giovedì 10 novembre 2011
Da oggi si cambia: arriva Voci di Brescia
Vi avevamo promesso dei cambiamenti. Ecco che tengo fede agli impegni: da oggi il blog si trasferisce su Voci di Brescia, il blog collettivo della pagina di Brescia del Corriere della Sera. Sarò una delle voci della città insieme ai colleghi della redazione di Brescia del Corriere della Sera e in compagnia di qualche ospite speciale come i detenuti delle carceri di Brescia che veicoleranno i loro pensieri attraverso la rete.
Chi per seguire il mio blog digitava l'indirizzo http://www.marcotoresini.it/ non cambierà nulla: verrà automaticamente reindirizzato sulla home page del nuovo blog. Chi digitava http://marcotoresini.blogspot.com/ deve invece scrivere http://vocidibrescia.corriere.it/author/mtoresini/ oppure passare dall'indirizzo http://vocidibrescia.corriere.it/ che ospita anche gli altri blogger. Spero che continuerete a seguirmi e a seguire anche i colleghi che partecipano con me a questa nuova avventura.
Etichette:
Marco Toresini,
voci di Brescia
lunedì 26 settembre 2011
Work in progress
Qualcuno avrà notato un rallentamento dell'attività di questo blog. Non disperate (ammesso che qualcuno lo sia) stiamo lavorando per voi: work in progress...
martedì 6 settembre 2011
I funerali di Mino Martinazzoli e le due facce della Repubblica
Profumavano di Prima Repubblica oggi pomeriggio i funerali di Mino Martinazzoli a Brescia. Vedere sul sagrato del Duomo cittadino, mentre il feretro dell'ex ministro democristiano lasciava il cuore della città verso il cimitero di Caionvico, a due passi dalla sua casa, l'incedere stanco di Gerardo Bianco, lo sguardo smarrito di qualche parlamentare bresciano coetaneo dello "Strano democristiano" di Orzinuovi, la faccia smunta di Guido Bodrato, il volto segnato dalla vecchiaia di Virginio Rognoni o dei cantori della politica di quei tempi come Nuccio Fava, storico direttore e commentatore del Tg1, o Giovanni Minoli che proprio nelle ore dell'addio ha riproposto un contributo televisivo sul politico bresciano faceva un po' tv in bianco e nero, come se Jader Jacobelli dovesse improvvisare proprio lì l'ultima tribuna politica.
Mischiati a quei volti canuti, i politici di oggi, Pierluigi Bersani, Marco Follini, Rosy Bindi, Pierferdinando Casini, quelli che in un modo o nell'altro ne hanno raccolto l'eredità difficile in una politica tanto cambiata da apparire diversa, nella forma e nella sostanza. Certo su quel sagrato c'erano i reduci di una Prima Repubblica spazzata via da Tangentopoli, ingrigita dagli avvisi di garanzia e dalle lotte di corrente, quella che si trova compatta giusto dietro la bara di uno che di quelle lotte intestine ne avrebbe fatto volentieri a meno, che i provvedimenti giudiziari li ha visti invadere il salotto buono della politica italiana rimanendo attonito come si guarda un'esondazione prendere possesso, violenta e inarrestabile, della propria casa.
Certo su quel sagrato c'era la prima vituperata Repubblica, c'era mezza piazza del Gesù (quella ancora vivente vigile e collaborante perchè il tempo passa per tutti), ma sembrava che mancassero gli eredi (ad eccezione di qualche leader dell'opposizione in parlamento e qualche politico locale di maggioranza), gli eredi di una classe dirigente che, sia pur con tanti limiti, sapeva essere lungimirante, sapeva guardare oltre. Oltre se stessa, oltre il proprio consenso elettorale, sapeva costruire, come fecero i padri costituenti, qualcosa di duraturo. Mancava, lo hanno notato in molti, un rappresentante del Governo, oggi troppo impegnato, forse, nella politica del fare e del disfare, del mulinare senza costrutto, del seminare il nulla e raccogliere il niente. Se non fosse stato per l'imponenza dei corazzieri a fianco della corona della Presidenza della Repubblica (quasi commovente poco più in la il piccolo cuscino di fiori con la scritta Giorgio Napolitano) sembrava quasi che mancasse lo Stato, quello tanto distratto da scialacquare la parte buona di un'eredità e tanto supponente da ritenere di non meritare maestri. Quello che pochi mesi fa fece dire ad un uomo di buon senso come Mino Martinazzoli "Vedo il declino, non la via d'uscita". Così mentre il suo feretro lasciava la piazza, guardavi quegli scampoli di Prima Repubblica affollare il sagrato del Duomo e ti assaliva un atroce pensiero: stavamo meglio quando stava peggio?
Omelia Ai Funerali Di Mino Martinazzoli
Etichette:
funerali,
Mino Martinazzoli,
Orzinuovi
lunedì 5 settembre 2011
Martinazzoli e la politica dei bisogni
"Da questo momento (da quando Berlusconi entrò in politica, ndr) la politica non si occuperà più dei bisogni, ma degli interessi: e quando ci sono di mezzo gli interessi vince sempre il più forte"Con l'addio a Mino Martinazzoli, salutiamo uno strano democristiano (non a caso è il titolo della sua biografia curata da Annachiara Valle), di quelli che hanno sempre pagato di persona i propri sbagli e le responsabilità oggettive (dall'assassino di Sindona in carcere alla fine della Dc con il naufragio del Ppi alle elezioni politiche che segnarono la discesa in campo di Silvio Berlusconi), di quelli che non sono mai stati reticenti, tanto schietti da apparire antipatici, tanto profondi da sembrare ermetici. Eppure le sue analisi sono sempre state lucide, tanto lucide che rilette ora sembrano i commenti a caldo dello spettacolo triste di una politica incapace persino di far quadrare i conti.
Mino Martinazzoli a Giovanni Cerruti per La Stampa(Febbraio 2011)
Che dire, guardando ad una manovra economica che si smentisce in tempo reale, di un Martinazzoli che spiega come ora "non c'è più una mediazione culturale adeguata, il che dà conto di una legislazione piuttosto casuale che sembra inseguire la contingenza invece di ragionare in termini di sviluppo storico"?
Oppure come non dargli ragione rileggendo una intervista a Liberal di un anno fa (erano i giorni della P3 e della politica votata agli affari) in cui spiegava: «Purtroppo ha trionfato già tanti anni fa l’antipolitica: l’idea cioè che l’analisi politica fosse un inutile orpello, che i partiti fossero degli oggetti d’antiquariato, e che bastasse essere un buon imprenditore per governare il Paese. Una volta nel 1994 incontrai Silvio Berlusconi e cercai di spiegargli che fare politica significava fare gli interessi degli altri e non i propri. Non ebbi successo. Viviamo una situazione in cui da un lato viene da pensare - parafrasando Gobetti - che Berlusconi sia l’autobiografia della Nazione, ma anche che Berlusconi abbia determinato un tale degrado riuscendo a tirar fuori il peggio dagli italiani. E allora potremmo arrivare ad affermare che la Nazione è l’autobiografia di Berlusconi»?
Sarà stato anche un crepuscolare, ma non le mandava a dire con quell'ironia che dava il meglio di se tra gli amici. Mi capitò un giorno di incappare in Martinazzoli al bar del suo paese natale, Orzinuovi, quel paese da dove aveva mosso i primi passi in politica, dove quel giorno era tornato per ricordare un vecchio sindacalista, pioniere dei patronati, una di quelle figure che avevano aiutato centinaia di famiglie di braccianti. Erano i giorni della vittoria di Berlusconi e al bar davanti ad un Campari tra amici, una sigaretta dopo l'altra, osservava come con la vittoria del centro destra, molti di quelli che gli stavano attorno non riuscivano a capacitarsi che al governo ci stavano gli eredi di ciò che loro, giovani democratico cristiani, avevano sempre combattuto sentendolo come un limite alla libertà e alla democrazia: il fascismo.
Ora che a quella novità si sono abituati in tanti, troppi forse, lui è sempre stato un osservatore distaccato degli eventi di questa politica degli interessi, di questa politica-spettacolo senza lungimiranza, tutta chiacchiere e distintivo. "Oggi - diceva, come quel giorno al bar di Orzinuovi - è in gioco non solo il destino della democrazia, ma anche il senso della politica".
Una meditazione che ha affidato anche alla bella autobiografia curata da Annachiara Valle: "Oggi guardo da lontano. Ma continuo ad essere convinto che, anche se non lo vedrò, tornerà un tempo meno inclemente per questo seme della nostra storia che non può essere diventato infecondo. Dovranno passare molte cose. Quello che c'è in campo oggi è più un detrito, un ingombro, che non la promessa di qualcosa. Dovranno arrivare delle generazioni che risentano queste cose come cose nuove. Le risentano perchè la storia va così e non si inventa mai niente. Ho l'idea che in quella storia apparente mente chiusa ci siano delle ragioni che durano. E fra le cose che ho avuto la fortuna di imparare da quella storia, vorrei ricordare due concetti che mi sono cari: la mitezza della politica e il limite della politica. Quello del limite è un tema particolarmente importante. Continuo a non avere dubbi che, nel campo della illimitatezza della politica, che pure c'è stato, noi siamo stati quelli resistenti e vittoriosi contro il troppo della politica. Continuo a temere che oggi non contiamo più niente contro il niente della politica. Ma quello che mi conforta è sapere che ho avuto la fortuna di partecipare ad un viaggio che rende possibili gli incontri. E quel viaggio non fu un viaggio solitario. Adesso, certo, lo è diventato. Perchè in verità, alla fine, si viaggia solo per tornare".
Buon viaggio Mino Martinazzoli
Etichette:
Mino Martinazzoli,
Orzinuovi
venerdì 19 agosto 2011
Estate 2011: lui in canottiera, noi in mutande
da www.messaggero.it |
Bossi sarà anche in canottiera in questa estate 2011, ma lo spettacolo triste di questo agosto afoso e bizzarro è che noi siamo in mutande e c'è qualche rischio che ci tolgano anche quelle nell'indifferenza di una classe politica che fatica a fare un ragionamento complessivo su un paese che ha bisogno di rigore e sviluppo, di sicurezza e speranze. La manovra sembra colpire i soliti che già danno tanto e difettare di equità come se nessuno capisca quale sia il mondo reale. Un esempio: si parla di abolire le pensioni di anzianità, ma qualcuno si è mai chiesto quanti anni di lavoro dovrà fare un operaio o un muratore che ha iniziato a faticare subito dopo la scuola dell'obbligo? Fatti due calcoli avremo casi di gente che si avvicinerà ai 50 anni di contribuzione, in lavori non proprio rilassanti. E' giusto?
A quale principio di equità poi faremo appello giustificando questa scelta davanti a piani industriali (ad esempio nel settore del credito) che mandano in pensione dipendenti a poco più di 55 anni di età, per non parlare di prepensionamenti a 48, 50 anni giustificati da stati di crisi spesso indotti artificialmente per rimettere in riga costi del lavoro troppo borderline?
A quale principio di equità faremo appello davanti a parlamentari che con 10 anni di attività politica lucrano un vitalizio di 3 mila euro o, se in carica per una sola legislatura, si assicurano comunque un assegno di duemila euro (pensione che la maggior parte degli italiani non vede nemmeno dopo 35 anni di fabbrica)?
Non basta una canottiera per avvicinare la politica alla gente, perchè ormai se la politica è in canottiera gli elettori sono letteralmente in mutande, aspettando ormai da troppo tempo di vedere tutti contribuire, in proporzione al proprio reddito come vuole la Costituzione, alla vita e al benessere di questo Paese. In base a quale principio di equità la manovra non contiene misure serie e drastiche per battere l'evasione fiscale (diminuendo ulteriormente gli obblighi di tracciabilità, rendendo non solo impossibile, ma anche poco conveniente il nero)? Perchè si continua a far finta di nulla davanti a redditi troppo irrisori per essere veri? Il ministro-commercialista Giulio Tremonti forse dovrebbe farsi domande come queste per acquistare credibilità.
In quest'Italia c'è, insomma, qualcuno che rischia di pagare tutto anche per i furbi e chi continua a far finta di nulla. Questi ultimi saranno pure in canottiera, ma gli altri rischiano di non avere più nemmeno le mutande.
Etichette:
equità,
Giulio Tremonti,
manovra,
pensioni,
Silvio Berlusconi,
Umberto Bossi
martedì 16 agosto 2011
Ferragosto di nani
I momenti di crisi, un tempo imponevano i governi di Unità nazionale, le larghe intese, le convergenze. Oggi l'estate ha portato un ferragosto di nani e ballerine, una politica senza stile e senza freni inibitori. Sentire ieri a Ponte di Legno Bossi dare del nano di Venezia a Renato Brunetta spiegandogli, in un discorso di alta politica, che non doveva "rompere i coglioni sulle pensioni" è il segno di un dibattito forse mai caduto così in basso. Che Brunetta non sia un mostro di simpatia è risaputo, che non goda di grande seguito pure, che le pensioni vadano difese e le risorse cercate altrove siamo tutti d'accordo, ma lo stile in politica è essenziale, è lo stile di una nazione. Lo stile non è ipocrisia (si possono dire le stesse cose senza trascendere), lo stile è sostanza, è uno degli aspetti dell'autorevolezza di un Paese.
In passato avete mai sentito un Berlinguer dare del nano in pubblico a Fanfani? O qualche parlamentare dare del ciccione a Spadolini? Ora ci si insulta tra ministri in un momento in cui la coesione d'intenti e di progetti dovrebbe essere totale.
Così il teatrino della politica diventa un circo e il ferragosto una festa per nani e ballerine. L'ultimo sguaiato passo di danza prima della fine...
In passato avete mai sentito un Berlinguer dare del nano in pubblico a Fanfani? O qualche parlamentare dare del ciccione a Spadolini? Ora ci si insulta tra ministri in un momento in cui la coesione d'intenti e di progetti dovrebbe essere totale.
Così il teatrino della politica diventa un circo e il ferragosto una festa per nani e ballerine. L'ultimo sguaiato passo di danza prima della fine...
Etichette:
ferragosto,
politica,
Renato Brunetta,
Umberto Bossi
lunedì 8 agosto 2011
Suor Giuliana e la ricetta della crisi
In questi giorni difficili sfogliando i giornali ho visto l'immagine e ho letto una storia che mi suonava famigliare. Ho letto di Suor Giuliana Galli (nella foto a sinistra), sorella della Piccola casa della Divina provvidenza, il Cottolengo, di Torino, da qualche anno ai vertici della Compagnia di San Paolo, maggiore azionista di un colosso bancario qual è il gruppo Intesa-San Paolo. In questi giorni sorella banca (come era stata battezzata ai tempi del suo insediamento nel salotto buono della finanza torinese) è tornata alla ribalta delle cronache per il semplice ma incisivo commento al rally borsistico di queste ore: «A questo punto non ci resta che pregare». Per Massimo Gramellini era l'unica che in tanta confusione aveva chiara una strategia, per altri dietro quelle preghiere c'è la necessità di spronare chi guida la nave in burrasca a fare di più per il bene comune.
Leggevo l'analisi umana di suor Giuliana e qualcosa, nelle sue parole, mi suonava famigliare, leggevo il suo curriculum e mi rendevo conto di aver conosciuto, quasi in un'altra vita, quella suora oggi 70enne. Ero uno studente con molti amici che avevano condiviso un'esperienza forte nelle estati calde che ci riservava la nostra gioventù: settimane trascorse indossando un camice bianco fra le corsie e i padiglioni del Cottolengo di Torino. Racconti entusiasti di fatiche quotidiane che davano un senso alla vita, che aiutavano a crescere, a condividere le difficoltà con persone che nonostante arrivassero da una vita avara, avevano tanto da dare.
Pur non avendo mai vissuto quell'esperienza di volontariato in prima persona amavo riempire le mie giornate estive dei racconti degli amici, dei bilanci entusiasti di quelle settimane che ti facevano sentire utili agli altri. E ad arricchire quei racconti di solidarietà vera c'erano spesso le riflessioni di suor Giuliana, una suora allora giovane e dinamica che si occupava di coordinare le volontarie che vivevano l'esperienza del Cottolengo. Negli inverni nebbiosi della provincia spesso era lei, in trasferta, a raccontare con trasporto cosa voleva dire mettersi al servizio degli altri.
Ora ho scoperto che quella suor Giuliana, descritta come una piccola eroina e confidente dalle sue giovani volontarie trent'anni fa, oggi è una suora-banchiera, quella "sorella banca" che esorta alla preghiera e all'impegno per salvare il titanic dalla bufera della speculazione. Mi sono documentato: ho raccolto opinioni, scritti su questa religiosa prestata alla stanza dei bottoni. Ho ritrovato quello spirito di suora cottolenghina che mi aveva affascinato da giovane. E con lei ho ritrovato la speranza che, forse, la legge del cuore può vincere sull'aridità dei diagrammi e dei grandi numeri. Piazza Affari forse non è il Cottolengo, ma in un momento così difficile resta solo la Provvidenza. A Milano come a Torino.
Leggevo l'analisi umana di suor Giuliana e qualcosa, nelle sue parole, mi suonava famigliare, leggevo il suo curriculum e mi rendevo conto di aver conosciuto, quasi in un'altra vita, quella suora oggi 70enne. Ero uno studente con molti amici che avevano condiviso un'esperienza forte nelle estati calde che ci riservava la nostra gioventù: settimane trascorse indossando un camice bianco fra le corsie e i padiglioni del Cottolengo di Torino. Racconti entusiasti di fatiche quotidiane che davano un senso alla vita, che aiutavano a crescere, a condividere le difficoltà con persone che nonostante arrivassero da una vita avara, avevano tanto da dare.
Pur non avendo mai vissuto quell'esperienza di volontariato in prima persona amavo riempire le mie giornate estive dei racconti degli amici, dei bilanci entusiasti di quelle settimane che ti facevano sentire utili agli altri. E ad arricchire quei racconti di solidarietà vera c'erano spesso le riflessioni di suor Giuliana, una suora allora giovane e dinamica che si occupava di coordinare le volontarie che vivevano l'esperienza del Cottolengo. Negli inverni nebbiosi della provincia spesso era lei, in trasferta, a raccontare con trasporto cosa voleva dire mettersi al servizio degli altri.
Ora ho scoperto che quella suor Giuliana, descritta come una piccola eroina e confidente dalle sue giovani volontarie trent'anni fa, oggi è una suora-banchiera, quella "sorella banca" che esorta alla preghiera e all'impegno per salvare il titanic dalla bufera della speculazione. Mi sono documentato: ho raccolto opinioni, scritti su questa religiosa prestata alla stanza dei bottoni. Ho ritrovato quello spirito di suora cottolenghina che mi aveva affascinato da giovane. E con lei ho ritrovato la speranza che, forse, la legge del cuore può vincere sull'aridità dei diagrammi e dei grandi numeri. Piazza Affari forse non è il Cottolengo, ma in un momento così difficile resta solo la Provvidenza. A Milano come a Torino.
martedì 2 agosto 2011
Bologna, i nomi e le storie
I fatti della nostra storia, anche quelli più tragici e drammatici, diventati negli anni, macigni difficili da metabolizzare, sono innanzitutto storie di persone. Ecco perchè, ricordando la Strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, voglio ricordare soprattutto i nomi delle 85 vittime. Gente normale, giovani, donne, padri e madri di famiglia: inseguivano in una stazione la voglia di vacanza e hanno trovato la morte alle 10,25. Scorriamo i loro nomi, leggiamoli come fosse una preghiera laica. La preghiera che nutre la memoria, una memoria che si anima di nomi e storie e che vorremmo non fosse più popolata di fantasmi senza requie. A Brescia come a Bologna, a Milano come nelle tante stragi dimenticate.
Strage della Stazione di Bologna
a Bologna, 2 agosto 1980, 85 morti e 200 feriti:
1. Antonella CECI , anni 19
2. Angela MARINO, anni 23
3. Leo Luca MARINO, anni 24
4. Domenica MARINO, anni 26
5. Errica FRIGERIO in DIOMEDE FRESA, anni 57
6. Vito DIOMEDE FRESA anni 62
7. Cesare Francesco DIOMEDE FRESA, anni 14
8. Anna Maria BOSIO in MAURI, anni 28
9. Carlo MAURI, anni 32
10. Luca MAURI, anni 6
11. Eckhardt MADER, anni 14
12. Margret ROHRS in MADER, anni 39
13. Kai MADER, anni 8
14. Sonia BURRI, anni 7
15. Patrizia MESSINEO, anni 18
16. Silvana SERRAVALLI in BARBERA, anni 34
17. Manuela GALLON, anni 11
18. Natalia AGOSTINI in GALLON, anni 40
19. Maria Antonella TROLESE, anni 16
20. Anna Maria SALVAGNINI in TROLESE, anni 51
21. Roberto DE MARCHI, anni 21
22. Elisabetta MANEA ved. DE MARCHI, anni 60
23. Eleonora GERACI IN VACCARO, anni 46
24. Vittorio VACCARO, anni 24
25. Velia CARLI IN LAURO, anni 50
26. Salvatore LAURO, anni 57
27. Paolo ZECCHI, anni 23
28. Viviana BUGAMELLI in ZECCHI, anni 23
29. Catherine HELEN MITCHELL, anni 22
30. John ANDREI KOLPINSKI, anni 22
31. Angela FRESU, anni 3
32. Maria FRESU, anni 24
33. loredana MOLINA in SACRATI, anni 44
34. Angelica TARSI, anni 72
35. Katia BERTASI, anni 34
36. Mirella FORNASARI, anni 36
37. Euridia BERGIANTI, anni 49
38. Nilla NATALI, anni 25
39. Franca DALL'OLIO, anni 20
40. Rita VERDE, anni 23
41. Flavia CASADEI, anni 18
42. Giuseppe PATRUNO, anni 18
43. Rossella MARCEDDU, anni 19
44. Davide CAPRIOLI, anni 20
45. Vito ALES, anni 20
46. Iwao SEKIGUCHI, anni 20
47. Brigitte DROUHARD, anni 21
48. Roberto PROCELLI, anni 21
49. Mauro ALGANON, anni 22
50. Maria Angela MARANGON, anni 22
51. Verdiana BIVONA, anni 22
52. Francesco GOMEZ MARTINEZ, anni 23
53. Mauro DI VITTORIO, anni 24
54. Sergio SECCI, anni 24
55. Roberto GAIOLA, anni 25
56. Angelo PRIORE, anni 26
57. Onofrio ZAPPALÀ, anni 27
58. Pio Carmine REMOLLINO, anni 31
59. Gaetano RODA, anni 31
60. Antonio DI PAOLA, anni 32
61. Mirco CASTELLARO, anni 33
62. Nazzareno BASSO, anni 33
63. Vincenzo PETTENI, anni 34
64. Salvatore SEMINARA, anni 34
65. Carla GOZZI, anni 36
66. Umberto LUGLI, anni 38
67. Fausto VENTURI, anni 38
68. Argeo BONORA, anni 42
69. Francesco BETTI, anni 44
70. Mario SICA, anni 44
71. Pier Francesco LAURENTI, anni 44
72. Paolino BIANCHI, anni 50
73. Vincenzina SALA in ZANETTI, anni 50
74. Berta EBNER, anni 50
75. Vincenzo LANCONELLI, anni 51
76. Lina FERRETTI in MANNOCCI, anni 53
77. Romeo RUOZI, anni 54
78. Amorveno MARZAGALLI, anni 54
79. Antonio Francesco LASCALA, anni 56
80. Rosina BARBARO in MONTANI, anni 58
81. Irene BRETON in BOUDOUBAN, anni 61
82. Pietro GALASSI, anni 66
83. Lidia OLLA in CARDILLO, anni 67
84. Maria IDRIA AVATI, anni 80
85. Antonio MONTANARI, anni 86
Etichette:
Strage di Bologna,
Stragi,
terrorismo,
vittime del terrorismo
lunedì 1 agosto 2011
D'Avanzo e la lezione del giornalismo di strada
Un direttore che mi ha insegnato molto, Piero Agostini, tanto da diventare un'icona di questo blog (scrolla la colonna qui a destra), diceva sempre a noi giovani giornalisti di provincia, quando il fatto di cronaca locale diventava evento nazionale e in redazione si materializzavano i Gianantonio Stella (Corriere), i Piero Colaprico (Repubblica), i Pino Corrias e i Pierangelo Sapegno (Stampa), i Renato Pezzini (Messaggero): "guardate come lavorano e imparate".
Così metabolizzavamo le grandi attese, le grandi scarpinate dal tribunale alla questura, dalla scena del crimine alla caserma, dalla procura allo studio dell'avvocato. Pigliavamo qualche insulto, ma imparavamo a non mollare mai, senza orari ma con tanto entusiasmo. E quando capitava di dare qualche "buco" al giornale nazionale (noi che a Brescia lavoravamo tutti i giorni e avevamo fonti talvolta insospettabili) arrivava la stretta di mano calorosa del competitor agguerrito ma onesto, il tributo del compagno di strada "famoso", concorrente leale, maestro quanto basta ma senza tirarsela troppo.
Ho ripensato a quegli anni leggendo i ricordi di Giuseppe D'Avanzo, giornalista di Repubblica, uomo di inchieste severe e scottanti, professionista di strada, nonostante qualifiche da editorialista e vice direttore. D'Avanzo, morto sabato per un infarto, era considerato uno dei maggiori giornalisti d'inchiesta italiani. "Mancherà a tutti" ha twittato sabato il direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli, che ha affidato il ricordo del giornalista napoletano (con un passato professionale anche al Corriere) ad un altro mostro sacro del giornalismo italiano d'indagine, Giovanni Bianconi. E' leggendo il suo affettuoso tributo ad un amico ho ritrovato l'essenza di un giornalismo che è fatica, che è giudizio critico, che - per colpa anche nostra - si insegna sempre meno.
"Una sera d' autunno di tanti anni fa - ricorda Bianconi, citando un caso che qualche notte in bianco è costata anche a me - ci ritrovammo insieme al palazzo del Viminale, ministero dell' Interno, il corridoio dove si affacciano gli uffici dei vertici della polizia. Era in corso il sequestro dell' industriale Giuseppe Soffiantini (imprenditore tessile di Manerbio, ndr), e gli investigatori pensavano di aver localizzato nei boschi della Toscana dov' era tenuto l' ostaggio. Era tardi, avevamo già consegnato l' articolo di giornata, ma bisognava saperne di più per quelli dell' indomani. A mezzanotte passata la nostra «fonte», prima di spegnere le luci e andare a casa, ci confidò che nelle ore successive avrebbero tentato un blitz. Io e Peppe ci guardammo in faccia. «Andiamo?», disse lui. «Ma lo vedi che ora è?», provai a dire. «Embè?». Poco dopo eravamo sull' autostrada, dove incrociammo le colonne di macchine della polizia che si avvicinavano al luogo dell' operazione. Arrivammo prima dell' alba, ma non servì a nulla. Il tentativo di liberare il sequestrato andò a vuoto, e aver passato la notte in bianco per giungere che era ancora buio in un posto dove non vedemmo accadere niente, fu perfettamente inutile. «Però abbiamo fatto bene», disse lui con un sorrisetto, quando ormai era giorno pieno, allungandosi sul sedile della macchina con un giornale sul viso, per dormire qualche quarto d' ora. Aveva ragione. Quel tentativo notturno, fatto sulle forze, fu inutile. Ma poteva non esserlo, e dunque bisognava provarci. È una delle regole di questo lavoro: non lasciare nulla di intentato - nemmeno le iniziative più astruse - per inseguire un fatto, raccogliere qualche dettaglio in più. E in questo Giuseppe D' Avanzo è stato davvero un maestro".
Un maestro umile ma mai appagato, come deve essere un giornalista con i gradi conquistati sulla strada. Ne parlavo ieri in redazione: avrei voluto ritargliare il pezzo di Bianconi e affiggerlo in bacheca, fra i turni di chiusura e i comunicati sindacali, affinchè lo leggessimo tutti, noi "vecchi" un po' sfiancati dalla routine, un po' distratti dalla banalità del quotidiano, come i giovani che pensano al giornalismo come a un lavoro con i suoi ritmi e i suoi orari e non ad una professione con i suoi talenti da far fruttare e una vocazione da coltivare.
Ha ragione forse Piero Colaprico quando su Repubblica ha scritto che: "I più giovani, quelli che credono di apprendere le notizie soprattutto da Internet, forse collegano D'Avanzo all'ultima stagione dello scandalo-Berlusconi. Alle sue "Dieci domande" sulla relazione tra il premier e la minorenne napoletana Noemi Letizia, che hanno fatto il giro del mondo, riprodotte da migliaia di media. E poi alle sue "Dieci bugie", scaturite dalle indagini, anche in strada, sui rapporti tra Berlusconi, Ruby Rubacuori e le altre ragazze che frequentavano le feste di Arcore. Ma D'Avanzo era uno che, come si dice, "non guardava in faccia nessuno" e dagli anni Ottanta, tra scoop da prima pagina e inchieste, ha modificato - e sul serio - uno stile giornalistico. Era l'unico a potere e sapere mescolare la cronaca, costruita e impreziosita da notizie esclusive, con i suoi commenti, le analisi, le "visioni". Eppure, decennio dopo decennio di fatiche e di strade - il tempo del giornalista che ama la cronaca è sempre intenso - D'Avanzo era rimasto esigente con se stesso, con le notizie, con la qualità nella scrittura degli articoli. "Quando funzionano, devono fiorire", diceva Giuseppe D'Avanzo, 58 anni da compiere, una quercia di giornalista, e di persona".
Fatiche e strade, gesti e condotte che dovremmo riscoprire e far riscoprire con umiltà per far rinascere la passione. La passione per un giornalismo vero, genuino, onesto e mai sottomesso, che non dimentica i fondamentali che tutti dovremmo avere nel dna. Come li aveva Giuseppe D'Avanzo.
Uno che "da opinionista affermato - conclude Bianconi sul Corriere - continuava a battere questure, tribunali e studi di avvocati alla ricerca di dettagli che potessero dare un senso alla storia che voleva raccontare, o alla tesi che intendeva sostenere. Come un cronista alle prime armi. Fino a scherzarci su, per esempio quando ci ritrovammo nella sala d' attesa di una stazione dei carabinieri dell'hinterland napoletano, per rincorrere le orme di chi aveva ammazzato e bruciato il cadavere di un ragazzino di nove anni. Si stava facendo tardi e noi stavamo ancora aspettando, stanchi e un po' sfiduciati. «E pensare che io ho un contratto da editorialista», disse prendendosi in giro. Ma bisognava stare lì. Poteva servire. E servì".
I LINK
LEGGI IL RICORDO DI GIOVANNI BIANCONI SUL CORRIERE
QUELLO DI PIERO COLAPRICO SU REPUBBLICA
IL RACCONTO DI ROBERTO SAVIANO
IL TRIBUTO DI GIANLUCA DI FEO (L'ESPRESSO)
L'EDITORIALE DI EZIO MAURO
FEDERICO GEREMICCA SU LA STAMPA
DONATELLA STASIO SUL "SOLE 24 ORE"
Così metabolizzavamo le grandi attese, le grandi scarpinate dal tribunale alla questura, dalla scena del crimine alla caserma, dalla procura allo studio dell'avvocato. Pigliavamo qualche insulto, ma imparavamo a non mollare mai, senza orari ma con tanto entusiasmo. E quando capitava di dare qualche "buco" al giornale nazionale (noi che a Brescia lavoravamo tutti i giorni e avevamo fonti talvolta insospettabili) arrivava la stretta di mano calorosa del competitor agguerrito ma onesto, il tributo del compagno di strada "famoso", concorrente leale, maestro quanto basta ma senza tirarsela troppo.
Ho ripensato a quegli anni leggendo i ricordi di Giuseppe D'Avanzo, giornalista di Repubblica, uomo di inchieste severe e scottanti, professionista di strada, nonostante qualifiche da editorialista e vice direttore. D'Avanzo, morto sabato per un infarto, era considerato uno dei maggiori giornalisti d'inchiesta italiani. "Mancherà a tutti" ha twittato sabato il direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli, che ha affidato il ricordo del giornalista napoletano (con un passato professionale anche al Corriere) ad un altro mostro sacro del giornalismo italiano d'indagine, Giovanni Bianconi. E' leggendo il suo affettuoso tributo ad un amico ho ritrovato l'essenza di un giornalismo che è fatica, che è giudizio critico, che - per colpa anche nostra - si insegna sempre meno.
"Una sera d' autunno di tanti anni fa - ricorda Bianconi, citando un caso che qualche notte in bianco è costata anche a me - ci ritrovammo insieme al palazzo del Viminale, ministero dell' Interno, il corridoio dove si affacciano gli uffici dei vertici della polizia. Era in corso il sequestro dell' industriale Giuseppe Soffiantini (imprenditore tessile di Manerbio, ndr), e gli investigatori pensavano di aver localizzato nei boschi della Toscana dov' era tenuto l' ostaggio. Era tardi, avevamo già consegnato l' articolo di giornata, ma bisognava saperne di più per quelli dell' indomani. A mezzanotte passata la nostra «fonte», prima di spegnere le luci e andare a casa, ci confidò che nelle ore successive avrebbero tentato un blitz. Io e Peppe ci guardammo in faccia. «Andiamo?», disse lui. «Ma lo vedi che ora è?», provai a dire. «Embè?». Poco dopo eravamo sull' autostrada, dove incrociammo le colonne di macchine della polizia che si avvicinavano al luogo dell' operazione. Arrivammo prima dell' alba, ma non servì a nulla. Il tentativo di liberare il sequestrato andò a vuoto, e aver passato la notte in bianco per giungere che era ancora buio in un posto dove non vedemmo accadere niente, fu perfettamente inutile. «Però abbiamo fatto bene», disse lui con un sorrisetto, quando ormai era giorno pieno, allungandosi sul sedile della macchina con un giornale sul viso, per dormire qualche quarto d' ora. Aveva ragione. Quel tentativo notturno, fatto sulle forze, fu inutile. Ma poteva non esserlo, e dunque bisognava provarci. È una delle regole di questo lavoro: non lasciare nulla di intentato - nemmeno le iniziative più astruse - per inseguire un fatto, raccogliere qualche dettaglio in più. E in questo Giuseppe D' Avanzo è stato davvero un maestro".
Un maestro umile ma mai appagato, come deve essere un giornalista con i gradi conquistati sulla strada. Ne parlavo ieri in redazione: avrei voluto ritargliare il pezzo di Bianconi e affiggerlo in bacheca, fra i turni di chiusura e i comunicati sindacali, affinchè lo leggessimo tutti, noi "vecchi" un po' sfiancati dalla routine, un po' distratti dalla banalità del quotidiano, come i giovani che pensano al giornalismo come a un lavoro con i suoi ritmi e i suoi orari e non ad una professione con i suoi talenti da far fruttare e una vocazione da coltivare.
Ha ragione forse Piero Colaprico quando su Repubblica ha scritto che: "I più giovani, quelli che credono di apprendere le notizie soprattutto da Internet, forse collegano D'Avanzo all'ultima stagione dello scandalo-Berlusconi. Alle sue "Dieci domande" sulla relazione tra il premier e la minorenne napoletana Noemi Letizia, che hanno fatto il giro del mondo, riprodotte da migliaia di media. E poi alle sue "Dieci bugie", scaturite dalle indagini, anche in strada, sui rapporti tra Berlusconi, Ruby Rubacuori e le altre ragazze che frequentavano le feste di Arcore. Ma D'Avanzo era uno che, come si dice, "non guardava in faccia nessuno" e dagli anni Ottanta, tra scoop da prima pagina e inchieste, ha modificato - e sul serio - uno stile giornalistico. Era l'unico a potere e sapere mescolare la cronaca, costruita e impreziosita da notizie esclusive, con i suoi commenti, le analisi, le "visioni". Eppure, decennio dopo decennio di fatiche e di strade - il tempo del giornalista che ama la cronaca è sempre intenso - D'Avanzo era rimasto esigente con se stesso, con le notizie, con la qualità nella scrittura degli articoli. "Quando funzionano, devono fiorire", diceva Giuseppe D'Avanzo, 58 anni da compiere, una quercia di giornalista, e di persona".
Fatiche e strade, gesti e condotte che dovremmo riscoprire e far riscoprire con umiltà per far rinascere la passione. La passione per un giornalismo vero, genuino, onesto e mai sottomesso, che non dimentica i fondamentali che tutti dovremmo avere nel dna. Come li aveva Giuseppe D'Avanzo.
Uno che "da opinionista affermato - conclude Bianconi sul Corriere - continuava a battere questure, tribunali e studi di avvocati alla ricerca di dettagli che potessero dare un senso alla storia che voleva raccontare, o alla tesi che intendeva sostenere. Come un cronista alle prime armi. Fino a scherzarci su, per esempio quando ci ritrovammo nella sala d' attesa di una stazione dei carabinieri dell'hinterland napoletano, per rincorrere le orme di chi aveva ammazzato e bruciato il cadavere di un ragazzino di nove anni. Si stava facendo tardi e noi stavamo ancora aspettando, stanchi e un po' sfiduciati. «E pensare che io ho un contratto da editorialista», disse prendendosi in giro. Ma bisognava stare lì. Poteva servire. E servì".
I LINK
LEGGI IL RICORDO DI GIOVANNI BIANCONI SUL CORRIERE
QUELLO DI PIERO COLAPRICO SU REPUBBLICA
IL RACCONTO DI ROBERTO SAVIANO
IL TRIBUTO DI GIANLUCA DI FEO (L'ESPRESSO)
L'EDITORIALE DI EZIO MAURO
FEDERICO GEREMICCA SU LA STAMPA
DONATELLA STASIO SUL "SOLE 24 ORE"
martedì 26 luglio 2011
Tuffi
I tuffi sono la metafora della vita: un salto nel vuoto e l'incognita di quanto l'acqua sia alta più sotto. Possono essere il brivido e la scommessa che aiutano a vivere, possono trasformarsi nell'azzardo che ti inghiotte in un buco nero. I tuffi sono la metafora di questa estate sull'orlo del baratro, dove può capitare che un tipo alto e biondo faccia una strage da far impallidire il più oltranzista dei talebani, dove cammini su una cresta appuntita e stretta e qualcuno ti sussurra nell'orecchio la parola che tutti temono: default. Chissà che senso fa tuffarsi nel gorgo di un Titanic che affonda? Tutti dicono "tranquilli", ma l'orchestra si sente suonare in lontananza: l'estate non è poi così torrida, ma l'inverno potrebbe essere glaciale.
Tuffarsi nel vuoto libera la voglia di scommettere su se stessi. Quest'estate ho fotografato un gruppo di giovani tuffatori lanciarsi dalle rocce a picco sul mare della Costa Azzurra: ammiravo il loro coraggio, ma temevo la loro incoscienza. Un po' come questa Italia che non si capisce bene dove voglia andare, in quali acque voglia tuffarsi. Il timore è che l'acqua sia troppo bassa...
Tuffarsi nel vuoto libera la voglia di scommettere su se stessi. Quest'estate ho fotografato un gruppo di giovani tuffatori lanciarsi dalle rocce a picco sul mare della Costa Azzurra: ammiravo il loro coraggio, ma temevo la loro incoscienza. Un po' come questa Italia che non si capisce bene dove voglia andare, in quali acque voglia tuffarsi. Il timore è che l'acqua sia troppo bassa...
giovedì 21 luglio 2011
L'estate dei poteri morti
"Queste tormentate giornate parlamentari (...) hanno trasformato il sospetto in certezza: l'Italia è ostaggio dei poteri morti"Un'estate così, forse, non si era mai vista: altro che governi balneari, chiamati a galleggiare, a far pochi danni e traghettare verso momenti politici meno burrascosi. Qui sta andando tutto a fondo: anche i giornali amici attaccano la casta, gli speculatori pressano le borse, i cittadini pagano, s'arrabbiano, preparano le monetine, persino monoliti come la Lega mostrano qualche crepa. Su che spiaggia rischiamo di annegare questa estate?
Mattia Feltri (da La Stampa del 21 luglio 2011)
Forse ha ragione Mattia Feltri oggi su La Stampa che, lanciando un occhio nell'emiciclo di Montecitorio e Palazzo Madama, si dice convinto che ormai più che una nazione in ostaggio dei poteri forti siamo un'Italia in balia dei poteri morti.
A noi, che in brache di tela ci siamo da un pezzo, anche in pieno inverno, non ci resta che sperare che in questa torrida estate si alzi almeno un po' di vento. Così la puzza sarà un po' meno pungente...
Etichette:
estate,
Mattia Feltri,
politica
lunedì 18 luglio 2011
La quotidianità e le lezioni alla politica
Talvolta la quotidianità aiuta a capire anche la politica: cosa non va e a cosa dovrebbe servire. Ecco il racconto di una giornata (venerdì scorso, per l'esattezza) che mi ha aiutato a capire alcune cose.
Scena prima: edicola del paese nel giorno di mercato. Una signora chiede una copia di Libero: "ho sentito di quelle cose alla tv, che voglio documentarmi voglio leggere, sono arrabbiata, molto arrabbiata" spiega ad alta voce al giovane edicolante. La sua esternazione fa subito breccia nei clienti dell'edicola, il tema è chiaro, la manovra finanziaria e il fatto che si sia tassato tutto fuorchè i costi della politica. "Per loro niente tagli, è uno schifo" dicono all'unisono, mentre la signora con Libero in mano ha il piglio del capopopolo. Morale: se una potenziale elettrice di centro destra (almeno a giudicare le sue letture quotidiane) la pensa così se fossi il governo inizierei a preoccuparmi e se fossi un politico italiano (al di là dello schieramento) proverei a stare un po' tra la gente per capire quanto sia profondo il solco tra il paese amministrato da Montecitorio e quello reale, tra la "Casta" e il popolo.
Scena seconda: festa del Pd nella Bassa bresciana. Una festa silenziosa e mesta, senza orchestra e con le bandiere a lutto. E' morto Gianni Alghisi, un militante storico della politica del paese, un autista di pullman ormai in pensione che ha attraversato la sinistra (dal Pci al Pd) in tutte le sue evoluzioni, ma senza risparmio: consigliere comunale, sindacalista, leader dei pensionati, animatore e uomo-macchina di tante feste dell'Unità. Se l'è portato via in mattinata un incidente stradale, forse propiziato da un malore, banale nella dinamica ma devastante nelle conseguenze. La festa e la sinistra del paese piangono ora un uomo semplice, ma che aveva saputo costruire tante cose stando in mezzo alla gente. In paese lo conoscono tutti, lo conoscono soprattutto per essere stato il presidente di una cooperativa edilizia che negli anni '70 aveva dato una casa a decine e decine di famiglie di operai, una casa in edilizia convenzionata che aveva portato sicurezza e serenità in tante persone, che ora piangono Gianni a prescindere da cosa scelgano nell'urna. Piangono l'uomo che aveva saputo interpretare i bisogni della gente, semplicemente, senza consulenze, senza studi di settore, navigando nella vita. Quella cooperativa si chiamava la Speranza, come il sentimento che animava in quegli anni la politica.
Cosa mi resta di questa giornata iniziata davanti all'edicola e chiusa in una festa di partito dedicata al ricordo?
Mi resta il rimpianto per una politica semplice, che sapeva declinare in positivo termini come speranza e interpretare senza remore i bisogni di tutti. Mi resta il disgusto e la tristezza per la politica di oggi che non riesce più ad interpretare nulla che non sia l'interesse di pochi.
Scena prima: edicola del paese nel giorno di mercato. Una signora chiede una copia di Libero: "ho sentito di quelle cose alla tv, che voglio documentarmi voglio leggere, sono arrabbiata, molto arrabbiata" spiega ad alta voce al giovane edicolante. La sua esternazione fa subito breccia nei clienti dell'edicola, il tema è chiaro, la manovra finanziaria e il fatto che si sia tassato tutto fuorchè i costi della politica. "Per loro niente tagli, è uno schifo" dicono all'unisono, mentre la signora con Libero in mano ha il piglio del capopopolo. Morale: se una potenziale elettrice di centro destra (almeno a giudicare le sue letture quotidiane) la pensa così se fossi il governo inizierei a preoccuparmi e se fossi un politico italiano (al di là dello schieramento) proverei a stare un po' tra la gente per capire quanto sia profondo il solco tra il paese amministrato da Montecitorio e quello reale, tra la "Casta" e il popolo.
Scena seconda: festa del Pd nella Bassa bresciana. Una festa silenziosa e mesta, senza orchestra e con le bandiere a lutto. E' morto Gianni Alghisi, un militante storico della politica del paese, un autista di pullman ormai in pensione che ha attraversato la sinistra (dal Pci al Pd) in tutte le sue evoluzioni, ma senza risparmio: consigliere comunale, sindacalista, leader dei pensionati, animatore e uomo-macchina di tante feste dell'Unità. Se l'è portato via in mattinata un incidente stradale, forse propiziato da un malore, banale nella dinamica ma devastante nelle conseguenze. La festa e la sinistra del paese piangono ora un uomo semplice, ma che aveva saputo costruire tante cose stando in mezzo alla gente. In paese lo conoscono tutti, lo conoscono soprattutto per essere stato il presidente di una cooperativa edilizia che negli anni '70 aveva dato una casa a decine e decine di famiglie di operai, una casa in edilizia convenzionata che aveva portato sicurezza e serenità in tante persone, che ora piangono Gianni a prescindere da cosa scelgano nell'urna. Piangono l'uomo che aveva saputo interpretare i bisogni della gente, semplicemente, senza consulenze, senza studi di settore, navigando nella vita. Quella cooperativa si chiamava la Speranza, come il sentimento che animava in quegli anni la politica.
Cosa mi resta di questa giornata iniziata davanti all'edicola e chiusa in una festa di partito dedicata al ricordo?
Mi resta il rimpianto per una politica semplice, che sapeva declinare in positivo termini come speranza e interpretare senza remore i bisogni di tutti. Mi resta il disgusto e la tristezza per la politica di oggi che non riesce più ad interpretare nulla che non sia l'interesse di pochi.
Etichette:
Gianni Alghisi,
giovani e politica
Il vescovo dei bimbi soldato
Se n'è andato durante la celebrazione della messa, stroncato da un infarto. Se n'è andato all'indomani del coronamento di un sogno: quello di rendere sovrano un lembo di terra perseguitato da una guerra di religione che, in mezzo alla povertà, tra sabbia e stenti, rendeva ancora più crudele quella guerra civile tra musulmani e cattolici.
Monsignor Cesare Mazzolari se n'è andato accasciandosi su una sedia, tra i suoi fedeli alla vigilia di un vangelo domenicale che proclamava le parabola del granello di senape che se piantano produce un albero giganteso e del lievito che impastato alla farina produce ricchezza e sostentamento per molti. Monsignor Mazzolari, con il suo entusiasmo, con la sua indomabile voglia di lottare è stato senape e lievito per un'intera regione della parte più povera dell'Africa. Chissà se un giorno lo faranno santo? Sarà il santo dei bambini soldato strappati ai kalasnikov e alle barbarie dei signori della guerra, sarà il patrono di una nazione neonata che si chiama Sud Sudan, una nazione che ora piange un padre fondatore, un uomo di chiesa che ha saputo camminare con gli ultimi nella consapevolezza che saranno i primi. Nonostante tutto. Nonostante questo mondo.
In questi link alcuni ricordi di monsignor Mazzolari:
IL BLOG DI LUIGI ACCATTOLI
IL RICORDO DI SANDRO MAGISTER
IL BLOG DI VITTORIO ZUCCONI
ANDREA SARUBBI SCRIVE...
IL RICORDO DI RADIO VATICANA
L'INTERVISTA DI MONSIGNOR MAZZOLARI RILASCIATA A ENZO BIAGI
Monsignor Cesare Mazzolari se n'è andato accasciandosi su una sedia, tra i suoi fedeli alla vigilia di un vangelo domenicale che proclamava le parabola del granello di senape che se piantano produce un albero giganteso e del lievito che impastato alla farina produce ricchezza e sostentamento per molti. Monsignor Mazzolari, con il suo entusiasmo, con la sua indomabile voglia di lottare è stato senape e lievito per un'intera regione della parte più povera dell'Africa. Chissà se un giorno lo faranno santo? Sarà il santo dei bambini soldato strappati ai kalasnikov e alle barbarie dei signori della guerra, sarà il patrono di una nazione neonata che si chiama Sud Sudan, una nazione che ora piange un padre fondatore, un uomo di chiesa che ha saputo camminare con gli ultimi nella consapevolezza che saranno i primi. Nonostante tutto. Nonostante questo mondo.
In questi link alcuni ricordi di monsignor Mazzolari:
IL BLOG DI LUIGI ACCATTOLI
IL RICORDO DI SANDRO MAGISTER
IL BLOG DI VITTORIO ZUCCONI
ANDREA SARUBBI SCRIVE...
IL RICORDO DI RADIO VATICANA
L'INTERVISTA DI MONSIGNOR MAZZOLARI RILASCIATA A ENZO BIAGI
Etichette:
bambini soldato,
Cesare Mazzolari,
Rumbek,
Sud Sudan
mercoledì 13 luglio 2011
Generazioni della patacca
Margaret Mazzantini |
L'estate 2011 porta un nome: "Nessuno di salva da solo" di Margaret Mazzantini. Biografia sentimentale di una generazione, una generazione un po' naufraga, carica di fobie e venerazioni. Amo troppo Margaret Mazzantini e la sua prosa, il suo modo di scrivere, per essere obiettivo. Mi limito a dire che mi aspettavo di più: dall'intensità di "Non ti muovere", alla leggerezza di "Manola"; dalla visionarietà di "Zorro", alla profondità di "Venuto al mondo" poteva scaturire qualcosa di più indimenticabile rispetto a questa storia d'amore di periferia, un po' fighetta, un po' abbandonata a se stessa.
Cosa mi sono appuntato di questo libro? Questo passo:
"Loro appartenevano alla generazione della patacca, del remake. Tutto era già stato provato, si trattava solo di rivisitare, senza un vero nerbo. Vecchie le ferite, le facce dipinte degli emo. Cosa c'era di nuovo? Il sushi da asporto, la festa di Halloween, Facebook. Il sogno di tutta la gente che conoscevano era quello di organizzare eventi. Di anelare a una festa continua sulle macerie di tutto. L'egoismo come unica borsa a tracolla. Eppure quello era il loro mondo e avrebbero dovuto camminarci insieme ai loro figli. Drizzare le antenne per captare un segnale positivo. (...) Chissà se gli piacerà guardare indietro la loro vita un giorno. Sono ancora abbastanza giovani. Due ragazzi, si direbbe a vederli passare nei vetri di una macchina parcheggiata.
Nessuno si salva da solo.Possono sentire l'eco di quelle parole cadere davanti ai loro passi. Una condanna o un confronto..."
(da Margaret Mazzantini "Nessuno si salva da solo" - Mondadori, 19 euro)
SFOGLIA QUI SOTTO (cliccando nell'angolo in alto a destra sulla copertina) IL PRIMO CAPITOLO
Etichette:
libri,
Margaret Mazzantini,
Nessuno si salva da solo
venerdì 24 giugno 2011
E' successo un 48!
"Io non penso sia importante dirvi come andò a finire la nostra storia. Di sicuro so soltanto che quella fu una giornata fondamentale per la mia vita. Aveva proprio ragione il professor Gagliano quando diceva: "I giorni indimenticabili della vita di un uomo sono cinque o sei in tutto. Il resto, fa volume..."Stamattina mi sveglio ed è successo un 48, nel senso dell'età. Quella che prima o poi, nel 2011 tocca a chi, come me, è nato nel 1963. E' bello però che nell'anno in cui si festeggiano i 150 anni dall'Unità d'Italia, uno compia proprio 48 anni. Quarantotto come 1848, l'anno dei moti rivoluzionari che sconvolsero l'Europa e l'Italia ancora divisa, l'anno che fu battezzato la Primavera dei popoli , denso come fu di quella voglia di riscatto dalla restaurazione. Coincidenze della storia, ma davanti al Nord Africa e al Medio Oriente in subbuglio nel 2011 in molti hanno riesumato il termine "Primavera dei popoli". Sarà forse un segno del destino?
Leonardo Pieraccioni, nell'ultima scena del film I laureati (1995)
A ciascuno la sua rivoluzione. E l'Italia? A quando una nuova primavera dei popoli? Noi che abbiamo 48 anni e non abbiamo mai conosciuto Luigi Bisignani ne sentiamo il bisogno. Per noi, ma soprattutto per i nostri figli, coloro che erediteranno ciò che noi avremo saputo costruire. E ciò che abbiamo fatto fino ad ora non mi sembra un granché.
Sì, serve proprio un 48. E noi che siamo nati nell'anno dei grandi ideali e dei grandi sogni che portano la firma dei Kennedy e dei Marthin Luther King, non possiamo che essere sponsor convinti. Perchè, per dirla con Pieraccioni: "I giorni indimenticabili della vita di un uomo sono cinque o sei in tutto. Il resto, fa volume...".
Etichette:
1848,
1963,
Compleanno,
Pieraccioni,
Primavera dei popoli
mercoledì 22 giugno 2011
Carceri: l'estate dei digiuni
E' dura l'estate in carcere. Le condizioni di vita si fanno ancora più disumane, a Brescia come a Palermo. Così l'estate 2011 delle carceri italiane sarà l'estate dei digiuni: digiunano i detenuti, digiunano i famigliari, digiunano i politici. A Brescia, a Canton Mombello (fonte: Notizie radicali), digiunano 11 detenuti e, a turno, anche i legali dell'Unione camere penali con un obiettivo dichiarato: digiunare per cambiare.
Digiuna per restituire dignità al sistema penitenziario italiano anche Marco Pannella. Lo fa ormai da due mesi con tutte le conseguenze psico-fisiche del caso. Lo fa nella solita indifferenza per una causa che dovrebbe coinvolgerci tutti, perchè il tema giustizia non può non partire dall'espiazione della pena con una garanzia di umanità e di rieducazione. In un carcere umano, garantire la certezza della pena è più facile e crea meno sensi di colpa ad uno Stato inadempiente.
Pannella digiuna in silenzio e già fioccano gli appelli a farlo desistere. Toccante quello di Adriano Sofri sul Foglio, ma c'è anche chi va oltre come Gianni Gennari su Avvenire o Pierluigi Battista sul Corriere della Sera. La domanda è solo una: il tema delle carcere, del sovraffollamento, delle condizioni di vita nelle celle italiane deve essere solo un tema che riguarda Marco Pannella e i radicali? La domanda è ovviamente retorica, perchè l'umanità delle carceri è - per dirla con Pannella - un tema di democrazia e - aggiungiamo noi - di civiltà. Quella di un Paese che non sta a sud dell'equatore.
E' USCITO IL NUOVO NUMERO DI ZONA 508, IL GIORNALE DELLE CARCERI DI BRESCIA.
SCARICATELO O LEGGETELO QUI
ZONA508-GIUGNO2011
Digiuna per restituire dignità al sistema penitenziario italiano anche Marco Pannella. Lo fa ormai da due mesi con tutte le conseguenze psico-fisiche del caso. Lo fa nella solita indifferenza per una causa che dovrebbe coinvolgerci tutti, perchè il tema giustizia non può non partire dall'espiazione della pena con una garanzia di umanità e di rieducazione. In un carcere umano, garantire la certezza della pena è più facile e crea meno sensi di colpa ad uno Stato inadempiente.
Pannella digiuna in silenzio e già fioccano gli appelli a farlo desistere. Toccante quello di Adriano Sofri sul Foglio, ma c'è anche chi va oltre come Gianni Gennari su Avvenire o Pierluigi Battista sul Corriere della Sera. La domanda è solo una: il tema delle carcere, del sovraffollamento, delle condizioni di vita nelle celle italiane deve essere solo un tema che riguarda Marco Pannella e i radicali? La domanda è ovviamente retorica, perchè l'umanità delle carceri è - per dirla con Pannella - un tema di democrazia e - aggiungiamo noi - di civiltà. Quella di un Paese che non sta a sud dell'equatore.
E' USCITO IL NUOVO NUMERO DI ZONA 508, IL GIORNALE DELLE CARCERI DI BRESCIA.
SCARICATELO O LEGGETELO QUI
ZONA508-GIUGNO2011
Etichette:
carcere,
carceri,
digiuno,
Marco Pannella,
protesta,
sovraffollamento
martedì 21 giugno 2011
Giornalismo: le parole che non si dicono più
Lamberto Sechi |
«La fatica dobbiamo farla noi per non farla fare al lettore. Ciascuno di noi ha i suoi amici ma il giornale non deve avere amici. Se scrivi una cazzata oggi non sarai più credibile domani. Se da un articolo non escono le persone, non ci sarà persona interessata a leggerlo». Un concetto che nel giornalismo di oggi pare stemperato nell'incapacità di raccontare un mondo e le sue storie, presi come siamo da una realtà virtuale che ama cercare il suo profilo migliore con la complicità degli uffici stampa.
«Non si capisce, non si capisce niente, non è chiaro, hai dato troppe cose per scontate, se uno non ha letto tutte le puntate precedenti qui si perde, credi che ogni lettore conosca a memoria la tua opera omnia?». Piccole regole di un giornalismo che ha le idee chiare concetti chiave che abbiamo dimenticato troppo presto e siamo poco capaci di tramandare a chi si affaccia a questa professione spesso con la convinzione di esser nato "imparato", anche se la scuola è quella fatta sui banchi e non sperimentata per strada.
Perchè ho citato queste frasi (prese in prestito dal blog di Alessandro Gilioli "Piovono rane" su l'Espresso.it)? Perchè appartengono al ricordo di un giornalista rigoroso scomparso ieri, lunedì 20 giugno, a 89 anni. Quel giornalista si chiamava Lamberto Sechi fu il padre professionale di tante firme prestigiose del giornalismo italiano, fu l'anima di uno dei grandi settimanali italiani, "Panorama" che con quella frase "i fatti separati dalle opinioni" tracciò una linea che voleva dire rigore e serietà di una professione sempre in tempesta.
Una frase che oggi, in un mondo dove i buoni maestri sono sempre più una rarità, andrebbe stampata sul tesserino dell'Ordine, a memoria di uno stile che spesso abbiamo perso nelle frenesie quotidiane, fra le barricate di una militanza che nessuno ci ha chiesto e che spesso si trasforma in servitù.
Ci vorrebbero ancora spiriti liberi, maestri veri come Lamberto Sechi a ricordarci con quelle frasi quale sia la nostra rotta professionale. Peccato che ce ne siano sempre meno. Una razza in via d'estinzione di cui sentiremo la mancanza in questa professione in cui certe parole e certi concetti non si dicono più.
Etichette:
giornalismo,
Lamberto Sechi
giovedì 16 giugno 2011
Politica: l'insulto e il rispetto
Il ministro Brunetta insulta i precari come Giorgio Clelio Stracquadanio nell'agosto scorso insultò in diretta tv gli operai che avevano occupato l'Isola dell'Asinara spiegando che aziende come quelle degli operai in lotta era giusto che chiudessero se quelle erano le maestranze. Frasi aberranti come quelle pronunciate l'altro giorno dal ministro della funzione pubblica verso una categoria che sopperisce alle carenze di un sistema che senza i precari sarebbe al collasso marcano una distanza sempre più abissale tra mondo reale e politica. Brunetta in proposito ha anche spiegato che all'ortomercato cercano sempre persone disposte a scaricare le cassette di frutta e verdura. E sul punto consiglierei al ministro di vedere il servizio mandato in onda ieri da Crash il programma-inchiesta di Rai Tre che si è occupato di lavoro clandestino, raccontando pure gli abusi, il lavoro nero, lo sfruttamento delle cooperative dell'ortomercato di Milano. E' questo che Brunetta vuole? E' questa Italia delle irregolarità da terzo mondo che la politica illuminata va cercando?
L'abisso in cui stiamo scivolando mi sembra sempre più fondo...
Brunetta e i precari
Stracquadanio e i cassintegrati
L'abisso in cui stiamo scivolando mi sembra sempre più fondo...
Brunetta e i precari
Stracquadanio e i cassintegrati
Etichette:
Brunetta,
Cassintegrati,
Giorgio Clelio Stracquadanio,
precari
martedì 14 giugno 2011
Un, due, tre... quorum. Democrazia è partecipazione
Era dal '95 che in Italia non si arrivava al quorum in un referendum. Era da quasi dieci anni che anche su temi importanti prevaleva il partito del non voto, dell'astensione come metodo politico, come sotterfugio per lucrare a proprio favore chi, l'astensionista cronico, ai seggi non va a prescindere.
L'arma del quorum come strumento di lotta referendaria l'hanno utilizzata in molti, dai governi alla Chiesa (l'invito all'astensione sui referendum della fecondazione assistita, ad esempio), dalle lobby (accadde con la Caccia) ai movimenti di opinione, facendo scempio, a mio avviso, di un principio che va coltivato sempre, quello della "democrazia come partecipazione". Il cinque per cento di coloro che hanno votato no al referendum sul nucleare rappresentano una nobile minoranza di chi, pur pensandola diversamente, non ha abdicato al proprio ruolo di cittadino, non ha firmato alcuna delega in bianco alla politica.
Giocare sull'astensionismo, significa nobilitare un comportamento che su altri fronti, ad esempio nelle consultazioni politiche nazionali e nelle amministrative, rappresenta rischiosi campanelli dall'allarme sulla distanza tra il cittadino e la classe dirigente, fra il "popolo" e la politica. Aver invertito la rotta, dunque, al di là di ogni interpretazione contingente (pro o contro il governo Berlusconi) rappresenta un'importante salto di qualità della società civile, una rinata voglia di scelte dal basso. "E' il primo passo verso la legalità nel nostro Paese - osserva Emma Bonino - e nelle nostre istituzioni: si riconquista uno strumento che tutti i partiti, negli ultimi 30 anni, hanno provato a distruggere". E lo hanno fatto usando un'espressione di antipolitica qual è l'astensionismo come strumento di lotta politica, un gioco pericoloso che piano piano finisce per logorare la democrazia. Ben venga, quindi, questa rinata voglia di partecipazione con l'avvertenza che c'è ancora molto da lavorare, il tarlo dell'astensionismo è tutt'altro che debellato. Vive è vegeta ancora in ampie zone d'Italia, al Nord come al Sud.
L'arma del quorum come strumento di lotta referendaria l'hanno utilizzata in molti, dai governi alla Chiesa (l'invito all'astensione sui referendum della fecondazione assistita, ad esempio), dalle lobby (accadde con la Caccia) ai movimenti di opinione, facendo scempio, a mio avviso, di un principio che va coltivato sempre, quello della "democrazia come partecipazione". Il cinque per cento di coloro che hanno votato no al referendum sul nucleare rappresentano una nobile minoranza di chi, pur pensandola diversamente, non ha abdicato al proprio ruolo di cittadino, non ha firmato alcuna delega in bianco alla politica.
Giocare sull'astensionismo, significa nobilitare un comportamento che su altri fronti, ad esempio nelle consultazioni politiche nazionali e nelle amministrative, rappresenta rischiosi campanelli dall'allarme sulla distanza tra il cittadino e la classe dirigente, fra il "popolo" e la politica. Aver invertito la rotta, dunque, al di là di ogni interpretazione contingente (pro o contro il governo Berlusconi) rappresenta un'importante salto di qualità della società civile, una rinata voglia di scelte dal basso. "E' il primo passo verso la legalità nel nostro Paese - osserva Emma Bonino - e nelle nostre istituzioni: si riconquista uno strumento che tutti i partiti, negli ultimi 30 anni, hanno provato a distruggere". E lo hanno fatto usando un'espressione di antipolitica qual è l'astensionismo come strumento di lotta politica, un gioco pericoloso che piano piano finisce per logorare la democrazia. Ben venga, quindi, questa rinata voglia di partecipazione con l'avvertenza che c'è ancora molto da lavorare, il tarlo dell'astensionismo è tutt'altro che debellato. Vive è vegeta ancora in ampie zone d'Italia, al Nord come al Sud.
Etichette:
astensionismo,
Democrazia,
partecipazione,
quorum,
referendum
sabato 11 giugno 2011
Ultimo giorno di scuola, sognando un mondo meraviglioso
Ieri è stato l'ultimo giorno di scuola. Mio figlio Luca, 11 anni ad agosto, è tornato a casa stringendo fra le mani il saluto del dirigente scolastico, Carlo Valotti, per i ragazzi che, ultimata la quinta elementare, a settembre inizieranno una nuova esperienza alle scuole medie.
L'invito del dirigente scolastico è quello di far tesoro di ciò che si è imparato per volare alto, per avere il coraggio di continuare a dare il meglio, con passione. Ho provato ad immaginare il mondo che attenderà questi ragazzi, alle sfide pesanti da raccogliere, alle ingratitudini che, nonostante l'impegno, dovranno metabolizzare, alla consapevolezza che forse vale la pena vivere da protagonisti del proprio destino piuttosto che subire quello che altri hanno costruito per te.
La lettera del direttore didattico si chiude con la traduzione del testo di "What a wonderful world", "Che mondo meraviglioso". Un bel viatico per il cittadino, l'uomo e la donna che verranno. Felici avventure...
L'invito del dirigente scolastico è quello di far tesoro di ciò che si è imparato per volare alto, per avere il coraggio di continuare a dare il meglio, con passione. Ho provato ad immaginare il mondo che attenderà questi ragazzi, alle sfide pesanti da raccogliere, alle ingratitudini che, nonostante l'impegno, dovranno metabolizzare, alla consapevolezza che forse vale la pena vivere da protagonisti del proprio destino piuttosto che subire quello che altri hanno costruito per te.
La lettera del direttore didattico si chiude con la traduzione del testo di "What a wonderful world", "Che mondo meraviglioso". Un bel viatico per il cittadino, l'uomo e la donna che verranno. Felici avventure...
Vedo alberi verdi, anche rose rosse
Le vedo sbocciare per me e per te
E fra me e me penso, che mondo meraviglioso
Vedo cieli blu e nuvole bianche
Il benedetto giorno luminoso, la sacra notte scura
E fra me e me penso, che mondo meraviglioso
I colori dell'arcobaleno, così belli nel cielo
Sono anche nelle facce della gente che passa
Vedo amici stringersi la mano, chiedendo "come va?"
Stanno davvero dicendo "Ti amo"
Sento bambini che piangono, li vedo crescere
Impareranno molto più di quanto io saprò mai
E fra me e me penso, che mondo meraviglioso
Sì, fra me e me penso, che mondo meraviglioso
Oh sì
Etichette:
fine della scuola,
scuola,
what a wounderful world
venerdì 10 giugno 2011
La pazza idea di Pisapia: metti una direttrice di carceri alla sicurezza
Questo pomeriggio sarà lo stesso Giuliano Pisapia, neosindaco di Milano, a dire se siano fondate le indiscrezioni di alcuni giornali che indicano in Lucia Castellano, direttrice del carcere di Bollate, come prossimo assessore alla Sicurezza di Milano (altri, minoritari, invece la vorrebbero con deleghe alla casa e demanio). Se così fosse un direttore di Carceri come Lucia Castellano sarebbe sicuramente una (insieme probabilmente al ridimensionamento pesante degli appetiti dei partiti sull'esecutivo) delle più importanti novità della giunta di Giuliano Pisapia.
Perchè? Perchè sui temi della sicurezza la giunta Pisapia avrebbe un approccio completamente diverso rispetto al passato e rispetto a tante giunte di destra o di sinistra.
Mi spiego: in molti comini hanno scelto l'assessore alla sicurezza come si sceglie un super poliziotto (in proposito si è fatto un largo uso di questori in pensione, generali dei carabinieri a riposo e uomini politici con il pallino dell'ordine e della disciplina e l'ambizione della visibilità ad ogni costo). In quest'ottica le proposte sulla sicurezza di una municipalità si sono tradotte in veri e propri provvedimenti di polizia di taglio repressivo: ordinanze coprifuoco, regolamenti di sicurezza urbana molto rigidi anche contro comportamenti che non sono potenzialmente criminogeni (dal gioco nei parchi, agli assembramenti in genere). Altrettanto frequentemente gli assessori hanno messo la divisa e partecipato attivamente all'attività dei vigili urbani sempre più diretta e indirizzata verso un ruolo di polizia. Tutti comportamenti in tema di sicurezza che talvolta sono anche stati censurati da organi giurisdizionali perchè travalicavano le competenze attribuite ad una amministrazione comunale su questi temi.
Ora, alla luce delle esperienze passate, un approccio esclusivamente poliziesco ai temi della sicurezza di una città è effettivamente efficace? I numeri sul punto dicono cose contrastanti e di lettura ambivalente, i fatti ci spiegano come, ad esempio, il pugno di ferro usato a Milano contro i nomadi non abbia risparmiato la città dalla tragedia che ha visto morire un operaio di 28 anni travolto da un'auto, in fuga dopo una spaccata in tabaccheria, con a bordo alcuni nomadi minorenni.
Non è arrivato il momento di tentare un approccio diverso? Detto che le regole vanno rispettate, detto che la repressione e il compito di contrasto della criminalità piccola e grande è assolto con competenza, esperienza e collaudata capacità dagli organi di polizia tradizionali, non vale la pena investire sulla costruzione di un nuovo patto di legalità che si dipani tra educazione e rimozione delle criticità?
Chi conosce l'esperienza di Lucia Castellano a Bollate, i suoi libri, le sue idee improntate sull'umanità e la responsabilità, sa che potrebbe essere un buon assessore alla sicurezza. Bollate, inteso come carcere, è una città complessa, un domicilio coatto per delinquenti veri, ma non è un ghetto, l'inferno dal quale non si risorgerà mai. Bollate, lo dicono i dati, è, per tanti detenuti, un laboratorio per costruirsi una nuova vita, fatta anche di una presa di coscienza dei propri sbagli e di un rinnovato senso di legalità. Il tutto si concretizza in una esperienza che riduce le recidive al minimo, tanto che non vale per Bollata ciò che altrove è una triste realtà: il carcere è un luogo criminogeno, un posto dal quale si esce più delinquenti di come si è entrati.
E' una sfida complessa quella che Lucia Castellano ha intrapreso con successo a Bollate («Non è facile convincere a lavorare per 700 euro al mese chi, in un solo giorno di spaccio, ne guadagnava 1000. Ma la vera sfida è nostra: la cultura del carcere è ancora troppo autoreferenziale», ha detto la direttrice in un'intervista a La Stampa). Una sfida e un modello che potrebbe avere successo anche sperimentati in una città senza muri e sbarre come Milano. Parlare di sicurezza non esclusivamente in termini repressivi, ma in termini educativi e propositivi può essere la nuova sfida di una città che non mette il filo spinato attorno ai ghetti, ma li rende artefici del proprio destino, offre loro gli strumenti giusti affinchè sappiano costruirsi un futuro migliore, sappiano autoimmunizzarsi dai rischi criminali che da sempre si coltivano in seno.
Del resto, perchè non iniziare a fare dalla città, quello che esperienze illuminate come Bollate fanno solo alla fine di un percorso a tappe caratterizzato dall'espulsione dal tessuto sociale, da reati, processi e condanne? Potrebbe essere l'uovo di Colombo, anche se in termini di propaganda paga di più la paura e la repressione; potrebbe essere il segno più concreto di quel nuovo che avanza che ha il volto di Giuliano Pisapia. Le prossime ore e i prossimi giorni diranno se questa "pazza idea" avrà un futuro. Altrimenti, ne siamo consapevoli, sarà l'ennesima occasione persa.
Aggiornamento: Nel pomeriggio dell'11 giugno Giuliano Pisapia ha scelto la sua giunta (leggi qui le deleghe) a Lucia Castellano non è andata la sicurezza, ma le deleghe alla casa, al demanio e ai lavori pubblici. Fra le prime dichiarazioni di intenti, l'ormai ex direttrice del carcere di Bollate ha spiegato che le case popolari non devono essere necessariamente dei ghetti, che le periferie non devono trasformarsi in carceri per chi le abita. Una tesi da sottoscrivere.
L'assessorato alla sicurezza è andato a Marco Granelli, un giovane che ha lavorato molto nei quartieri, con il volontariato. Cambia il nome dell'assessore, ma non il principio ispiratore che vuole un concetto di sicurezza che parta, innanzitutto da una cittadinanza attiva che rimuova i disagi, da una comunità che grazie alla coesione affronti e risolva le criticità. La sicurezza è un processo da costruire insieme, con meno divise, forse, ma più educazione e maggiore consapevolezza dei doveri da parte di tutti.
Lucia Castellano parla di sicurezza e buongoverno
Clicca qui per accedere alla seconda parte dell'intervento.
Perchè? Perchè sui temi della sicurezza la giunta Pisapia avrebbe un approccio completamente diverso rispetto al passato e rispetto a tante giunte di destra o di sinistra.
Mi spiego: in molti comini hanno scelto l'assessore alla sicurezza come si sceglie un super poliziotto (in proposito si è fatto un largo uso di questori in pensione, generali dei carabinieri a riposo e uomini politici con il pallino dell'ordine e della disciplina e l'ambizione della visibilità ad ogni costo). In quest'ottica le proposte sulla sicurezza di una municipalità si sono tradotte in veri e propri provvedimenti di polizia di taglio repressivo: ordinanze coprifuoco, regolamenti di sicurezza urbana molto rigidi anche contro comportamenti che non sono potenzialmente criminogeni (dal gioco nei parchi, agli assembramenti in genere). Altrettanto frequentemente gli assessori hanno messo la divisa e partecipato attivamente all'attività dei vigili urbani sempre più diretta e indirizzata verso un ruolo di polizia. Tutti comportamenti in tema di sicurezza che talvolta sono anche stati censurati da organi giurisdizionali perchè travalicavano le competenze attribuite ad una amministrazione comunale su questi temi.
Ora, alla luce delle esperienze passate, un approccio esclusivamente poliziesco ai temi della sicurezza di una città è effettivamente efficace? I numeri sul punto dicono cose contrastanti e di lettura ambivalente, i fatti ci spiegano come, ad esempio, il pugno di ferro usato a Milano contro i nomadi non abbia risparmiato la città dalla tragedia che ha visto morire un operaio di 28 anni travolto da un'auto, in fuga dopo una spaccata in tabaccheria, con a bordo alcuni nomadi minorenni.
Lucia Castellano |
Chi conosce l'esperienza di Lucia Castellano a Bollate, i suoi libri, le sue idee improntate sull'umanità e la responsabilità, sa che potrebbe essere un buon assessore alla sicurezza. Bollate, inteso come carcere, è una città complessa, un domicilio coatto per delinquenti veri, ma non è un ghetto, l'inferno dal quale non si risorgerà mai. Bollate, lo dicono i dati, è, per tanti detenuti, un laboratorio per costruirsi una nuova vita, fatta anche di una presa di coscienza dei propri sbagli e di un rinnovato senso di legalità. Il tutto si concretizza in una esperienza che riduce le recidive al minimo, tanto che non vale per Bollata ciò che altrove è una triste realtà: il carcere è un luogo criminogeno, un posto dal quale si esce più delinquenti di come si è entrati.
E' una sfida complessa quella che Lucia Castellano ha intrapreso con successo a Bollate («Non è facile convincere a lavorare per 700 euro al mese chi, in un solo giorno di spaccio, ne guadagnava 1000. Ma la vera sfida è nostra: la cultura del carcere è ancora troppo autoreferenziale», ha detto la direttrice in un'intervista a La Stampa). Una sfida e un modello che potrebbe avere successo anche sperimentati in una città senza muri e sbarre come Milano. Parlare di sicurezza non esclusivamente in termini repressivi, ma in termini educativi e propositivi può essere la nuova sfida di una città che non mette il filo spinato attorno ai ghetti, ma li rende artefici del proprio destino, offre loro gli strumenti giusti affinchè sappiano costruirsi un futuro migliore, sappiano autoimmunizzarsi dai rischi criminali che da sempre si coltivano in seno.
Del resto, perchè non iniziare a fare dalla città, quello che esperienze illuminate come Bollate fanno solo alla fine di un percorso a tappe caratterizzato dall'espulsione dal tessuto sociale, da reati, processi e condanne? Potrebbe essere l'uovo di Colombo, anche se in termini di propaganda paga di più la paura e la repressione; potrebbe essere il segno più concreto di quel nuovo che avanza che ha il volto di Giuliano Pisapia. Le prossime ore e i prossimi giorni diranno se questa "pazza idea" avrà un futuro. Altrimenti, ne siamo consapevoli, sarà l'ennesima occasione persa.
Aggiornamento: Nel pomeriggio dell'11 giugno Giuliano Pisapia ha scelto la sua giunta (leggi qui le deleghe) a Lucia Castellano non è andata la sicurezza, ma le deleghe alla casa, al demanio e ai lavori pubblici. Fra le prime dichiarazioni di intenti, l'ormai ex direttrice del carcere di Bollate ha spiegato che le case popolari non devono essere necessariamente dei ghetti, che le periferie non devono trasformarsi in carceri per chi le abita. Una tesi da sottoscrivere.
L'assessorato alla sicurezza è andato a Marco Granelli, un giovane che ha lavorato molto nei quartieri, con il volontariato. Cambia il nome dell'assessore, ma non il principio ispiratore che vuole un concetto di sicurezza che parta, innanzitutto da una cittadinanza attiva che rimuova i disagi, da una comunità che grazie alla coesione affronti e risolva le criticità. La sicurezza è un processo da costruire insieme, con meno divise, forse, ma più educazione e maggiore consapevolezza dei doveri da parte di tutti.
Lucia Castellano parla di sicurezza e buongoverno
Clicca qui per accedere alla seconda parte dell'intervento.
Etichette:
assessorato alla sicurezza,
Bollate,
carcere,
Giuliano Pisapia,
Giunta,
Lucia Castellano,
Milano,
sicurezza
giovedì 9 giugno 2011
Calcio, scommesse e il pericolo mafie
Nell'estate dello scandalo del calcio - scommesse, Libera, associazione fondata da don Luigi Ciotti contro le mafie e per diffondere la cultura della legalità, torna a lanciare un interessante spunto di riflessione sul mondo del pallone e sul rischio di infiltrazioni mafiose.
Lo fa con un dossier aggiornato che raccoglie e fa opera di sintesi di una serie di spunti investigativi che negli anni hanno caratterizzato le inchieste condotte dalla magistratura italiana, indagini sulla criminalità organizzata nelle quali ha fatto capolino, ora il controllo delle scommesse, ora le mire su una società di calcio, ora la spinta su questo o quel giocatore, giovane, talentuoso e da promozionare, ora la gestione della rete del doping. Un fenomeno che attraversa il calcio ad ogni latitudine e in ogni categoria, un fenomeno che ha un unico scopo, fare denaro, riciclare soldi sporchi, utilizzare metodi mafiosi per "raccomandare" nuovi talenti e addomesticare partite.
Il tutto su un sistema assetato di soldi e fragile al punto da essere particolarmente permeabile all'ingresso di capitali di dubbia provenienza (sul punto non c'è bisogno di scomodare la criminalità organizzata, bastano gli avventurieri nostrani, capaci di penare in grande, ma, in un'ultima istanza, dispensatori di dissesti). Un binomio che fa del calcio un mondo sul quale dovrebbero concentrarsi con maggiore incisività le attenzioni degli organi di controllo.
"Oggi i clan - osservano a Libera - guardano al mondo del calcio, controllano il calcio scommesse, condizionano le partite, usano il calcio per cimentare legami della politica, riciclano soldi. Le inchieste della magistratura, le intercettazioni telefoniche, la cronaca quotidiana dimostrano come anche nel football è presente un alfabeto dell'illegalità tutto italiano, con pertinenze anche straniere: 'ndrangheta, camorra, cosa nostra, sacra corona unita e mafia tutte attive ed operative nel corrompere quella che sembrava apparentemente un'isola felice e che viene interpretata come un enorme affare. E oggi piu' che mai gestiscono il calcio scommesse, condizionano le partite, usano lo sport per cementare legami della politica, riciclano soldi. E' necessario rompere i silenzi, avere il coraggio della denuncia seria e documentata ricordando le tante piccole squadre e realtà locali che non hanno perso la trasparenza e la lealtà nel loro agire quotidiano. Le mafie usano il calcio giovanile per arruolare nuova manovalanza. Possedere una squadra di calcio rappresenta in tante realtà un fiore all'occhiello, una testimonianza di prestigio e soprattutto strumento di controllo del territorio".
In questa ennesima estate tribolata del calcio italiano, quindi, la lettura del dossier di Libera rappresenta uno spunto di riflessione che non va lasciato cadere nel vuoto, una base di partenza per dare al mondo del calcio quella trasparenza gestionale e quella permeabilità alla criminalità organizzata che altri settori della nostra economia hanno saputo costruire negli anni.
La mafia nel pallone
Lo fa con un dossier aggiornato che raccoglie e fa opera di sintesi di una serie di spunti investigativi che negli anni hanno caratterizzato le inchieste condotte dalla magistratura italiana, indagini sulla criminalità organizzata nelle quali ha fatto capolino, ora il controllo delle scommesse, ora le mire su una società di calcio, ora la spinta su questo o quel giocatore, giovane, talentuoso e da promozionare, ora la gestione della rete del doping. Un fenomeno che attraversa il calcio ad ogni latitudine e in ogni categoria, un fenomeno che ha un unico scopo, fare denaro, riciclare soldi sporchi, utilizzare metodi mafiosi per "raccomandare" nuovi talenti e addomesticare partite.
Il tutto su un sistema assetato di soldi e fragile al punto da essere particolarmente permeabile all'ingresso di capitali di dubbia provenienza (sul punto non c'è bisogno di scomodare la criminalità organizzata, bastano gli avventurieri nostrani, capaci di penare in grande, ma, in un'ultima istanza, dispensatori di dissesti). Un binomio che fa del calcio un mondo sul quale dovrebbero concentrarsi con maggiore incisività le attenzioni degli organi di controllo.
"Oggi i clan - osservano a Libera - guardano al mondo del calcio, controllano il calcio scommesse, condizionano le partite, usano il calcio per cimentare legami della politica, riciclano soldi. Le inchieste della magistratura, le intercettazioni telefoniche, la cronaca quotidiana dimostrano come anche nel football è presente un alfabeto dell'illegalità tutto italiano, con pertinenze anche straniere: 'ndrangheta, camorra, cosa nostra, sacra corona unita e mafia tutte attive ed operative nel corrompere quella che sembrava apparentemente un'isola felice e che viene interpretata come un enorme affare. E oggi piu' che mai gestiscono il calcio scommesse, condizionano le partite, usano lo sport per cementare legami della politica, riciclano soldi. E' necessario rompere i silenzi, avere il coraggio della denuncia seria e documentata ricordando le tante piccole squadre e realtà locali che non hanno perso la trasparenza e la lealtà nel loro agire quotidiano. Le mafie usano il calcio giovanile per arruolare nuova manovalanza. Possedere una squadra di calcio rappresenta in tante realtà un fiore all'occhiello, una testimonianza di prestigio e soprattutto strumento di controllo del territorio".
In questa ennesima estate tribolata del calcio italiano, quindi, la lettura del dossier di Libera rappresenta uno spunto di riflessione che non va lasciato cadere nel vuoto, una base di partenza per dare al mondo del calcio quella trasparenza gestionale e quella permeabilità alla criminalità organizzata che altri settori della nostra economia hanno saputo costruire negli anni.
La mafia nel pallone
Etichette:
calcio,
calcio scommesse,
criminalità organizzata,
inflitrazioni mafiose,
Mafia,
scommesse
Comunicazione di servizio: il blog è ottimizzato per cellulari
Breve comunicazione di servizio. Da oggi questo blog (grazie alla nuova applicazione messa a disposizione dalla piattaforma blogger) è ottimizzato per i cellulari e quindi meglio leggibile anche sugli smartphone di ultima generazione. Se vi interessa....
Etichette:
blog,
cellulari,
smartphone
martedì 7 giugno 2011
Santoro, la Rai e la voglia di suicidio
Santoro se ne va dalla Rai con un viatico da 2,3 milioni di euro che fa gridare allo scandalo. Ma lo scandalo, in anni in cui certi emolumenti (dal calcio alla finanza, dal mondo dello spettacolo ai pochi grandi nomi del giornalismo) sono fuori dalla realtà di un'economia di guerra, non è la liquidazione di Santoro, ma averla pagata per liberarsi di una persona che fa guadagnare altrettanto in termini di introiti pubblicitari ad un'azienda che, almeno su una rete, rischia il tracollo di ascolti.
Dove sta la convenienza? Dove sta la buona amministrazione che si chiede ad una realtà che si finanzia anche con il canone che ho sempre regolarmente pagato? Da finanziatore della Rai che sa far di conto resto basito da questa voglia di suicidio con buona pace dei soldi pubblici. E qui non c'entra essere di destra o essere di sinistra è un becero, semplice, discorso di audience e di conti, giudicando Santoro alla stregua di "X factor" o dell'Isola dei famosi, macchine che producono ascolti e, di conseguenza, buone entrate pubblicitarie. Qualità che altri hanno mostrato di non avere e non è colpa di nessuno, se non degli stessi interessati, se altre sperimentazioni di opposta tendenza politica sono naufragate appena preso il mare aperto per carenza di ascolti.
Personalmente se mi interesseranno Annozero e i programmi di Santoro continuerò a seguirli su qualche altra rete che ha compreso le potenzialità del personaggio. Mi resta il rammarico per un'azienda che finanzio ogni anno da buon cittadino e che vedo, ogni giorno di più, votata al suicidio per compiacere i potenti.
Etichette:
Annozero,
Michele Santoro,
Rai
lunedì 6 giugno 2011
Tettamanzi-Pisapia: la strana coppia
L'allarme è stato lanciato, per Milano si aggira una strana coppia: il cardinale e l'avvocato, il comunista e il porporato. Qui, secondo alcuni, il rosso si fonde, la tonalità diventa unica; l'asse palazzo Marino-Arcivescovado, Piazza della Scala-Piazza Fontana quasi un'inquietante segno del destino che, tracciato su una cartina, turba quasi fosse una delle scene più drammatiche e cruente di "Angeli e Demoni" di Dan Brown. Esoterismo e poteri occulti in questa Milano che fonde l'abito talare e la fascia tricolore? Mah...
Di sicuro c'è chi legge una certa comunanza tra le parole del cardinal Tettamanzi e il neosindaco Pisapia, come se il primo fosse l'ispiratore del secondo, o, peggio, il cardinale succube del sindaco. A lanciare l'allarme, con un duro attacco all'arcivescovo, il Giornale per mano di Mario Giordano. Il titolo del suo commento pubblicato nei giorni scorsi è esplicito "E Tettamanzi benedice il compagno Pisapia" e racconta che allo Stadio di San Siro in occasione dell'incontro con i cresimandi dell'Arcidiocesi il cardinale, giunto ormai a fine mandato, non abbia avuto remore per lanciarsi in un comizio davanti a 50 mila ragazzini. Il cardinale di Renate si è bevuto il cervello? Basta una ricerca in internet, però, per capire che non si è trattato di un comizio, ma di parole pronunciate a margine della festa su sollecitazione dei giornalisti che avevano chiesto un giudizio sulla folla scesa in piazza dopo la vittoria di Pisapia. Il cardinale aveva detto che le piazze piene dovrebbero essere la normalità in una città che vuole parlare e partecipare e la nuova amministrazione civica deve sapere ascoltare la città. Concetti peraltro ribaditi domenica sul Corriere della sera in un colloquio con Giangiacomo Schiavi in cui Tettamanzi è tornato a ricordare che Milano deve riconquistare la propria umanità, deve saper parlare senza angosce di moschea e nomadi. "C'è bisogno di testimonianze - ha spiegato - fatte di onestà, schiettezza, pulizia morale".
Non è basta la difesa di Avvenire per far cessare le polemiche, tanto che oggi è Madgi Cristiano Allam a dettare la linea rivendicando il diritto dovere di criticare l'asse Tettamanzi-Pisapia che, sono parole testuali, è "dannosa al punto da farci precipitare nel suicidio della nostra civiltà", tanto da annientare le nostre radici, il messaggio evangelico sacrificandolo all'ideologia massonica. Mi sembra che in queste parole ci sia un' inquietante propensione al delirio e una strumentalizzazione che non fa onore a chi la scrive. A meno, è lecito pensare, che non persegua una finalità precisa: lanciare segnali forti a chi in questi giorni sta scegliendo il successore al soglio di Ambrogio, affinchè, dopo Tettamanzi e Carlo Maria Martini, arrivi un esponente che rompa l'idillio fra la chiesa ambrosiana e Pisapia (che evoca il cattocomunismo) e che ridia all'anima cattolica del Centro destra (con un prelato vicino a Cl?) una sponda su cui contare, un po' di quel cristiano conforto che non si nega alle vedove.
La nostra speranza è che Dio illumini quella scelta e nell'attesa sapete cosa ha detto veramente il cardinale ai cresimandi? Cliccando qui trovate il testo integrale del suo intervento ispirato alla parabola del Buon Samaritano. Del discorso a me piace ricordare un passaggio importante, che dovrebbe dettare la linea educativa anche a noi genitori: "Cancelliamo dunque la superficialità, la pigrizia, il disimpegno, la paura del sacrificio, l’egoismo, la prepotenza sugli altri - ha spiegato il cardinale ai ragazzi -. Diamo spazio invece al senso del dovere – ogni giorno! –, alla generosità verso chi ha bisogno, al dono di noi stessi. Non prestiamo fede a chi ci promette una vita comoda e facile per essere felici! No! L’unico modo per essere veramente felici è di seguire Gesù imparando ad amare come lui ci ha amati!".
Un'esortazione ottima per i cattolici, ma buona anche per i laici. Se poi ispirerà la linea di governo di una città come Milano, che ama definirsi capitale morale della Penisola, quale cattolico non ne gioirebbe?
Di sicuro c'è chi legge una certa comunanza tra le parole del cardinal Tettamanzi e il neosindaco Pisapia, come se il primo fosse l'ispiratore del secondo, o, peggio, il cardinale succube del sindaco. A lanciare l'allarme, con un duro attacco all'arcivescovo, il Giornale per mano di Mario Giordano. Il titolo del suo commento pubblicato nei giorni scorsi è esplicito "E Tettamanzi benedice il compagno Pisapia" e racconta che allo Stadio di San Siro in occasione dell'incontro con i cresimandi dell'Arcidiocesi il cardinale, giunto ormai a fine mandato, non abbia avuto remore per lanciarsi in un comizio davanti a 50 mila ragazzini. Il cardinale di Renate si è bevuto il cervello? Basta una ricerca in internet, però, per capire che non si è trattato di un comizio, ma di parole pronunciate a margine della festa su sollecitazione dei giornalisti che avevano chiesto un giudizio sulla folla scesa in piazza dopo la vittoria di Pisapia. Il cardinale aveva detto che le piazze piene dovrebbero essere la normalità in una città che vuole parlare e partecipare e la nuova amministrazione civica deve sapere ascoltare la città. Concetti peraltro ribaditi domenica sul Corriere della sera in un colloquio con Giangiacomo Schiavi in cui Tettamanzi è tornato a ricordare che Milano deve riconquistare la propria umanità, deve saper parlare senza angosce di moschea e nomadi. "C'è bisogno di testimonianze - ha spiegato - fatte di onestà, schiettezza, pulizia morale".
Non è basta la difesa di Avvenire per far cessare le polemiche, tanto che oggi è Madgi Cristiano Allam a dettare la linea rivendicando il diritto dovere di criticare l'asse Tettamanzi-Pisapia che, sono parole testuali, è "dannosa al punto da farci precipitare nel suicidio della nostra civiltà", tanto da annientare le nostre radici, il messaggio evangelico sacrificandolo all'ideologia massonica. Mi sembra che in queste parole ci sia un' inquietante propensione al delirio e una strumentalizzazione che non fa onore a chi la scrive. A meno, è lecito pensare, che non persegua una finalità precisa: lanciare segnali forti a chi in questi giorni sta scegliendo il successore al soglio di Ambrogio, affinchè, dopo Tettamanzi e Carlo Maria Martini, arrivi un esponente che rompa l'idillio fra la chiesa ambrosiana e Pisapia (che evoca il cattocomunismo) e che ridia all'anima cattolica del Centro destra (con un prelato vicino a Cl?) una sponda su cui contare, un po' di quel cristiano conforto che non si nega alle vedove.
La nostra speranza è che Dio illumini quella scelta e nell'attesa sapete cosa ha detto veramente il cardinale ai cresimandi? Cliccando qui trovate il testo integrale del suo intervento ispirato alla parabola del Buon Samaritano. Del discorso a me piace ricordare un passaggio importante, che dovrebbe dettare la linea educativa anche a noi genitori: "Cancelliamo dunque la superficialità, la pigrizia, il disimpegno, la paura del sacrificio, l’egoismo, la prepotenza sugli altri - ha spiegato il cardinale ai ragazzi -. Diamo spazio invece al senso del dovere – ogni giorno! –, alla generosità verso chi ha bisogno, al dono di noi stessi. Non prestiamo fede a chi ci promette una vita comoda e facile per essere felici! No! L’unico modo per essere veramente felici è di seguire Gesù imparando ad amare come lui ci ha amati!".
Un'esortazione ottima per i cattolici, ma buona anche per i laici. Se poi ispirerà la linea di governo di una città come Milano, che ama definirsi capitale morale della Penisola, quale cattolico non ne gioirebbe?
venerdì 3 giugno 2011
Costituzione: contributi per riflettere
Oggi è una giornata strana, la festa della Repubblica finita a ridosso di un fine settimana significa solo una cosa: ponte. Per chi si gode un po' di relax ecco alcuni contributi di riflessione sulla costituzione italiana... Giusto perchè la festa non trascorra invano.
Etichette:
2 giugno,
Corte Costituzionale,
Costituzione
giovedì 2 giugno 2011
Due giugno: basta la parola...
"L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.
La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese."
Due giugno 2011: basta la parola, quella della nostra Costituzione. Buona festa della Repubblica a tutti....(articoli 1, 2 e 3 della Costitutuzione italiana)
Etichette:
2 giugno,
festa della Repubblica
Iscriviti a:
Post (Atom)