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sabato 26 settembre 2009

Giornalismo: ecco il vero attacco alla libertà di stampa


Il postino suona sempre due volte. Soprattutto se deve consegnare gli atti giudiziari: busta gialla, grande formato, altrettanto grande sorpresa nello scoprire di essere convocato per il 22 luglio 1997 davanti al tribunale di Roma per una causa di risarcimento danni intentata dall'avvocato Cesare Previti, ex ministro, avvocato del Premier Berlusconi, in quegli anni finito sul banco degli imputati (poi fu assolto) con l'accusa di aver ordito una sorta di ricatto ai danni dell'ex pm Antonio Di Pietro ai tempi di "Mani pulite" per spingerlo a lasciare la procura milanese. Previti chiedeva al Messaggero, quotidiano di Roma, a sette suoi giornalisti (direttore compreso) e all'umile corrispondente da Brescia (il sottoscritto) quindici miliardi di vecchie lire in solido e cento milioni ciascuno di risarcimento danni. Il motivo? Aver ordito un piano diffamatorio nei confronti dell'ex ministro della Difesa ed esponente di Forza Italia. Non fa nulla se si trattava di notizie di inchieste giudiziarie o addirittura, come nel caso contestato al sottoscritto, della cronaca fedele di un'udienza del processo a carico di Previti celebrato a Brescia alla fine '96 - inizi '97. Sinceramente non conosco il destino giudiziario di quella causa (della vicenda si occupò l'ufficio legale del quotidiano romano), ma le cronache ci raccontano che Cesare Previti nel corso degli anni finì per avere ben altri problemi giudiziari che non l'inchiesta per lui assolutoria di Brescia: dove sia stato quindi il piano diffamatorio della stampa nei suoi confronti si è capito sempre meno e forse quella citazione civile voleva più condizionare le scelte future del quotidiano che lavare le presunte colpe presenti o passate.
Scusatemi la digressione personale, ma la citazione era d'obbligo per introdurre un tema oggi molto dibattuto: la libertà di stampa. Sul punto segnalo un interessante intervento sul Corriere della Sera di Luigi Ferrarella, uno dei cronisti giudiziari più attenti e preparati della stampa italiana, uno che nei corridoi di Palazzo di Giustizia di Milano ne ha viste di cotte e di crude. Ferrarella individua proprio nelle querele temerarie e in una legislazione che si vorrebbe sempre più rigida, le vere minacce "perchè la verità non diventi un lusso". E come dargli torto in giornate in cui passi parte del tuo tempo a ribattere a minacce di risarcimento danni, pretese senza alcun fondamento giudiziario, istanze di tutela della privacy brandite senza aver mai letto a fondo la normativa sul caso e le scriminanti garantite al diritto di cronaca. Un lavoro estenuante, una pressione senza precendenti che rende più che un sospetto l'ipotesi che tutto ciò appartenga ad un disegno preciso: minacciare per far tacere; quelerare per frenare chi fa onestamente il proprio lavoro di cronista.
Ben vengano dunque analisi lucide e senza reticenze come quelle di Luigi Ferrarella.

LIBERTA' DI STAMPA
Querele e intercettazioni
Perché la verità non diventi un lusso
di LUIGI FERRARELLA
(dal Corriere della Sera del 26 settembre 2009)

I giornalisti che avvertono sempre mag­giori ostacoli all’esercizio della libertà di stampa vengono bruscamente liqui­dati come diffamatori piagnucolanti, che prima devastano le vite altrui e poi pretendono immunità per non ripagare i dan­ni alla reputazione delle persone e aziende che li querelano (nel penale) o chiedono ingenti risarcimenti (nel civile). Non è un caso. Sia perché per alcuni «canto­ri » della libertà di stampa è davvero così. Sia — soprattutto — perché è il prezzo, salato, che l’intera categoria paga per aver lasciato che dilagasse il contagio di prassi giornalisti­che imprecise e superficiali, obliquamente omissive o dolosamente inveritiere, indulgen­ti verso lo «spaccio» di falsità in non sempre «modica quantità», a volte sconfinanti nel manganello a mezzo stampa per colpire l'av­versario politico o economico dell'editore. Con il risultato che «quando un organo di in­formazione mente, avvelena la collettività, e anche gli articoli degli altri giornali diventano sospetti — anticipava già nel 1981 il mea culpa del direttore del Washington Post per un falso scoop —: il lettore colpito da una notizia si sente autorizzato a valutarla con sospetto, i fat­ti non soltanto vengono messi in discussione ma perdono anche il loro valore di realtà». Pa­rabola che, in salsa italiana, affiorava sin nella parodia che nel 1992 il comico Loche faceva del giornalista «truffa-truffa-ambiguità» che «pare-sembra-forse-non garantisco verità» . Ma ora anche le querele e le richieste di dan­ni hanno perso il loro valore di verità. Sempre meno strumenti di ristoro della reputazione calpestata dall’errore colpevole o dal dolo scientifico del giornalista, le azioni legali di­ventano così tante e sono spesso talmente in­fondate da essere piuttosto brandite come uno strumento di intimidazione sul cronista («anche se stavolta hai scritto giusto, attento a riscrivere la prossima volta») e sull’editore, al­le prese con rischi di risarcimenti e con spese di difesa tali da mettere in ginocchio il bilan­cio di un’azienda editoriale medio-piccola. Si dirà: c’è un giudice, e se il giornalista sba­glia, è giusto che vada incontro a pena pecunia­ria, reclusione, riparazione pecuniaria, risarci­mento dei danni morali e patrimoniali, paga­mento delle spese di giudizio.

Certo. Solo che la partita, da quando è divenuto massiccio l’in­discriminato ricorso alle azioni legali, non è più ad armi pari. Non solo perché il giornalista, per non esse­re condannato, deve dimostrare non soltanto che ha scritto il vero, ma anche che esisteva un interesse pubblico a conoscerlo, e che la for­ma non era inutilmente aggressiva. Non solo perché, se diffonde dati personali veri ma sen­za i quali la notizia sarebbe stata ugualmente completa ed esauriente, incorre nei fulmini del Garante della privacy, del giudice penale, del giudice civile, dell’Ordine. Non solo per­ché, quando pubblica notizie vere tratte da atti giudiziari non più segreti in quanto già noti al­le parti, è schiacciato nella tenaglia per cui se le riporta con precisione letterale si vede de­nunciare per aver commesso uno specifico rea­to, mentre se si limita a riassumerle si sente accusare di non essere stato abbastanza preci­so da evitare la diffamazione. A truccare la par­tita, invece, non è l’azione legale in sé, ma il fatto che chi la intenta contro il giornalista, a differenza sua, non rischi mai e non paghi al­cunché, nemmeno se il giudice accerta che le doglianze erano totalmente pretestuose: nel ci­vile il giornalista recupera al più le spese, nel penale l’assoluzione «perché il fatto non costi­tuisce reato» gli impedisce di denunciare per calunnia il querelante e ottenere i danni. Il sacrosanto diritto dei diffamati (quando siano davvero tali) di rivalersi sul giornalista non deve essere intaccato. Ma forse una modi­fica normativa potrebbe conciliarlo con la non compressione dell’attività giornalistica: quere­la pure chi vuoi e per quello che vuoi, ma se poi la causa risulta del tutto campata per aria, allora paghi al giornale denunciato almeno una minima percentuale (anche solo il 10%?) delle maxicifre che pretendevi come risarci­mento.

Liberi di scrivere, liberi di querelare. Ma responsabili en­trambi. Nella trasparen­za. Il contrario del terre­no su cui muove il dise­gno di legge sulle inter­cettazioni che, dietro il pretesto della tutela della privacy, estende l’area del segreto sugli atti d’indagine, e di ogni «pubblicazione ar­bitraria » (da 2.500 a 5.000 euro per il gior­nalista) fa poi risponde­re anche l'editore a tito­lo di responsabilità am­ministrativa della per­sona giuridica per i rea­ti commessi dai dipen­denti nell'interesse aziendale (legge 231/2001). Tradotto? A ogni dettagliata pubbli­cazione di un atto vero, non più coperto da se­greto investigativo e riportato in maniera cor­retta, l’editore pagherà da un minimo di 25 mi­la 800 a un massimo di 465 mila euro per le testate nazionali. Il modo migliore per fare en­trare «il padrone in redazione», visto che a quel punto la decisione editoriale sul «se» e «come» pubblicare una notizia sfuggirà all’au­tonomia (laddove esercitata) del tandem diret­tore- giornalisti, per consegnare l’ultima paro­la all’editore destinato a pagarne conseguenze tali da far chiudere in breve l’azienda.


3 commenti:

MdC ha detto...

Dr Toresini - come spesso le accade - ha colto perfettamente il punto.

Domanda: si lavora serenamente con la minaccia della querela sulla capoccia?

Marco Toresini ha detto...

Caro Mdc, grazie a Dio le garanzie legali i giornali continuano a garantirle. Il problema è che se da una causa penale, se hai usato lo scrupolo professionale di sempre e hai scritto cose vere, hai poco da temere, davanti ad una causa civile i timori aumentano. Perchè? Perchè chi ti fa una causa per risarcimento danni in sede civile può anche sostenere che tu hai sì scritto cose vere ma, nel complesso (ad esempio attraverso la titolazione e l'impaginazione), il tuo intento era diffamatorio. Un ragionamento subdolo attorno al quale è difficile interpretare l'orientamento di un giudice. Ai tempi della citazione di Previti qualche collega, poi, ironizzava: "Ma al tribunale di Roma sarà più influente e troverà più ascolto Cesare Previti o Marco Toresini?" Un dilemma inquietante... non crede?

MdC ha detto...

Le credo