"La libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare"
Pietro Calamandrei
"Chiunque ha il diritto alla libertà di opinione ed espressione; questo diritto include libertà a sostenere personali opinioni senza interferenze ed a cercare, ricevere, ed insegnare informazioni e idee attraverso qualsiasi mezzo informativo indipendentemente dal fatto che esso attraversi le frontiere"
Dichiarazione Universale dei Diritti Umani
Oggi, nel giorno in cui a Roma, prima della tragedia di Kabul, era prevista la mobilitazione per la libertà di stampa voglio fare una riflessione. Di ragioni per protestare ce ne sono più d'una ma forse, a noi giornalisti, farebbe bene concentrarsi su una parola solo: credibilità. Uno studio americano , ne ha riferito recentemente il capo redattore del Sole 24 ore Luca De Biase nel suo blog, spiega che solo il 29 per cento degli abitanti degli states pensa che i giornali raccontino i fatti come sono, il 60% ritiene che siano molto imprecisi. La maggioranza degli americani, poi, pensa che i giornali siano troppo schierati politicamente e non siano indipendenti dalle pressioni dei poteri economici. Dei giornali italiani e di quello che pensa la gente abbiamo già detto in altre occasioni(il 68% ci giudica bugiardi, il 52% ritiene che difendiamo interessi di parte): la nostra credibilità è ai minimi storici e davanti a vicende come quelle di Boffo e Feltri non può che finire ulteriormente in basso. Giusto che la società civile si mobiliti per difendere la libertà di stampa. Giusto che i giornalisti, di questi tempi, la libertà di stampa sappiano riconquistarla. Lo so, non è facile riconquistare l'orgoglio in mesi di ristrutturazioni aziendali pesanti e diffuse, di professionalità riconosciute che si avviano verso il prepensionamento in nome del risanamento dei bilanci, di fatturati pubblicitari prosciugati dalla crisi economica e di giornali che - secondo il principio sbandierato da alcuni manager editoriali che il giornale libero è quello in utile - sono un po' più deboli. In questo giorno di protesta, però, possiamo riflettere sui nostri sbagli (direi non solo nostri ma anche su quelli dei nostri editori che hanno spremuto e spartito utili come se un'azienda editoriale fosse una ferriera ed ora, che la congiuntura spinge i diagrammi vanno verso il basso, usano la sciabola con buona pace della qualità dei prodotti). Possiamo meditare sulla nostra indipendenza tradita, sulla nostra autorevolezza dilapidata al tavolo verde del potere, sul nostro patrimonio professionale (parlo dei maestri che hanno popolato le nostre redazioni) spesso bollato come jurassico e troppo scassa palle per il nuovo che avanza, per il giornalismo universitario senza tradizioni consolidate (un tempo le facoltà di giornalismo si contavano sulle dita di una mano, ora i corsi sono decine, ma gli studenti con il dna giusto una rarità) che non conosce la strada, non sa insegnare a fare un'inchiesta e che, spesso, crede che la notizia nasca da un comunicato stampa. Errori che stiamo pagando cari e che ci impongono un cambio di rotta. I margini di manovra ci sono e persino uno come Clay Shirky, docente universitario americano ed esperto-guru di new media, si è trovato aa ammettere: "La società non ha bisogno dei giornali, ha bisogno di giornalismo. Per un secolo l’imperativo di rafforzare il giornalismo e quello di rafforzare i giornali sono stati così collegati da diventare indistinguibili. È stato un caso felice, ma oggi dobbiamo trovare altri modi di rafforzare il giornalismo. Se spostiamo l’attenzione da “salvare i quotidiani” a “salvare la società”, l’imperativo di “salvaguardare le istituzioni esistenti” si trasforma in quello di “fare qualunque cosa funzioni”. E quello che oggi funziona è diverso da quello che funzionava prima. Nei prossimi decenni il giornalismo sarà fatto di una serie di casi particolari. Molti di questi modelli saranno creati da amatori, ricercatori e scrittori. Altri dipenderanno da sponsorizzazioni, sovvenzioni e donazioni. Molti altri esisteranno grazie a un gruppo di quattordicenni pieni di energia che diffonderanno le notizie.Molti di questi modelli falliranno. Non sarà un solo esperimento a sostituire quello che stiamo perdendo con la fine dei giornali, ma con il tempo l’insieme degli esperimenti che funzionano potrebbe darci il giornalismo di cui abbiamo bisogno".
Davanti ad una riflessione come questa resta un tema aperto: chi "sfama il giornalista" (e la libertà per chi fa questo lavoro a tempo pieno passa attraverso l'indipendenza economica) davanti a nuovi progetti di cui al momento si fatica a vedere il business. Un nodo che credo possa essere sciolto di pari passo con la ricostruzione dell'autorevolezza perduta. Cambiano i tempi, ma il lettore - cittadino ha sempre bisogno non di una informazione qualunque, ma di una informazione qualificata, di un giornalismo sul quale può contare. Con il quale condividere e difendere la propria libertà.
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