Sulla tragedia di Kabul... lascio parlare gli altri
La strage dei para'a kabul
Gli eroi di una guerra lontana
Il diritto dei morti, il dolore del Paese
Forse non si troverà mai un anonimo poeta in grado di cucire addosso ai ragazzi italiani morti di Kabul una canzone di quelle di una volta. Canzoni di lutto e dolore che fermavano il fiato. Come «Sul ponte di Perati», con quella strofa che dice «sull’ultimo vagone c’è l’amor mio / Col fazzoletto in mano mi dà l’addio. / Col fazzoletto in mano mi salutava / E con la bocca i baci lui mi mandava». La disperazione della perdita, lo strazio delle mogli, le lacrime dei bambini e lo sguardo impietrito dei padri e delle madri, però, sono sempre gli stessi. Anche la bandiera stesa sulle bare dei caduti, quella bandiera che un pezzo del mondo politico non perde occasione per coprire di disprezzo, è sempre la stessa. Quella che coprì, quando fu possibile e i corpi non furono abbandonati ai lupi, i soldatini mandati a morire sui monti della Grecia dove «c’è la Vojussa, col sangue degli alpini s’è fatta rossa» e sulle rive del Don descritte da Mario Rigoni Stern o sugli altopiani etiopi dov’erano arrivati cantando allegri: «Il treno parte: ad ogni finestrin / ripete allegramente il soldatin. / Io ti saluto: vado in Abissinia / cara Virginia, ma tornerò...».
Dentro i loro blindati Lince fatti saltare in aria dai talebani, Antonio e Roberto, Giandomenico e Matteo, Massimiliano e Davide e gli altri rimasti feriti, avevano forse sparato a tutto volume prima di partire, come era giusto che fosse per ragazzi della loro età, un po’ di rock duro. Oppure quella samba che a un paio di pattuglie che laggiù in Afghanistan si facevano coraggio cercando un po’ di normalità quotidiana nella musica carioca aveva fatto guadagnare appunto quel soprannome: Pattuglie Samba. Quella che più è cambiata, però, è la guerra. Meglio: il modo in cui gli italiani vivono quelle guerre lontane. Guerre insensate e balorde. Più infide, sotto molti aspetti, di tutte le altre guerre. Dove i nostri soldati vanno rischiando la pelle come la rischiavano i loro nonni sull’Ortigara o ad Adua ma con regole diverse: gli altri sparano e mitragliano e scaricano i bazooka perché sono in guerra, i nostri possono sparare solo se proprio non c’è nessunissima altra scelta perché in guerra non sono. Meglio: lo sono, ma devono cercare il più possibile di restarne fuori. Scrive in un articolo su Limes intitolato «Il soldato preso a calci» il generale Piero Laporta, un ufficiale furente con quella politica (non solo di sinistra, anzi) che pretende di tenere insieme la guerra e il pacifismo, gli impegni militari internazionali e i continui tagli finanziari alle Forze Armate, che è tutta colpa di un equivoco. Quello che spinse anni fa un insegnante, che sventolava un opuscolo stampato con fondi pubblici, a illustrare la Costituzione ai suoi studenti spiegando che è «molto significativa l’immagine dell’Italia che, con la sua punta di stivale, dà un calcio al soldato: è l’articolo 11, in cui si dice che l’Italia ripudia la guerra». Sia chiaro: fecero bene a scriverlo, quell’articolo, i padri costituenti. Il nostro Paese, nella sua non lunghissima storia, ne aveva già fatte troppe, di guerre. Alcune delle quali particolarmente aggressive. Ed è stato giusto tenere sempre a mente quel principio. Anche quando abbiamo mandato i nostri soldati in missioni spesso difficilissime a ridosso di guerre spaventose.
È tuttavia difficile dare torto a Laporta quando lamenta una serie di ambiguità che non c’entrano neppure col sogno di tanti di sventolare la bandiera arcobaleno cantando «We shall over come» e facendo la «ola» con gli accendini accesi. «Una pattuglia di soldati italiani ha colpito a morte una bambina in Afghanistan. Il fatto è finito sotto la lente della magistratura. Altre pattuglie hanno avuto scontri a fuoco; vi sono stati feriti italiani e morti nelle file avverse. Altre inchieste. Dicono si tratti di fatti imprescrittibili. Suggerirei altrettanta solerzia per Caporetto, Nikolajevka e anche dalle parti di El Alamein, dove le cose non sono state molto chiare», ironizza Laporta. «Perché si attiva la magistratura per fatti di guerra, quantunque non dichiarata?» Insomma: «La politica militare italiana non comprende che è insufficiente eliminare la leva o ridisegnare i comandi per stare fra eserciti moderni, mentre sono in circolo vecchie tossine politiche e culturali ben peggiori della lettura ideologica dell’articolo 11 della Costituzione». Questo è il punto: la consapevolezza di essere fino in fondo «dentro» una guerra vera e che dentro una guerra vera, come ha scritto due mesi fa Guido Rampoldi, puoi starci solo combattendo, aiuterebbe a vivere anche i lutti come quello che ci ha colpiti ieri. Cosa siano l’Iraq e l’Afghanistan, dove abbiamo perduto fino ad oggi alcune decine di persone, lo dice uno studio della rivista statunitense The New England Journal of Medicine ripreso dal libro «Soldati» del generale Fabio Mini: il 30% dei soldati regolari e della riserva che rientrano a casa dopo un periodo passato sui due fronti mediorientali manifesta «sindrome da stress post-traumatico con depressione, violenza familiare, abuso di alcol e droga e disagio sociale ». Per non dire dei tentati suicidi e degli atti di auto-lesionismo di chi a un certo punto non riesce più a vedere vie d’uscita: nel 2002, dice uno studio di Reuters Health erano stati 350, nel 2007 addirittura 2.100.
I nostri militari lo sanno, «dove» stanno. Sanno che la missione internazionale nella quale sono impegnati deve portare cibo a chi ha fame, costruire ospedali e scuole, garantire il diritto di voto a chi vuol votare impedendo agli integralisti islamici di mozzare il naso e le orecchie agli elettori come hanno fatto il mese scorso con Lal Mohammad, le cui amputazioni sono finite sui giornali di tutto il mondo. Sanno che, come ha scritto tra gli altri Ahmed Rashid, l’intellettuale pachistano autore del best seller Talebani , «le pattuglie ISAF a Kabul sono enormemente popolari tra la popolazione locale. Hanno fatto crollare il tasso di criminalità, protetto le donne e i bambini che vanno a scuola, mostrato alla polizia locale un esempio di servizio alla comunità...». Ma sanno anche che c’è chi li odia. E, come ha detto il comandante del contingente italiano Generale Rosario Castellano a Gianluca Di Feo, il problema è capire «chi» è il nemico. «Prima fanno i contadini, poi si arruolano con i talebani e poi ritornano contadini. Ma gli abiti e le case sono sempre le stesse». Sapevamo che poteva costarci carissimo, mandare i nostri laggiù in Afghanistan. Molto più caro di quanto ipotizzasse poche settimane fa, subito corretto dagli alleati, Umberto Bossi, quando disse «io li porterei a casa tutti» spiegando che «la missione costa un sacco di soldi e visti i risultati e i costi bisognerebbe pensarci su». Ecco, in questi giorni i familiari di Antonio e Roberto, Giandomenico e Matteo, Massimiliano e Davide, così come i loro compagni d’arme rimasti laggiù, a ciglio asciutto, a pattugliare altre strade su altri blindati Lince, hanno diritto almeno a una cosa. Di sentirsi alle spalle un Paese unito dal dolore.
Gianantonio Stella
dal Corriere della Seraù
18 settembre 2009
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I cuori, le menti e le follie
dal Blog di Vittorio Zucconi
post del 17 settembre
Avvertiva il generale Colin Powell, due volte volontario in Vietnam come giovane ufficiale combattente, che “gli eserciti non sono fatti per accompagnare i bambini a scuola e aiutare le vecchiette ad attraversare la strada. Gli eserciti sono fatti per uccidere nemici e per distruggere cose”. L’uso di reparti militari in funzione di polizia e di occupazione, in territori ai quali, a differenza delle forze di pubblica sicurezza che li’ sono radicate, ha senso soltanto se la popolazione nella sua maggioranza li accetta e li accoglie come temporanei strumenti e aiuti per arrivare all’auitogoverno. Tutti i falsi paralleli storici con l’Italia, la Germania e il Giappone del 1945 liberati dalle Nazioni Unite, come si facevano chiamare gli alleati, dopo guerre senza quartiere e senza condizioni, rispolverati a suo tempo per giustificare l’Iraq e l’Afghanistan dimostrano oggi, davanti alla montagna di bare purtroppo anche italiane, la loro assurdita’ culturale e la implicita’ arroganza della cultura occidentale convinta che tutta l’umanita’, se fosse lasciata libera di scegliere, sceglierebbe di diventare “come noi”. Eserciti nemici possono essere sconfitti e se in Afghanistan siamo andati per fare la guerra, facciamola, indviduiamo le forze nemiche, affrontiamole e distruggiamole, se ne siamo capaci. I regimi possono essere rovesciati con la forza. Le loro armate possono essere annientate. Ma le democrazia non puo’ essere esportata come un’automobile o una cassa di magliette che comunque non saranno vendute se non troveranno i clienti disposti ad acquistarle. Dove non esistono possibili classi dirigenti alternative al regime rovesciato, come aveva l’Italia fascista nelle organizzazioni clandestine di cattolici, comunisti, socialisti, liberali, monarchici affiancati nel Cln che assunsero la responsabilita’ di governare la nazione, se non esistono tradizioni e precedenti di democrazia, come in Germania o almeno di buona e disciplinata amministrazione civile come in Giappone che possano essere riprese dopo la caduta del tiranno o del regime, l’idea che organizzare un’elezione possa da sola far sbocciare la civilta’ politica e’ letteratura da think tank autorefernziale o da ideologo accecato dalle proprie dottrine. Mi sono venuti i brividi ad ascoltare il grigio ministro Frattini dire al TG1 che “dobbiamo conquistare le menti e i cuori degli Afghani”. E’ esattamente quello che 500 mila soldati americani cercarono di fare per quasi 15 anni, lasciando sul campo, insieme con l’onore dell’America, quasi 60 mila americani e milioni di vietnamiti uccisi. Naturalmente dobbiamo essere grati e rispettosi del lavoro che i nostri soldati stanno facendo perche’ noi, il loro governo, la loro nazione, glielo abbiamo chiesto, ma la commozione e il cordoglio non possono nascondere la futilita’ di un progetto politico-strategico, condannato a fallire se, e fino a quando, non saranno le nazioni coinvolte a scegliere - se lo vorranno - diverse forme di governo e ad espellere le tossine del fanatismo e del dispotismo. La piu tenace tirannide del XX secolo, il cosiddetto Socialismo Reale non fu abbattuto dai cannoni di altre nazioni, ma dal peso del proprio fallimento. Cosi’ come la Cina rossa sta, per propria scelta, evolvendo verso forme diverse di sviluppo e di governo. La democrazia non si esposta, si autoproduce. E se il terreno non e’ favorevole, e’ vano credere di poter coltivare noci di cocco nelle valli Alpine o grano in Antartide.
Io, se vi interessa, la penso così...
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