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domenica 22 novembre 2009

Le storie della crisi: l'acciaieria, gli americani e il sequestro


La crisi economica ci ha abituato a tanti controsensi e a digerirli come fossero l'evolversi naturale degli eventi. Qualcuno non ci sta, non ne capisce il senso e allora lotta. Segnalo la vicenda dell'Alcoa, acciaieria sarda di Portovesme nel Sulcis sulla quale sventola la bandiera americana che giusto nell'ultimo bilancio faceva utili e che ora la proprietà vuole chiudere, come hanno chiuso le tante fabbriche che costellano la zona di ciminiere. Crisi? Congiuntura? Chiamatela come volete ma in questo angolo della Sardegna la chiamano solo ingiustizia.
Consiglio in proposito la lettura del reportage apparso su La Stampa di oggi.



Gli operai dell'Alcoa: "Lasceremo
al buio l'intera Sardegna"

Nell'azienda del Sulcis: «Pronti
a tutto per bloccare la chiusura»

NICCOLO' ZANCAN
INVIATO A PORTOVESME (CAGLIARI)

E’ tutto in disgrazia, fra i canneti e i fichi d’india del Sulcis. Ruggine, abbandono, rampicanti sugli stabilimenti, esistenze avvelenate. «Questo territorio è una via crucis di ciminiere spente», dice il sindaco di Iglesias, Pierluigi Carta. Eurallumina, Otefal Sail, Ila, Rockwool. Sono storie chiuse in fretta, già diventate carcasse industriali. Ma l’Alcoa, no. La grande acciaieria degli americani, al centro esatto del Mediterraneo, funziona a ciclo continuo dal 1971. Non ha mai tradito, neanche per un giorno.

E anche oggi il fumo si alza verso il cielo di un azzurro nitido, davanti al porto industriale. Bilancio del 2008: 80 milioni di euro di utili. Mille operai al lavoro, altrettanti impegnati nell’indotto. «Abbiamo sempre reso», dice l’operaio Alessandro Cara, con una macchina fotografica al collo per fotografare i suoi compagni. «Non facciamo mica alluminio da lattine. Da qui escono pezzi pregiati per le scocche delle Ferrari e degli aerei. Non ha senso quello che sta succedendo». Ecco perché la notizia della chiusura degli impianti, arrivata via mail alle 8 di venerdì mattina, direttamente dalla casa madre di Pittsburgh, ha gettato questa zona della Sardegna nel panico. Un panico rabbioso.

Da due giorni l’alluminio non esce più dallo stabilimento. Bloccati tutti i camion. A mezzogiorno di venerdì, un operaio si è calato un passamontagna nero in faccia, prima di mettersi davanti a una piccola telecamera: «Abbiamo sequestrato i dirigenti. Le intenzioni di chiudere non possono essere messe in atto. Da qui non se ne va nessuno. Vogliamo risposte chiare». Un sequestro poi rientrato, perché l’Alcoa ha concesso 15 giorni di proroga. Ma gli operai non si fidano. Alcuni di loro hanno passato la notte in cima a un silos di petrolio, a sessanta metri di altezza.

E’ proprio il colpo d’occhio sulla via crucis di ciminiere, sugli alloggi chiusi e le case mai finite, a togliere le speranze. «Stanno sbaraccando tutti - dice l’operaio Gianmarco Zucca - eravamo un sistema, siamo rimasti soli». Si sentivano al sicuro, con gli americani. «Per la Sardegna eravamo come la Fiat», dice un collega. Ora sono arrabbiati anche di averci creduto.

«La guerra è solo all’inizio», urlano dentro al prefabbricato delle riunioni sindacali. Confezioni di bottigliette d’acqua sul tetto di un’auto scassata. Fuori c’è il sole, dentro fa caldissimo. E’ un sabato mattina di paura e poliziotti ai cancelli, a controllare a distanza. Più di duecento lavoratori applaudono il delegato della Cisl, Massimo Cara, mentre dice: «Nessuno si azzardi a parlare di cassintegrazione. Faremo tutto quello ci viene in mente per contrastare la chiusura. E non nei limiti consentiti della legge. Siamo pronti a bloccare anche la centrale elettrica qui davanti. Lasceremo la Sardegna al buio».

Proprio la fornitura di energia è lo snodo di questa storia. Per anni Alcoa ha ottenuto l’elettricità necessaria agli impianti italiani - l’altro è a Fusine (Venezia) - a prezzi agevolati. Adesso la Commissione Europea ha presentato il conto. Si parla di una sanzione da 270 milioni di euro. Il colosso dell’alluminio non intende pagare. «Questo è un giorno nero per l’industria pesante europea - scrive Klaus Kleinfeld, presidente di Alcoa -: in particolare, in un momento di così grave crisi economica, è una decisione difficile da capire». La chiusura è la conseguenza.

Gli operai sono divisi. Per qualcuno la fornitura dell’energia sottocosto è il vero motivo. Per altri, invece, è solo un pretesto: «Produrre qui non conviene più. Da quando ha chiuso l’Eurallumina le materie prime dobbiamo farle arrivare in nave dalla Guinea. La verità è che vogliono salutare la Sardegna».

Intorno alla fabbrica rimane poco. Qui intorno hanno già chiuso le miniere di carbone, poi quelle di piombo e zinco. Una terra bellissima, avvelenata negli animi e nel profondo. Anche per questo, finora, mai convertita al turismo. «La chiusura dell’Alcoa sarebbe un problema sociale», dice il parroco di Iglesias, Giovanni Paolo Zedda.

Su 130 mila residenti nella zona, 30 mila sono pensionati, altri 30 mila disoccupati. «Andiamo tutti a Roma il 26 novembre - urlano al microfono - riempiamo una nave, portiamoci mogli e figli, così non potranno picchiarci». Il sindaco di Carbonia, Salvatore Cherchi: «Non resteremo qui ad amministrare la miseria. Questo territorio non può reggere un’altra chiusura. Se non avremo risposte, restituirò la fascia tricolore».

Soltanto il mare è calmo, all’orizzonte. Da Portovesme partono piccole barche di pescatori verso l’isola di Carloforte. Cagliari è a settanta chilometri, Roma l’ultima spiaggia. Gli americani lontanissimi, dall’altra parte del mondo.
da La stampa.it


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