borsa di studio perchè ha la pelle di colore diverso, perchè un somaro italiano vale più di un ghanese intelligente. Mi troverei in difficoltà a spiegargli perchè se il suo amico Lord vorrà andare ad abitare in un altro paese per avere la residenza qualcuno gli chiederà il certificato penale e a lui italo-padano, il certificato penale forse glielo chiederanno una sola volta nella vita.
Mi sono chiesto che Natale è questo del 2009, il Natale del presepio e del crocefisso, il Natale delle radici cristiane e delle crociate. Ma forse è solo il Natale delle occasioni perse, del sacrificio delle idee, del con noi o contro di noi. Forse sarebbe un Natale difficile anche per il professor Keating, sì quello de "L'attimo fuggente"

e per Robert Frost e i rimpianti per "The Road Not Taken" la strada che non presi, quella più difficile, battuta da pochi e, si direbbe oggi che si etichetta tutto come nella dispensa di Suor Germana, quei pochi quasi tutti "catto-comunisti" e amici dei negri (rigorosamente con la "gr").
Forse la verità è che un Natale difficile per tutti, per le nostre paure per le nostre insicurezza, per le nostre esistenze dall'orizzonte ristretto, per il nostro cammino insidioso, per la nostra nave senza un "capitano, mio capitano" che ci aiuti a cambiare il punto di vista.
Mi immagino un quadretto di Natale e vedo Lord lanciato a canestro infilare la palla con la scioltezza di un afro-americano, planare sul parquet e "battere un cinque" col fratello bianco, con quel mio figlio che mi insegna ogni giorno che interpretare la vita, le sue gioie e le sue paure, è solo questione di punti di vista: che differenza c'è fra bianco e nero se l'amicizia non ha colore?
Buon Natale 2009



mercoledì 23 dicembre 2009

Comuni, immigrazione e discriminazione

Prima o poi ci voleva qualcuno che facesse opera di sintesi. Se non altro per raccontarci cosa ci riserva, in provincia di Brescia, questo ultimo scorcio di fine 2009. La sintesi è quella fatta lunedì dalla Cgil, che nel corso di un incontro con la stampa ha messo ordine in una serie di delibere emanate nelle ultime settimane da alcune amministrazioni comunali. I giornali hanno dato regolarmente conto di questi provvedimenti, ma vederli così, messi in fila uno dopo l'altro scatta qualcosa di inquitante. No, c'è solo Coccaglio, quello che ha chiamato goliardicamente "White Christmas" un'operazione di controllo delle residenze in scadenza a Natale, ma anche Trenzano dove nelle associazioni nate in paese è obbligatorio parlare in italiano nel corso delle riunioni (e il gruppo anziani dove normalmente si parla in dialetto è fuori legge?) o Castelmella dove assegni e borse di studio sono solo per gli italiani o Villa Carcina, dove per ottenere la residenza gli stranieri devono avere requisiti diversificati rispetto agli italiani, o Gavardo dove gli immobili in alcune strade del paese (quelle abitate principalmente da stranieri) devono avere alcuni requisiti igienico- sanitari. Insomma si stanno creando doppi binari per italiani e stranieri e spesso tutto ciò si può definire solo con una parola: discriminazione. Magari la si giustifica con esigenze sacrosante quali sicurezza e legalità ma la finalità è una sola ed è difficle chiamarla diversamente: discriminazione.
Sembra che si stia perdendo progressivamente quella cultura democratica che è stata per anni, tra mille difficoltà economiche e politiche, il vero tesoro del nostro Paese. Sentire un sindaco (cfr. la trasmissione "Anno Zero" di giovedì scorso) dire che si può sacrificare qualche diritto per sentirsi più sicuri, vuole dire che le battaglie di quanti hanno difeso le conquiste democratiche anche ai tempi del terrorismo (quello rosso e quello nero, centinaia di morti e una guerra non convenzionale in corso), pur davanti a quanti invocavano una legislazione d'emergenza, sono passate invano. Che Paese è quello che vive di paure e le combatte con l'arma della discrimazione? Un Paese debole di spirito e di idee, poco autorevole e nel quale è sempre più difficile riconoscerci.

venerdì 18 dicembre 2009

Immigrazione a Brescia secondo Anno Zero: a voi i commenti

Coccaglio, Cologne e Trenziano ad Anno Zero: No comment

Parliamo di carcere... e regaliamo un libro


"Volete prevenire i delitti? Fate che i lumi accompagnino la libertà".
Cesare Beccaria ("Dei delitti e delle pene - capitolo XLII)

Camilleri, Carlotto, Ammaniti, Moccia e De Luca. Ma anche Valerio Onida e le sue lezioni sulla Costituzione ieri e oggi, Carlo Maria Martini e Gustavo Zagrebelsky, il cardinale e il giurista che parlano di Giustizia. In un carcere si legge forte e questi sono alcuni fra i libri che nei prossimi giorni potrebbero entrare a far parte della biblioteca delle carceri di Brescia. Sì perchè se Natale deve essere Natale sia anche per chi sta dentro. L'idea è nata dal gruppo "Valelapena", che raccoglie alcuni bibliotecari che volontariamente prestano la loro opera dietro le sbarre, all'ufficio biblioteche della Provincia di Brescia nella cui rete sono comprese anche le biblioteche di Canton Mombello e Verziano a Brescia in un preciso progetto educativo, alla associazione carcere e territorio che da anni si occupa di costruire un ponte per andare oltre il muro dei penitenziari bresciani.
L'idea è semplice: a Natale regaliamo un libro alle biblioteche del carcere. Non un libro qualunque ma un volume scelto fra un elenco elaborato dai bibliotecari per dare anche alla biblioteca del carcere un suo profilio e una sua completezza bibliografica precisa.
Così nella principali librerie di Brescia (le prime ad aderire sono state Rinascita, San Paolo, Serra Tarantola 2, Club, Ferrata, Punto Einaudi, Csam libreria dei Popoli, Ancora, Resola, ma l'elenco si arricchisce di giorno in giorno) e in quante anche in provincia espongono il logo (lo pubblichiamo in apertura del posta) dell'iniziativa "Dona un libro" sarà possibile acquistare e donare un libro alle biblioteche del carcere scegliendo fra l'elenco di testi proposto dai bibliotecari.
Un'iniziativa pubblica che vuole evidenziare quanto fino ad ora si è fatto in silenzio dietro le sbarre per promuovere la lettura fra i detenuti e per rendere operativo, al di la delle belle parole, l'articolo 27 della Costituzione secondo la quale "le pene devono tendere alla rieducazione del condannato". E rieducazione e libertà passano anche attraverso un libro.

ECCO I SEGNALIBRI NATI NELLA BIBLIOTECA DELLE CARCERI BRESCIANE

Il segnalibro elaborato dai bibliotecari del carcere di Brescia

Il segnalibro elaborato dai bibliotecari del carcere

Il segnalibro elaborato dai bibliotecari del carcere

martedì 15 dicembre 2009

Se sbatti il Duomo in faccia al premier/2: contributi al dibattito


Un lettore del post di ieri "Se sbatti il Duomo in faccia al premier", il signor Michele Filannino (che ringrazio per gli apprezzamenti), scrive nei commenti: "Travaglio ha dedicato trenta minuti del suo Passa Parola. E' stato un discorso molto interessante e giudizioso. Io lo linkerei...".
Pensando di far cosa gradita al dibattito eccolo accontentato:

CLICCA QUI PER ASCOLTARE L'INTERVENTO DI MARCO TRAVAGLIO DAL TITOLO: "IL PIU' AMATO DAGLI ITALIANI"

A questo aggiungerei anche il contributo di oggi su La Stampa di Massimo Gramellini: il titolo è "Perche mi odiano?" (cliccaci sopra per leggerlo).
Interessante il finale:
"Sventurato il popolo che ha bisogno di eroi, scriveva Brecht. Ma sventurati anche gli eroi che hanno bisogno del popolo".


Buona lettura

lunedì 14 dicembre 2009

Se sbatti il Duomo in faccia al premier


Sui fatti di domenica in piazza Duomo, sulle gesta di Massimo Tartaglia (nè eroe, nè terrorista, solo un matto che forse con qualche accortezza in più avrebbe potuto essere neutralizzato sul nascere, cfr Fiorenza Sarzanini che sul Corriere fa le pulci alla scorta), su quel Duomo di Milano sbattuto in faccia al Premier, si è scritto e detto molto. Forse si è detto anche troppo e già girano parole come "censura" che paiono quantomeno fuori luogo.
Personalmente mi sembra utile segnalare tre opinioni che, al di là della solidarietà - dovuta e incondizionata - al Premier, paiono importanti per cogliere il clima, per capire errori e tornare alla politica che non sia insulto, provocazione, prevaricazione.

1) Mario Calabresi, direttore de "La Stampa", sul suo giornale scrive:

Ci sono momenti in cui bisognerebbe abolire due parole: ma e però. L’aggressione di un uomo, in questo caso di un primo ministro, è uno di quelli. Di fronte alla violenza non possono essere accettate subordinate, ammiccamenti o tantomeno giustificazioni. Il giorno che la politica italiana tutta lo avrà compreso fino in fondo, allora sarà davvero matura.

Il volto ferito e pieno di sangue di Silvio Berlusconi non può che lasciare sgomenti, non riesco ad immaginare una persona seria o che ami definirsi democratica e perbene che possa avere una reazione diversa.

Se invece la prima cosa che passa in testa è pensare che se la sia cercata o meritata, allora siamo entrati in uno spazio in cui la dialettica politica è degenerata.

Abbiamo ricevuto numerose lettere di persone che spiegano l’accaduto e lo comprendono come reazione ad un governo che definiscono «xenofobo», «antidemocratico» o «razzista». Sono persone che mostrano di essere solidali con gli immigrati e i più deboli, sconvolte per gli attacchi di Berlusconi ai magistrati e preoccupate per la democrazia, ma non toccate da ciò che è accaduto ieri sera. Questo modo di ragionare mi fa paura: come è possibile mostrare sensibilità a senso unico, battersi contro le violenze e poi giustificare un’aggressione, essere democratici e pacifisti e provare soddisfazione per il volto tumefatto di Berlusconi. Significa che l’ideologia continua a inquinare le coscienze, ad oscurare le menti.

Si può pensare che il presidente del Consiglio sia inadatto a governare, essere convinti che le sue esternazioni contro gli altri poteri dello Stato così come contro gli organi di garanzia siano allarmanti e sbagliate, essere preoccupati per quelle leggi «ad personam» che rischiano di peggiorare lo stato della giustizia italiana, ma niente di tutto ciò può giustificare la violenza. C’è una linea che in democrazia non si può passare, un discrimine tra ciò che è lecito e ciò che non lo è a cui non si può derogare. E dire che sembrerebbe essere chiaro a tutti: tanto che anche a sinistra si invita alla mobilitazione democratica in seguito ad ogni aggressione o violenza. Questo deve valere anche per il leader di un governo di centrodestra, anche per Silvio Berlusconi.

Da ieri sera i blog e Internet sono invasi da battute, ironia, festeggiamenti e dai deliri di chi ci spiega che se l’è cercata. Su Facebook sono già nati decine di gruppi di fans dell’aggressore, Massimo Tartaglia, che in poche ore hanno raccolto migliaia di sostenitori. La rete, purtroppo, mostra ancora una volta di raccogliere il peggio di noi, ma politici e giornali hanno il dovere di non dare sponde, di essere seri e di capire che le giustificazioni ci portano su strade senza ritorno e che non si può continuare ad alzare il livello dello scontro.

E questo riguarda non solo la sinistra ma anche il premier, la sua maggioranza e i giornali che gli sono più vicini. Da mesi quasi nessuno sembra capace di sottrarsi alla tentazione di alimentare il clima terribile in cui viviamo, l’Italia somiglia sempre più ad uno stadio in cui si sente solo la voce degli ultras che gridano mentre incendiano le curve. In questo scontro continuo, in cui si parla soltanto dei destini del premier, si è persa di vista qualunque considerazione sullo stato del Paese e sui suoi bisogni.

Il presidente del Consiglio, a cui va la nostra solidarietà sincera, speriamo sia così saggio da capire che proprio lui - l’aggredito - ora può fare la differenza: può abbassare i toni e aprire la strada per un confronto più civile e rispettoso. C’è da augurarsi che anche tutta l’opposizione lo capisca e sia capace di isolare chi delira.


2) Vittorio Zucconi sul suo blog non fa molti giri di parole per dire che:

Mi sovvengo di una frase che disse Richard Nixon, al momento di essere costituzionalmente buttato giù dalla finestra, senza violenza e senza souvenir tirati sul naso. “Non si deve odiare, perchè l’odio finisce per distruggere chi lo prova, non chi ne è l’oggetto”. Creando quella sorta di Sacra Sindone da martire sanguinolento che sta mandando il Minzculpop, l’Ufficio della Propaganda Fidei sul TG4, gli apostoli di Arcore in orgasmi estatici come Santa Teresa di Lisieux, chi gli ha tirato il Duomo in faccia ha garantito a sè stesso il carcere, con le attenuanti legate alle sue condizioni mentali, ha costretto DPietro a perdere un’altra magnifica occasione per pensare prima di aprire la bocca, ha costretto tutti i suoi avversarsi e i complici vacillanti a compattarsi e inchinarsi davanti al capezzale del martire e ha preparato per la sua vittima una prognosi di altri dieci anni al potere, salvo complicazioni costituzionali. Berlusconi non sarà sconfitto dai vaffanmulo, dai gruppi con le stelline Michelin, dai quant’altro, dai facebokkini, dai cortei con chitarre elettriche e amplificatori, dai blog, ma dalla paziente, noiosa, seria, quotidiana tessitura della politica diretta a creare un’alternativa di governo concreta che attragga e sottragga i suoi elettori all’incantesimo mistico e corporale del Santo, non un “social club” di incazzati dove ci si conta fra “noantri”. L’avversario, in politica, si sconfigge utilizzando i SUOI voti, non dividendo i voti dell’opposizione. Ma certo, questo è meno divertente e molto più faticoso. Richiede, orrore, la capacità di pensare, di progettare, di scendere a patti. E di ricordare, se qualcuno si prendesse la briga di studiare un po’ di storia, che la genesi e la mistica di ogni regime passano sempre, prima o poi, per “il vile attentato”, momento necessario per la compattazione dei fedeli, la satanizzazione degli avversari, la beatificazione della vittima e la censura dei “violenti” come infatti già si sente ventilare.


3)Rosy Bindi, quella che il premier ha definito con poca sobrietà "Più bella che intelligente", non si è tirata indietro e ha detto cose scomode per il frangente in cui sono state pronunciate, ma che forse riprecchiano una realtà per troppo tempo sottovalutata:

"La mia solidarietà al presidente del Consiglio è piena e senza ombre, come altrettanto ferma e incondizionata è la condanna all’aggressione e a ogni forma di violenza. Berlusconi è vittima di un gesto isolato di una persona psicologicamente fragile che, è del tutto evidente, non ha mandanti né morali né costituzionali. Se si vuole fare una attenta riflessione sul clima politico, io credo che lo dobbiamo fare e tutti devono sentirsi responsabili.

Al presidente del Consiglio, al quale auguro una pronta guarigione, chiedo, e lo chiedo anche alla sua maggioranza, di fare la propria parte, perché da mesi questo paese viene diviso da attacchi al presidente della Repubblica, alla Corte Costituzionale, alla Magistratura e al Parlamento. Io credo che tutti dobbiamo fermarci e stabilire un clima di confronto che ci aiuti davvero ad affrontare i problemi del nostro paese. Non voglio che restino ambre sulla mia solidarietà al presidente del Consiglio e la condanna del gesto che è stato compiuto, ma altresì intendo ribadire che per uscire da questo momento così grave e difficile, tutti devono fare la propria parte, anche il presidente del Consiglio.”


Auguri presidente Berlusconi. E a tutti noi: quel volto insanguinato ci farà voltare finalmente pagina?

Parliamo di carcere: dal premio Bulloni al nuovo numero di Zona 508


Mancano una manciata di giorni a Natale e per l'associazione Carcere e territorio di Brescia questo Natale sarà segnato da un riconoscimento importante: "Il premio Bulloni 2009". Il premio Bulloni viene attribuito ogni anno dal comune di Brescia a uomini ed esperienze che incarnano la "bontà" nel senso più nobile del termine: il lavoro, la fatica, la gratuità per gli altri.
Quest'anno a ritirare il premio Bulloni sarà l'Associzione carcere e territorio esperienza di volontariato nata dall'intuizione del giudice Giancarlo Zappa (allora presidente del Tribunale di Sorveglianza)di coordinare in un'unica azione le tante esperienze che gravitavano attorno agli istituti di pena bresciani, associazioni cattoliche e laiche, uomini di buona volontà e volontari che con umiltà hanno messo a disposizioni le loro competenze per rendere la vita in carcere non un baratro senza uscita, ma un'occasione per riconoscere i propri sbagli e lavorare ad un cammino di riabilitazione. Così in questi anni Act ha fatto da volano a esperienze che hanno contribuito a tessere un rapporto stretto fra la città "fuori" e quella "dentro". Ora la città "fuori" riconosce ad Act con il Bulloni un ruolo che Act si è conquistato sul campo con le fatiche di molti. E' un premio collettivo che dice che "un'altra idea di carcere è possibile" che "lavorare per la pena come riabilitazione e rieducazione è un traguardo a portata degli uomini di buona volontà".
Conosco gli uomini di Act, conosco l'umile lavoro quotidiano di tanti di loro per cercare di evitare che la disumanità di un carcere finisca per essere la più costante delle pene accessorie. Conosco l'entusiamo di tanti ragazzi che portano l'esperienza del carcere nelle scuole lavorando per vincere i luoghi comuni e per far capire alle nuove generazioni che si può guardare oltre le mura, che anche da "Alcatraz" può partire il riscatto di un uomo.
E questo riscatto può partire anche da pensieri che prendono corpo su una pagina bianca, da riflessioni in libertà che fanno sentire vivi. Sono le riflessioni che vengono raccolte periodicamente nelle pagine di Zona 508 la rivista degli istituti di pena bresciani. L'ultimo numero è uscito in questi giorni e parla di viaggi, di luoghi esotici, ma anche di ricordi di infanzia, di luoghi che visti da dietro le sbarre appaiono ancor più struggenti.
Spero sia una buona lettura per tutti voi.

L'EDITORIALE
Sì, viaggiare… per andare oltre.

Chiamale se vuoi… evasioni. Già, in un luogo come il carcere, parlare di evasioni o è istigazione a delinquere o è un’eresia. Eppure mentre scrivo butto l’occhio sul Corriere della Sera che titola “Meglio un’ora di canzoni che la solita ora d’aria” con Francesco Facchinetti, quello di X factor, che spiega come la musica permetta di “andare oltre”, quando si portano le band (quelle musicali) dentro S.Vittore per un concerto tutto speciale. E anche noi in questo numero di Zona 508 abbiamo deciso di “andare oltre”, non con la musica, ma con la voglia di viaggiare. Le evasioni virtuali di questo numero, dunque, sono tutte dedicate ai viaggi: quelli fatti, quelli solo immaginati, quelli programmati e arenatisi in una vita già di per sé tutta a curve e in salita come una strada di montagna. Ne è uscito un mix di ricordi di infanzia, di grandi galoppate dell’immaginazione, di momenti in cui più che un viaggio si sono poste le basi per una sorta di scambio culturale. Così in questo numero capita anche che Madel parli del suo Messico meglio di una guida Clup o di una pubblicazione del Touring. Miracoli dell’evasione virtuale che si fa convivenza in un posto come il carcere dove – lo dicono dati recenti – il 37% degli ospiti è straniero e a Brescia questa percentuale è quasi il doppio (72% secondo i dati diffusi a metà ottobre dal Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria).
In questo numero, insomma, abbiamo viaggiato raccontandovi non solo luoghi, ma anche persone, sogni, famiglie, infanzie, delusioni e dolori. E se Emilio Salgari ha raccontato, seduto alla sua scrivania, avventure straordinarie in posti indimenticabili che hanno fatto sognare generazioni di bambini, i redattori di Zona 508 in questo numero vi raccontano di posti in cui vorrebbero andare, tornare, ritrovare affetti e coronare sogni. Di innocenti evasioni, insomma, che aiutano a vivere, di un’ora d’aria che profuma di tropici. E che importa se poi canti “Messico e nuvole” o “Tra la via Emilia e il West”. L’importante è: “Sì, viaggiare”.

Marco Toresini
DA ZONA 508 - OTTOBRE 2009


ECCO IL NUMERO COMPLETO DA SCARICARE IN FORMATO PDF
ZONA 508 - OTTOBRE 2009

mercoledì 9 dicembre 2009

Esiste la buona notizia? Le tesi di Gramellini e dell'Annunziata


Giusto ieri a pranzo ne parlavo con alcuni colleghi: esistono, o meglio, hanno un senso di esistere le buone notizie? E un amico, non giornalista, osservava: dovreste fare una pagina ogni tanto solo di buone notizie. Parlavamo senza sapere che qualche ora dopo, in occasione, della festa dell'Immacolata, il Papa avrebbe detto: "Il male viene raccontato, ripetuto, amplificato, abituandoci alle cose più orribili, facendoci diventare insensibili e, in qualche maniera, intossicandoci". E proprio riferendosi ai mass media ha aggiunto: "Tendono a farci sentire sempre 'spettatori', come se il male riguardasse solamente gli altri, e certe cose a noi non potessero mai accadere. Invece siamo tutti "attori" e, nel male come nel bene, il nostro comportamento ha un influsso sugli altri".
Insomma Benedetto XVI nel suo intervento ha introdotto il tema dell'incapacità dei media di dare buone notizie, contribuendo così a dare del mondo, che per fortuna nostra non è come lo dipingono i giornali, una visione realistica. Un tema, questo, vecchio come il giornalismo, un argomento nel quale entrano a pieno titolo elementi di mercato come l'audience, tiratura e diffusione. Una questione sulla quale, però, non ci si interroga mai abbastanza. Lo ha fatto oggi su La Stampa anche Massimo Gramellini, con un contributo che, al solito, non è mai banale.
Eccolo:

Il bene difficile
di MASSIMO GRAMELLINI
Il racconto del male fa male, dice il Papa. Non risveglia le coscienze, ma le intossica, rendendo gli uomini più depressi e più cinici. Difficile dargli torto, difficilissimo fare altrimenti. Eppure bisognerebbe provarci: tutti insieme, giornalisti e lettori. Cominciando col chiedersi: perché? Perché la notizia che cento agenti di Wall Street hanno fatto la coda per fornire midollo spinale a un loro acerrimo concorrente malato di leucemia vale meno dell’ipotetico omicidio del collega medesimo? Semplice, rispondono i libri sacri del giornalismo: perché le notizie sono eventi straordinari, il famoso uomo che morde il cane.

Già, ma oggi non è forse più straordinario un gesto di solidarietà? Il cronista è come il medico, insistono i testi sacri: vai da lui per farti dire che cosa non va. Già, ma oggi uno non va dal medico anche per farsi prescrivere delle cure preventive, dei vaccini, dei ricostituenti?

I potenti, e qui non alludo certo al Papa, vorrebbero che i media si occupassero soltanto di cose positive, lasciandoli peccare in santa pace. I lettori e i telespettatori anche, a parole. Perché poi, appena vai a leggere la lista delle trasmissioni più viste in tv e delle notizie più cliccate sul Web, ai primi posti trovi sempre violenza e fesserie, fesserie e violenza. Una cosa è sicura: per certi versi la realtà è migliore di quella descritta dai media e per certi altri peggiore. Ci sono meno assassini nelle città che in un telegiornale, però esistono vaste zone d’ombra, specie nel mondo degli affari, che mai vengono illuminate dalla torcia dell’informazione.

La mia sensazione è che non siamo capaci di raccontare né il bene né il male e che la maggioranza del pubblico a sua volta si è talmente intossicato, come dice Ratzinger, che non è più neanche in grado di desiderare e apprezzare la buona informazione. Manca il senso della misura. Il racconto del bene si trasforma quasi sempre in melassa buonista, in santino moralista. E il troppo miele provoca nausea. A sua volta il racconto del male privilegia la superficialità ansiogena, la curiosità morbosa e l’effetto splatter, senza affondare i denti nelle cause profonde dei problemi.

Anche il pubblico soffre dello stesso virus mediatico dei giornalisti: non ha pazienza, scappa da un canale all’altro e da un articolo all’altro, in cerca di emozioni più forti che riescano a scuotere la corazza abulica del suo cinismo. Spacciamo angoscia a dei drogati che ce ne chiedono in dosi sempre maggiori, ed è difficile ormai stabilire chi abbia cominciato per primo, e perché.

Ecco, un buon punto di partenza potrebbe essere questo: superare l’eterno dissidio bene/male, notizie buone/notizie cattive. Non è l’oggetto che conta, ma il trattamento. Una fiction appiccicosa su un eroe alimenta il mio scetticismo molto più di un film di Tarantino. Allo stesso modo, il racconto di una strage autostradale di bambini affidato alla penna di Dino Buzzati mi massaggia il cuore assai meglio di un servizio becero su qualche allegra gozzoviglia di vip. Nelle botteghe dell’informazione, ma anche fuori, è passata l’idea che esistano solo due tasti da pigiare: l’urlo e lo sghignazzo, la paura e la trucidità. Il male che tira è il virus fantomatico, l’assassina con la faccia d’angelo, l’eterna rissa dei politici. E il suo corrispettivo benefico sono la volgarità e la retorica, purché camminino sulle gambe di qualche personaggio famoso.

L’informazione ha bisogno di tinte forti, la vita invece privilegia i toni tenui. Raccontare quei toni è difficile, apprezzarli ancora di più. Bisognerebbe essere stati educati. Ma la tv - l’unica ad avere il potere per farlo - in nome di un concetto assai peloso di libertà ha da tempo abdicato a questo ruolo, preferendo dare al pubblico «quello che vuole», che è come permettere a un bambino di mangiare sempre hamburger e patatine, e poi stupirti che non ti chieda cibi più sani.

La sensazione finale è lo straniamento. Qualcuno immagina che esista un Grande Vecchio che ci vuole così: emotivi, ottusi, sostanzialmente rincoglioniti da porzioni sempre maggiori di nulla spacciato per chissà che. E’ una visione inquietante, ma al tempo stesso rassicurante. Invece io penso che in questo teatrino siamo tutti burattini e burattinai. Fabbricanti e fruitori di notizie, respiriamo tutti la stessa droga, ci nutriamo di cose fasulle mentre subiamo passivamente la realtà e, come tante belle addormentate nel bosco mediatico, restiamo in attesa di un principe azzurro che ci desti dall’incantesimo. Senza renderci conto che quel principe azzurro possiamo essere soltanto noi.


Buongiorno
del 9/12/2009
da La Stampa



E al dibattio lanciato da La Stampa ha partecipato anche Lucia Annunziata secondo la quale il male esiste ed è parte del mondo e sarebbe peggio se i giornalisti lo ignorassero o lo mettessero in secondo piano.

Ecco il suo intervento:


Il male inevitabile
di LUCIA ANNUNZIATA
E’ il rimprovero che più spesso ci viene rivolto, la critica, o l’esortazione, che ci accompagna da sempre. «Voi giornalisti sapete solo vedere e raccontare il male». Se queste parole arrivano però da Sua Santità in persona, occorre ancora una volta - e non sarà l’ultima - spiegarsi. Forse.

Confesso, intanto, di non trovare per nulla assurda o esagerata la reazione contro il male che ogni giorno gronda su di noi dai media.

Per un giornalista, aprire gli occhi al mattino e accendere la tv, e scartare il pacco dei giornali, è il primo gesto, una preparazione rituale della professione, la nostra preghiera laica del mattino, secondo Hegel, che da anni ormai io stessa anticipo con una stretta allo stomaco. Qualcuno, nelle ore che abbiamo rubato al generoso oblio del sonno, è morto, qualcun altro ha provocato danni, qualche maggior pericolo - psicologico, politico, pratico - sta scavando nella nostra vita. La tentazione c’è, di prendere la direzione che sembra indicare il Santo Padre: richiudere gli occhi, mettere da parte giornali, tv e avviarsi a un giorno normale, in cui le cose e i rapporti - senza il rumore di fondo dei media - spiccano come gioielli nelle loro scatole di velluto. Nei rari giorni in cui i media, per feste o per scioperi, non ci sono, la vita appare più tersa, e più vivibile. Per questo, quando tanti ci dicono che il nostro mestiere sta avvelenando il mondo e che noi siamo una banda di cinici, ascolto sempre. Nel mio cuore gli do ragione.

Potremmo dunque assumere questa lezione. E potremmo limitarci a voler sapere e raccontare solo di quel che ci rasserena e di quel che ci lega agli altri uomini, piuttosto che quel che ce ne divide. Potremmo ridurre il male a una breve, accennarne e pudicamente subito ammantarlo di veli. Potremmo invocare per questa pudicizia la preservazione dell’innocenza e della fiducia negli altri. Avremmo, ripeto, ragione e, forse, vivremmo meglio.

Ma sarebbe questa una vita piena? Sarebbe questa una scelta davvero positiva? Su queste domande si inciampa.

Che il male esista non credo ci siano dubbi, neppure dal punto di vista religioso. Non è nei media, non è creato dai media, ma è nella costruzione stessa della realtà. Accantonarlo, non guardarlo negli occhi, non dargli nome e cognome, non è segno di maggiore sensibilità e civiltà. E, purtroppo, ignorarlo non ci restituisce nemmeno un nuovo senso di sicurezza.

I media non sempre hanno funzionato come oggi, con la crudeltà quasi da bisturi di penetrare le cose che oggi hanno acquisito.

Nell’Ottocento i grandi giornali del mondo anglosassone, dove di fatto i media si sono sviluppati seguendo l’onda delle espansioni imperiali, erano ispirati dal cristiano senso del pudore e dalla missione di sostenere l’orgoglio della Nazione. Fu grazie a questa ispirazione che il mondo vittoriano poté a lungo non capire i suoi crimini imperiali. Ma fu sempre grazie alla rottura di quel pudore che quello stesso mondo riuscì a capire e correggere vari errori. Fra questi, le incompetenze di generali che il 25 ottobre del 1854 ordinarono la carica di Balaclava, in Crimea. I dispacci dei comandanti britannici dal fronte, che avevano mandato al massacro inutile una forza di eccellenza, e che si volevano tenere riservati, vennero pubblicati in un’edizione straordinaria della London Gazette il 12 novembre dello stesso 1854. Avremmo potuto dunque sorvolare, o seguire differentemente l’Iraq, l’Afghanistan, i Balcani, l’Iran, o la Cina, o l’Africa?

Ma forse il Santo Padre dice altro. Parla probabilmente del modo con cui parliamo di noi, delle società in cui viviamo. Queste società democratiche, che a volte nei media appaiono troppo aperte, troppo democratiche. Indugiamo troppo sui difetti di chi ci governa, seguiamo troppo la violenza sociale, le volgarità, si dice. Al punto da finire con il non farci credere più a nulla. Ripeto, può essere. E la goduria del lerciume è sicuramente il rischio.

Ma, nella sostanza, non guardare al male significa anche dare mano libera a tutti coloro che esercitano il proprio interesse, coloro che perseguono solo la propria individualità. E cosa è meglio, per tutti noi, sapere o no come si usano i nostri soldi, che rischi corriamo, come vengono educati i nostri figli, come vengono scritte o infrante le regole?

E’ vero, fa male vivere così. Ma girare gli occhi non significa vivere meglio, ma solo diventare delle vittime inconsapevoli. La migliore regola del giornalismo, che alla fine credo vale per tutti, è che una notizia buona per uno è una cattiva per un altro.

Editoriali
del 9/12/2009
da La Stampa

venerdì 4 dicembre 2009

Cosa succede ai cattolici bresciani?


Don Fabio Corazzina è un sacerdote (neo parroco a Santa Maria in Silva, parrocchia di Brescia a due passi dalla stazione ferroviaria, esponente nazionale di Pax Christi)che non ama i giri di parole, soprattutto quando si tratta di essere da pungolo ad una comunità cattolica distratta e disorientata. Don Fabio ha firmato oggi su Bresciaoggi una lettera in compagnIa di Claudio Treccani (animatore del Centro missionario diocesano) e Francesca Martinengo (giovane studentessa), una riflessione che il quotidiano ha titolato con una felice sintesi "Brescia cattolica che ti succede?". E in effetti c'è da porsi più di una domanda davanti ad una comunità che sembra bifronte: da un lato la grande spinta missionaria, la grande tradizione della solidarietà cristiana, con 700 sacerdoti sparsi per il mondo, migliaia di adozioni a distanza, centinaia di associazioni attive nel campo della cooperazione, del commercio equo e solidale, della missionarietà; dall'altro i silenzi e gli smarrimenti (anche autodenunciati come è accaduto di recente ai parroci di Franciacorta) davanti a episodi come quelli accaduti a Rovato e Coccaglio, davanti a temi che impongono una scelta nel campo dell'accoglienza e dell'integrazione, della tolleranza e della libertà religiosa, per non parlare degli ammiccamenti da parte del clero a movimenti, come quello leghista, che predicano principi apparentemente - ma non solo - inconciliabili con il vangelo. "Le comunità cristiane balbettano o tacciono - scrivono Corazzina, Treccani e Martinengo -. Ci domandiamo cosa abbiano da perdere e perchè abbiano così tante paure. Ci domandiamo perchè le nostre comunità si sono incattivite. Ci domandiamo perchè anche nei nostri consigli pastorali e fuori dalle Chiese, in paesi a maggioranza cattolica, è più facile sentire una bestemmia piuttosto che una parola di speranza. Ci domandiamo perchè sia rilanciato un cattolicesimo che cerca poltrone e potere piuttosto che uno stile di vita libero, povero e in dialogo costante con il mondo...".
Domande che bruciano in una Brixia Fidelis che sembra faticare a tenere la schiena dritta.

LEGGI, CLICCANDO QUI, IL TESTO INTEGRALE DELLA LETTERA (da www.bresciaoggi.it).

giovedì 3 dicembre 2009

La paura dell'altro e i barbari della porta accanto


«Al centro del mondo», dicono certi vecchi di Rialto, «ghe semo noialtri: i venessiani de Venessia. Al de là del ponte de la Libertà, che porta in terraferma, ghe xè i campagnoli, che i dise de esser venessiani e de parlar venessian, ma no i xè venessiani: i xè campagnoli».
«Al de là dei campagnoli ghe xè i foresti: coma­schi, bergamaschi, canadesi, parigini, polacchi, in­glesi, valdostani... Tuti foresti. Al de là dell’Adriati­co, sotto Trieste, ghe xè i sciavi: gli slavi. E i xinga­ni: gli zingari. Sotto el Po ghe xè i napo’etani. Più sotto ancora dei napo’etani ghe xè i mori: neri, arabi, meticci... Tutti mori»
(Gian Antonio Stella, giornalista, autore di "Negri froci giudei & Co. L’eterna guerra contro l’altro" - Rizzoli editore)


Gian Antonio Stella è un veneto di quelli tosti, di quelli che tradiscono le radici dall'accento, portato con orgoglio e con la consapevolezza che capire la propria storia aiuta a navigare nel futuro senza drammi, perchè in fondo le storie si ripetono. Col suo nuovo libro - "Negri froci giudei & Co." - Stella fa il punto sulle nostre paure andando indietro con il ricordo. Perchè, osserva: "È tutto, la memoria: tutto. È impossibile parlare del razzismo di oggi se non si ricorda il razzi­smo di ieri. Sull’uno e sull’altro fronte. Non puoi raccontare gli assalti ai campi rom se non ricordi secoli di po­grom, massacri ed editti da Genova allo Jutland, dove l’11 novembre 1835 organizzarono addirittu­ra, come si trattasse di fagiani, una grande caccia al gitano. Caccia che, come scrivono Donald Kenri­ck e Grattan Puxon ne Il destino degli zingari, «fruttò complessivamente un 'carniere' di oltre duecentosessanta uomini, donne e bambini». Non puoi raccontare della ripresa di un crescente odio antiebraico, spesso mascherato da critica al governo israeliano (critica, questa sì, legittima) senza ricordare quanto disse Primo Levi in una lontana intervista al «Manifesto»: «L’antisemiti­smo è un Proteo». Può assumere come Proteo una forma o un’altra, ma alla fine si ripresenta. E va riconosciuto sotto le sue nuove spoglie. Così co­m’è impossibile capire il razzismo se non si ricor­da che ci sono tanti razzismi. Anche tra bianchi e bianchi, tra neri e neri, tra gialli e gialli...".
Già il razzismo, come vincerlo, come combatterlo? Nei giorni scorsi ho letto un bel intervento di Claudio Magris sul libro di Stella dal titolo "I barbari della porta accanto". Riflessioni e provocazioni salutari per chi - come tutti noi - talvolta è disorientato, basito, davanti ai diversi, agli altri. "Persecutori e perseguitati sono talora le stesse persone, in momenti diversi e in rapporto a persone diverse" racconta Magris che prosegue: "I razzisti dicono che i neri puzzano e i liberali sanno che anche i bianchi, per i neri, puzzano. È già qualcosa, ma non basta. Ognuno di noi ha dentro di sé, anche inconsapevolmente, il suo diverso da rifiutare o il momento in cui, magari per un attimo, rifiuta qualche diverso; occorre sapere che, almeno in qualche momento di caduta spirituale e intellettuale, anche noi riteniamo a priori qualcuno più puzzolente degli altri. È questo il peccato mortale che ci insidia e tranne qualche rarissimo santo - ma forse anche lui - ognuno è un peccatore".
Che fare? Ce lo chiediamo da uomini di questo secolo e da genitori che faticano nell'educazione quotidiana. Anche su questo punto il suggerimento di Magris è acuto: "Credo che i miei genitori mi abbiano dato un formidabile vaccino contro ogni razzismo, proprio perché non mi hanno mai detto che non bisogna essere razzisti, così come non mi hanno mai detto che non si pranza in gabinetto, ma semplicemente col loro modo di essere - di lavorare, divertirsi, volersi bene, litigare, parlare - creavano un mondo in cui era impensabile essere razzisti o portarsi gli spaghetti al cesso. Tutto ciò vale più di ogni predica. Ma non sono sicuro che, se fossi ripetutamente derubato da qualcuno appartenente a un determinato gruppo, non mi lascerei andare stupidamente a un'indistinta ira verso tutto il suo gruppo. Solo se mi rendo conto di correre anch'io il rischio di rientrare nello stupidario dei fanatici posso combatterlo realmente; altrimenti cadrei anch'io nella loro presunzione di incarnare la civiltà contro i barbari e ciò vale ovviamente per tutti. Ogni convivenza, inoltre, è difficile; non a caso tanti matrimoni naufragano e non solo quelli fra bianchi e neri. Essa esige non solo il nostro rispetto dell' altro, del diverso arrivato fra noi (chi sono poi questi noi?), ma anche il suo rispetto nei nostri confronti".
Nei giorni scorsi, dopo che il comune di Coccaglio aveva apostrofato come "White Christmas" (Bianco Natale) un'operazione di verifica dei permessi di soggiorno dei residenti stranieri che dovrebbe scadere proprio il 25 dicembre e dopo che a Rovato un cittadino marocchino ha accoltellato un ragazzo e brutalmente violentato e sequestrato la fidanzata dopo averla investita con l'auto, i sacerdoti della Franciacorta si sono detti smarriti e disorientati davanti agli eventi, davanti al razzismo sottile da un lato e all'indignazione per quella violenza che rischia di riaprire, con qualche umana ragione, il baratro dell'intolleranza. Claudio Magris, umilmente, cerca di battere una via sul punto: "Domani, ad esempio, il numero di immigrati - ossia di nostri concittadini del mondo giustamente desiderosi di sfuggire a un destino orribile - potrebbe divenire così grande da rendere materialmente impossibile l' accoglienza, al di là di ogni stolido e crudele pregiudizio; se tutti i dannati della terra arrivassero in Italia, non sarebbe fisicamente possibile accoglierli tutti e sarebbe una tragedia. Sul nostro futuro - sul futuro dell' umanità - incombe la minaccia di questa tragedia. Nessuno, credo, è così geniale da sapere come stornarla. Nel frattempo, un modo di arginare l' eterna guerra contro l' altro sarebbe quella di considerare come «altri» tutti, compresi noi stessi. Potremmo prendere esempio da un' anziana donna del Banato di cui ho parlato in un mio libro, nonna Anka. Questa donna, figlia di quella terra multiculturale straziata dall' odio di tutti contro tutti, parlava male di tutte le nazionalità della sua terra, compresa quella che considerava più sua, la serba. Diceva peste e corna di tutti i diversi e di tutti gli altri, ma sapendo di essere anche lei una diversa, un' altra e di meritare alcune di quelle strapazzate. Aveva ragione, perché siamo tutti dei lazzaroni e in questo riconoscimento della comune miseria ci può essere più concreta fraternità che nei bei discorsi politicamente corretti in cui tutti, i diversi e i non diversi, vengono elogiati come brave persone".
Non sarà forse la strada maestra della convivenza, ma credo sia una traccia che merita di essere percorsa.


Gian Antonio Stella | Negri, froci, giudei & Co. - Home

giovedì 26 novembre 2009

Aprire gli armadi: dire basta all'Italia dei misteri


Fra qualche giorno, la vigilia di Santa Lucia, saranno trascorsi 40 anni dalla Strage di Piazza Fontana, la bomba collocata a Milano all'interno della Banca nazionale dell'Agricoltura. Erano le 16.30 del 12 dicembre 1969 e lo scoppiò provocò 17 morti e 88 feriti. Quella bomba segno l'inizio di una stagione di Stragi, di una guerra non convenzionale che scosse l'Italia con quella che gli storici (ormai ci affidiamo alla storia, perchè la giustizia, su questo punto è riuscita a dare ben poche soddisfazioni) chiamano "Strategia della tensione" chiusa solo nel 1984 con la bomba della vigilia di Natale sul Rapido 904 a Benedetto Val di Sambro.
L'anniversario sarà anche l'occasione per lanciare una iniziativa che vuole aprire gli armadi del Segreto di stato, affinchè, finalmente si possa giudicare la storia e quei fatti in maniera trasparente.
"Si avvicina il 40° anniversario della strage di piazza Fontana - scrivono i promotori dell'iniziativa -. Pensando a questa ricorrenza così dolorosamente significativa lanciamo l'appello "Aprire gli armadi non basta. Manifesto per l’accessibilità e la trasparenza degli archivi nell’interesse dei cittadini", sul tema del segreto di stato e della trasparenza archivistica".
I primi firmatari dell'iniziativa sono: L'Associazione “Piazza Fontana 12 Dicembre 69, il Centro Studi e iniziativa sulle stragi politiche degli anni '70, Licia, Claudia e Silvia Pinelli,l'Associazione familiari dei caduti di piazza della Loggia e “Casa della memoria” di Brescia, la fondazione Roberto Franceschi di Milano.
"Le adesioni - continuano i promotori - verranno raccolte dalla Case della Memoria di Brescia, potete comunicarle all'indirizzo email casamemoria@libero.it, casadellamemoria@28maggio74.brescia.it. L'appello sarà visibile sul sito
http://www.28maggio74.brescia.it/. In occasione delle commemorazioni sarà presentato alle autorità, con la richiesta che vengano intraprese delle azioni di breve, medio e
lungo periodo nelle aree d'intervento segnalate".

APRIAMO GLI ARMADI

domenica 22 novembre 2009

Le storie della crisi: l'acciaieria, gli americani e il sequestro


La crisi economica ci ha abituato a tanti controsensi e a digerirli come fossero l'evolversi naturale degli eventi. Qualcuno non ci sta, non ne capisce il senso e allora lotta. Segnalo la vicenda dell'Alcoa, acciaieria sarda di Portovesme nel Sulcis sulla quale sventola la bandiera americana che giusto nell'ultimo bilancio faceva utili e che ora la proprietà vuole chiudere, come hanno chiuso le tante fabbriche che costellano la zona di ciminiere. Crisi? Congiuntura? Chiamatela come volete ma in questo angolo della Sardegna la chiamano solo ingiustizia.
Consiglio in proposito la lettura del reportage apparso su La Stampa di oggi.



Gli operai dell'Alcoa: "Lasceremo
al buio l'intera Sardegna"

Nell'azienda del Sulcis: «Pronti
a tutto per bloccare la chiusura»

NICCOLO' ZANCAN
INVIATO A PORTOVESME (CAGLIARI)

E’ tutto in disgrazia, fra i canneti e i fichi d’india del Sulcis. Ruggine, abbandono, rampicanti sugli stabilimenti, esistenze avvelenate. «Questo territorio è una via crucis di ciminiere spente», dice il sindaco di Iglesias, Pierluigi Carta. Eurallumina, Otefal Sail, Ila, Rockwool. Sono storie chiuse in fretta, già diventate carcasse industriali. Ma l’Alcoa, no. La grande acciaieria degli americani, al centro esatto del Mediterraneo, funziona a ciclo continuo dal 1971. Non ha mai tradito, neanche per un giorno.

E anche oggi il fumo si alza verso il cielo di un azzurro nitido, davanti al porto industriale. Bilancio del 2008: 80 milioni di euro di utili. Mille operai al lavoro, altrettanti impegnati nell’indotto. «Abbiamo sempre reso», dice l’operaio Alessandro Cara, con una macchina fotografica al collo per fotografare i suoi compagni. «Non facciamo mica alluminio da lattine. Da qui escono pezzi pregiati per le scocche delle Ferrari e degli aerei. Non ha senso quello che sta succedendo». Ecco perché la notizia della chiusura degli impianti, arrivata via mail alle 8 di venerdì mattina, direttamente dalla casa madre di Pittsburgh, ha gettato questa zona della Sardegna nel panico. Un panico rabbioso.

Da due giorni l’alluminio non esce più dallo stabilimento. Bloccati tutti i camion. A mezzogiorno di venerdì, un operaio si è calato un passamontagna nero in faccia, prima di mettersi davanti a una piccola telecamera: «Abbiamo sequestrato i dirigenti. Le intenzioni di chiudere non possono essere messe in atto. Da qui non se ne va nessuno. Vogliamo risposte chiare». Un sequestro poi rientrato, perché l’Alcoa ha concesso 15 giorni di proroga. Ma gli operai non si fidano. Alcuni di loro hanno passato la notte in cima a un silos di petrolio, a sessanta metri di altezza.

E’ proprio il colpo d’occhio sulla via crucis di ciminiere, sugli alloggi chiusi e le case mai finite, a togliere le speranze. «Stanno sbaraccando tutti - dice l’operaio Gianmarco Zucca - eravamo un sistema, siamo rimasti soli». Si sentivano al sicuro, con gli americani. «Per la Sardegna eravamo come la Fiat», dice un collega. Ora sono arrabbiati anche di averci creduto.

«La guerra è solo all’inizio», urlano dentro al prefabbricato delle riunioni sindacali. Confezioni di bottigliette d’acqua sul tetto di un’auto scassata. Fuori c’è il sole, dentro fa caldissimo. E’ un sabato mattina di paura e poliziotti ai cancelli, a controllare a distanza. Più di duecento lavoratori applaudono il delegato della Cisl, Massimo Cara, mentre dice: «Nessuno si azzardi a parlare di cassintegrazione. Faremo tutto quello ci viene in mente per contrastare la chiusura. E non nei limiti consentiti della legge. Siamo pronti a bloccare anche la centrale elettrica qui davanti. Lasceremo la Sardegna al buio».

Proprio la fornitura di energia è lo snodo di questa storia. Per anni Alcoa ha ottenuto l’elettricità necessaria agli impianti italiani - l’altro è a Fusine (Venezia) - a prezzi agevolati. Adesso la Commissione Europea ha presentato il conto. Si parla di una sanzione da 270 milioni di euro. Il colosso dell’alluminio non intende pagare. «Questo è un giorno nero per l’industria pesante europea - scrive Klaus Kleinfeld, presidente di Alcoa -: in particolare, in un momento di così grave crisi economica, è una decisione difficile da capire». La chiusura è la conseguenza.

Gli operai sono divisi. Per qualcuno la fornitura dell’energia sottocosto è il vero motivo. Per altri, invece, è solo un pretesto: «Produrre qui non conviene più. Da quando ha chiuso l’Eurallumina le materie prime dobbiamo farle arrivare in nave dalla Guinea. La verità è che vogliono salutare la Sardegna».

Intorno alla fabbrica rimane poco. Qui intorno hanno già chiuso le miniere di carbone, poi quelle di piombo e zinco. Una terra bellissima, avvelenata negli animi e nel profondo. Anche per questo, finora, mai convertita al turismo. «La chiusura dell’Alcoa sarebbe un problema sociale», dice il parroco di Iglesias, Giovanni Paolo Zedda.

Su 130 mila residenti nella zona, 30 mila sono pensionati, altri 30 mila disoccupati. «Andiamo tutti a Roma il 26 novembre - urlano al microfono - riempiamo una nave, portiamoci mogli e figli, così non potranno picchiarci». Il sindaco di Carbonia, Salvatore Cherchi: «Non resteremo qui ad amministrare la miseria. Questo territorio non può reggere un’altra chiusura. Se non avremo risposte, restituirò la fascia tricolore».

Soltanto il mare è calmo, all’orizzonte. Da Portovesme partono piccole barche di pescatori verso l’isola di Carloforte. Cagliari è a settanta chilometri, Roma l’ultima spiaggia. Gli americani lontanissimi, dall’altra parte del mondo.
da La stampa.it


giovedì 19 novembre 2009

E se quest'anno la Natività fosse nera?


La bella pensata degli amministratori di Coccaglio di chiamare "White Christmas", Bianco Natale, un'operazione di revisione delle residenze agli stranieri in scadenza proprio il giorno di Natale, non è piaciuta neanche a Bossi e questo rende l'infurtunio (chiamiamolo così per non scomodare scenari più inquietanti) della giunta del centro della Franciacorta ancora più sconcertante.
Spulciando fra le prese di posizioni registrate in queste ore mi è capitata tra le mani quella del mio amico Franco Capretti, segretario della sezione bresciana della Conferenza Mondiale religioni per la Pace. A nome dell'organizzazione ha inviato alla comunità cristiana di Coccaglio una lettera aperta con una serie di proposte per riappropriarsi dei valori autentici del Natale, macchiati da quel "White Christmas" che puzza di blasfemo.
Fra queste proposte anche quella di realizzare "presepi neri o di colore", nelle case, in chiesa e all'oratorio del paese. E se questa proposta di una Natività nera diventasse l'impegno che ognuno di noi renderà concreto nella propria casa? Sarebbe bello. E magari avremmo qualcosa di cui parlare con orgoglio ai nostri figli.

Ecco la lettera aperta

Alla Comunità Cristiana di Coccaglio


Noi, membri della Conferenza Mondiale Religioni per la Pace (WCRP) di Brescia, soprattutto nella sua componente cristiana, abbiamo appreso con ‘dolore’ quanto sta avvenendo nella vostra comunità.
Il nostro ‘dolore’ è per chi sta subendo questa ‘legislazione’ accompagnata da un’idea di ‘pulizia’.
Tutto ciò è preoccupante in quanto questa operazione di ‘pulizia’ si regge sulla simbologia (e usiamo questo termine nel suo senso più stretto: ciò che unisce) del Natale.
Pensiamo che questa vicenda sia da affrontare senza paure e contorsioni ecclesiastiche, poiché questa associazione (pulizia=Natale) rischia di richiamare periodi della storia in cui i simboli cristiani sono stati utilizzati per dividire e massacrare. Non vale nulla, meno di niente, far memoria della Shoah se non siamo spinti a far sì che, oggi, certe espressioni e comportamenti non sono e non possono essere avvallati e sostenuti anche col nostro silenzio. Propio nel e per il silenzio sono morti milioni di uomini.
Come cristiani praticanti siamo smarriti e soprattutto stanchi che il messaggio evangelico sia costantemente sovvertito/difeso da persone che hanno scelto esattamente una ideologia per eccellenza anti-evangelica e pagana. Questo dovremmo sempre ricordarlo.
Chiediamo, quindi, alla vostra comunità di fare delle piccole dimostrazioni, che non comportano grandi ‘rischi’, ma fanno parte del nostro essere coerentemente discepoli di Colui che è nato, morto e risorto per ogni uomo che cammina sulla terra. Anche per coloro che pensano il contrario.

Ci permettiamo di suggerirvi alcune idee:

-Il Parroco e il Consiglio Pastorale sollecitino mons. Monari a una riflessione / dichiarazione in merito (per Coccaglio e comuni affini...). Ci sembra la più urgente! Oppure chiedano al Vescovo di venire a celebrare la messa di Natale proprio a Coccaglio, dimostrando così di essere il pastore di tutti. Sarebbe l’azione più forte.

-Il Parroco, il Consiglio Pastorale, il Gruppo missionario e la Caritas di Coccaglio dicano il proprio "Annuncio natalizio" in merito; non lasciatevi scippare il Natale. La stessa cosa se possibile si faccia a livello di Zona pastorale.

-A Coccaglio (in parrocchia, oratorio, nelle case eccetera) si facciano solo "presepi neri o di colore": niente personaggi "bianchi"; oppure bianchi e colorati assieme, tutti verso Gesù salvatore.

-A Coccaglio e altri comuni affini, davanti alla Chiesa, un caloroso show di canti natalizi Gospel.


Questo è quello che pensiamo, sorretti anche dai nostri membri appartenenti ad altre religioni (e normalmente stranieri).
Ricevete questa lettera come atto di vicinanza e di amicizia. Null’altro che questo.


Prof. Francesco Capretti
Segretario Conferenza Mondiale Religioni per la Pace
sezione Brescia