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mercoledì 30 settembre 2009

Giornalismo e libertà di stampa: il caso Gabanelli


Continua sul Corriere il dibattito sulla libertà di stampa dopo l'articolo di Luigi Ferrarella (riportato anche in questo blog) in cui si parlava delle pressioni che arrivano da minacce legali e da cause spesso temerarie usate come strumenti di intimidazione. Ieri è intervenuta anche Milena Gabanelli, autrice di Report, coraggiosa icona del giornalismo d'inchiesta televisivo e come tale specie a rischio come peppole e fringuelli.

LA LETTERA - la Rai ha l'intenzione di togliere la tutela legale a report
Ho una trentina di cause. E non riesco
ad avere una polizza per le spese legali
Solo una compagnia inglese e una americana disponibili a rifondere il danno, ma non le spese
Luigi Ferrarella, sulle pagine di questo giornale, ha sollevato un problema che condivido e mi tocca da vicino: la pressione politica (che in Italia è particolarmente anomala) sul condizionamento della libertà d’informazione forse non è l’aspetto più importante, anche se ciclicamente emerge quando coinvolge personaggi noti. Per questo facciamo grandi battaglie di principio e ignoriamo gli aspetti «pratici». Premesso che chiunque si senta diffamato ha il diritto di querelare, che chi non fa bene il proprio mestiere deve pagare, parliamo ora di chi lavora con coscienza. Alla sottoscritta era stata manifestata l'intenzione di togliere la tutela legale.

La direzione della terza rete ha fatto una battaglia affinché questa intenzione rientrasse, motivata dal dovere del servizio pubblico di esercitare il giornalismo d’inchiesta assumendosene rischi e responsabilità. Nell’incertezza sul come sarebbe andata a finire ho cercato un’assicurazione che coprisse le spese legali e l’eventuale danno in caso di soccombenza dovuta a fatti non dolosi. Intanto sul mercato italiano, di fatto, nessun operatore stipula polizze del genere, mentre su quello internazionale questa prassi è più diffusa. Bene, dopo aver compilato un questionario con l’elenco del numero di cause, l’ammontare dei danni richiesti e l’esito delle sentenze, una compagnia americana e una inglese, tenendo conto del comportamento giudicato fino a questo momento virtuoso, si sono dichiarate disponibili ad assicurare l’eventuale danno, ma non le spese legali. Sembra assurdo, ma il danno è un rischio che si può correre, mentre le spese legali in Italia sono una certezza: le cause possono durare fino a 10 anni e chiunque, impunemente, ti può trascinare in tribunale a prescindere dalla reale esistenza del fatto diffamatorio.

A chi ha il portafogli gonfio conviene chiedere risarcimenti miliardari in sede civile, perché tutto quello che rischia è il pagamento delle spese dell’avvocato. L’editore invece deve accantonare nel fondo rischi una percentuale dei danni richiesti per tutta la durata del procedimento e anticipare le spese ad una montagna di avvocati. Solo un editore molto solido può permettersi di resistere. Quattro anni fa mi sono stati chiesti 130 milioni di euro di risarcimento per un fatto inesistente, e la sentenza è ancora di là da venire. Se alle mie spalle invece della Rai ci fosse stata un’emittente più piccola avrebbe dovuto dichiarare lo stato di crisi. Visto che ad oggi le cause pendenti sulla mia testa sono una trentina, è facile capire che alla fine una pressione del genere può essere ben più potente di quella dei politici, e diventare fisicamente insostenibile. Questo avviene perché non esiste uno strumento di tutela. L’art. 96 del codice di procedura civile punisce l’autore delle lite temeraria, ma in che modo? Con una sanzione blanda, quasi mai applicata, che si fonda su una valutazione tecnica «paghi questa multa perché hai disturbato il giudice per un fatto inesistente». Nel diritto anglosassone invece la valutazione è «sociale», e il giudice ha il potere di condannare al pagamento di danni puntivi «chiedi 10 milioni di risarcimento per niente? Rischi di doverne pagare 20». La sanzione è parametrata sul valore della libertà di stampa, che viene limitata da un comportamento intimidatorio. La condanna pertanto deve essere esemplare. Ecco, copiamo tante cose dall’America, potremmo importare questa norma. Sarebbe il primo passo verso una libertà tutelata prima di tutto dal diritto. Al tiranno di turno puoi rispondere con uno strumento politico, quale la protesta, la manifestazione, ma se sei seppellito dalle cause, anche se infondate, alla fine soccombi.

Milena Gabanelli


martedì 29 settembre 2009

La pazzia? Un risotto al Franciacorta

Metti una chef di rango come Vittorio Fusari (tra le firme più autorevoli della gastronomia bresciana), metti un laboratorio di cucina con aspiranti cuochi un po' speciali, che hanno conosciuto il disagio mentale. Metti, insomma, degli ingredienti speciali, delle storie un po' speciali, un ambiente speciale come un castello (quello di Padernello nella Bassa bresciana) e otterrai una serata come quella che sabato 26 settembre ha animato le antiche mura del maniero che fu dei conti Salvadego: laboratori di cucina dalle 10 alle 17, buffet alle 20 e riflessioni sonore con i musicisti Pietro Nobile e Giuseppe Tonelli. Un mix che rientra nelle iniziative realizzate dal 20 settembre al 10 ottobre dal Dipartimento di salute mentale dell'azienda ospedaliera di Chiari. Un modo nuovo di interazione, perchè disagio mentale non sia solo sofferenza ed emarginazione, ma anche, se vuoi, un piatto di risotto che profuma di Francicorta.

Vittorio Fusari spiega il suo impegno per tutelare i prodotti tipici e per lavorare con chi ha fatto esperienze di disagio.

sabato 26 settembre 2009

Giornalismo: ecco il vero attacco alla libertà di stampa


Il postino suona sempre due volte. Soprattutto se deve consegnare gli atti giudiziari: busta gialla, grande formato, altrettanto grande sorpresa nello scoprire di essere convocato per il 22 luglio 1997 davanti al tribunale di Roma per una causa di risarcimento danni intentata dall'avvocato Cesare Previti, ex ministro, avvocato del Premier Berlusconi, in quegli anni finito sul banco degli imputati (poi fu assolto) con l'accusa di aver ordito una sorta di ricatto ai danni dell'ex pm Antonio Di Pietro ai tempi di "Mani pulite" per spingerlo a lasciare la procura milanese. Previti chiedeva al Messaggero, quotidiano di Roma, a sette suoi giornalisti (direttore compreso) e all'umile corrispondente da Brescia (il sottoscritto) quindici miliardi di vecchie lire in solido e cento milioni ciascuno di risarcimento danni. Il motivo? Aver ordito un piano diffamatorio nei confronti dell'ex ministro della Difesa ed esponente di Forza Italia. Non fa nulla se si trattava di notizie di inchieste giudiziarie o addirittura, come nel caso contestato al sottoscritto, della cronaca fedele di un'udienza del processo a carico di Previti celebrato a Brescia alla fine '96 - inizi '97. Sinceramente non conosco il destino giudiziario di quella causa (della vicenda si occupò l'ufficio legale del quotidiano romano), ma le cronache ci raccontano che Cesare Previti nel corso degli anni finì per avere ben altri problemi giudiziari che non l'inchiesta per lui assolutoria di Brescia: dove sia stato quindi il piano diffamatorio della stampa nei suoi confronti si è capito sempre meno e forse quella citazione civile voleva più condizionare le scelte future del quotidiano che lavare le presunte colpe presenti o passate.
Scusatemi la digressione personale, ma la citazione era d'obbligo per introdurre un tema oggi molto dibattuto: la libertà di stampa. Sul punto segnalo un interessante intervento sul Corriere della Sera di Luigi Ferrarella, uno dei cronisti giudiziari più attenti e preparati della stampa italiana, uno che nei corridoi di Palazzo di Giustizia di Milano ne ha viste di cotte e di crude. Ferrarella individua proprio nelle querele temerarie e in una legislazione che si vorrebbe sempre più rigida, le vere minacce "perchè la verità non diventi un lusso". E come dargli torto in giornate in cui passi parte del tuo tempo a ribattere a minacce di risarcimento danni, pretese senza alcun fondamento giudiziario, istanze di tutela della privacy brandite senza aver mai letto a fondo la normativa sul caso e le scriminanti garantite al diritto di cronaca. Un lavoro estenuante, una pressione senza precendenti che rende più che un sospetto l'ipotesi che tutto ciò appartenga ad un disegno preciso: minacciare per far tacere; quelerare per frenare chi fa onestamente il proprio lavoro di cronista.
Ben vengano dunque analisi lucide e senza reticenze come quelle di Luigi Ferrarella.

LIBERTA' DI STAMPA
Querele e intercettazioni
Perché la verità non diventi un lusso
di LUIGI FERRARELLA
(dal Corriere della Sera del 26 settembre 2009)

I giornalisti che avvertono sempre mag­giori ostacoli all’esercizio della libertà di stampa vengono bruscamente liqui­dati come diffamatori piagnucolanti, che prima devastano le vite altrui e poi pretendono immunità per non ripagare i dan­ni alla reputazione delle persone e aziende che li querelano (nel penale) o chiedono ingenti risarcimenti (nel civile). Non è un caso. Sia perché per alcuni «canto­ri » della libertà di stampa è davvero così. Sia — soprattutto — perché è il prezzo, salato, che l’intera categoria paga per aver lasciato che dilagasse il contagio di prassi giornalisti­che imprecise e superficiali, obliquamente omissive o dolosamente inveritiere, indulgen­ti verso lo «spaccio» di falsità in non sempre «modica quantità», a volte sconfinanti nel manganello a mezzo stampa per colpire l'av­versario politico o economico dell'editore. Con il risultato che «quando un organo di in­formazione mente, avvelena la collettività, e anche gli articoli degli altri giornali diventano sospetti — anticipava già nel 1981 il mea culpa del direttore del Washington Post per un falso scoop —: il lettore colpito da una notizia si sente autorizzato a valutarla con sospetto, i fat­ti non soltanto vengono messi in discussione ma perdono anche il loro valore di realtà». Pa­rabola che, in salsa italiana, affiorava sin nella parodia che nel 1992 il comico Loche faceva del giornalista «truffa-truffa-ambiguità» che «pare-sembra-forse-non garantisco verità» . Ma ora anche le querele e le richieste di dan­ni hanno perso il loro valore di verità. Sempre meno strumenti di ristoro della reputazione calpestata dall’errore colpevole o dal dolo scientifico del giornalista, le azioni legali di­ventano così tante e sono spesso talmente in­fondate da essere piuttosto brandite come uno strumento di intimidazione sul cronista («anche se stavolta hai scritto giusto, attento a riscrivere la prossima volta») e sull’editore, al­le prese con rischi di risarcimenti e con spese di difesa tali da mettere in ginocchio il bilan­cio di un’azienda editoriale medio-piccola. Si dirà: c’è un giudice, e se il giornalista sba­glia, è giusto che vada incontro a pena pecunia­ria, reclusione, riparazione pecuniaria, risarci­mento dei danni morali e patrimoniali, paga­mento delle spese di giudizio.

Certo. Solo che la partita, da quando è divenuto massiccio l’in­discriminato ricorso alle azioni legali, non è più ad armi pari. Non solo perché il giornalista, per non esse­re condannato, deve dimostrare non soltanto che ha scritto il vero, ma anche che esisteva un interesse pubblico a conoscerlo, e che la for­ma non era inutilmente aggressiva. Non solo perché, se diffonde dati personali veri ma sen­za i quali la notizia sarebbe stata ugualmente completa ed esauriente, incorre nei fulmini del Garante della privacy, del giudice penale, del giudice civile, dell’Ordine. Non solo per­ché, quando pubblica notizie vere tratte da atti giudiziari non più segreti in quanto già noti al­le parti, è schiacciato nella tenaglia per cui se le riporta con precisione letterale si vede de­nunciare per aver commesso uno specifico rea­to, mentre se si limita a riassumerle si sente accusare di non essere stato abbastanza preci­so da evitare la diffamazione. A truccare la par­tita, invece, non è l’azione legale in sé, ma il fatto che chi la intenta contro il giornalista, a differenza sua, non rischi mai e non paghi al­cunché, nemmeno se il giudice accerta che le doglianze erano totalmente pretestuose: nel ci­vile il giornalista recupera al più le spese, nel penale l’assoluzione «perché il fatto non costi­tuisce reato» gli impedisce di denunciare per calunnia il querelante e ottenere i danni. Il sacrosanto diritto dei diffamati (quando siano davvero tali) di rivalersi sul giornalista non deve essere intaccato. Ma forse una modi­fica normativa potrebbe conciliarlo con la non compressione dell’attività giornalistica: quere­la pure chi vuoi e per quello che vuoi, ma se poi la causa risulta del tutto campata per aria, allora paghi al giornale denunciato almeno una minima percentuale (anche solo il 10%?) delle maxicifre che pretendevi come risarci­mento.

Liberi di scrivere, liberi di querelare. Ma responsabili en­trambi. Nella trasparen­za. Il contrario del terre­no su cui muove il dise­gno di legge sulle inter­cettazioni che, dietro il pretesto della tutela della privacy, estende l’area del segreto sugli atti d’indagine, e di ogni «pubblicazione ar­bitraria » (da 2.500 a 5.000 euro per il gior­nalista) fa poi risponde­re anche l'editore a tito­lo di responsabilità am­ministrativa della per­sona giuridica per i rea­ti commessi dai dipen­denti nell'interesse aziendale (legge 231/2001). Tradotto? A ogni dettagliata pubbli­cazione di un atto vero, non più coperto da se­greto investigativo e riportato in maniera cor­retta, l’editore pagherà da un minimo di 25 mi­la 800 a un massimo di 465 mila euro per le testate nazionali. Il modo migliore per fare en­trare «il padrone in redazione», visto che a quel punto la decisione editoriale sul «se» e «come» pubblicare una notizia sfuggirà all’au­tonomia (laddove esercitata) del tandem diret­tore- giornalisti, per consegnare l’ultima paro­la all’editore destinato a pagarne conseguenze tali da far chiudere in breve l’azienda.


venerdì 25 settembre 2009

Il nuovo giornalismo: ma è proprio quello di Feltri?

Ieri ho visto Annozero e non so quale idea si siano fatti gli italiani del giornalismo. E non mi riferisco alla conduzione di Michele Santoro, ma alla sintesi della professione giornalistica che è uscita dal programma. E' vero giornalismo quello a cui stiamo assistendo in questi mesi su molti quotidiani? Se non facessi questo lavoro, forse smetterei di acquistare i giornali. Che giornalismo è quello raccontato ad Annozero da Filippo Facci (vedi video)? Che giornalismo è quello che decide le campagne e poi va alla ricerca dei documenti che possano appoggiarle?
Forse paga in termini di copie e bilanci, ma la credibilità dei giornalisti dove va a finire?
Ieri in redazione ho avuto una telefonata piuttosto accesa con un lettore proprio sulla credibilità dei giornalisti e sul modo di dare le notizie, al di là dei toni (di cui poi si è scusato) - quelli di una persona rimasta stritolata in un ingranaggio mediatico - su alcuni aspetti (soprattutto sulla serietà quotidiana con la quale facciamo il nostro lavoro) ero quasi tentato di dargli ragione.
Dove sono nascoste le nuove frontiere del giornalismo?
Ad Asti c'è stato un convegno dal titolo "L'ultima edicola" ecco l'interessante analisi che ne fa La Stampa. Altro che Feltrismo...

La cucina dei giornali
20/9/2009 -
Imparare, comprendere, sorprendere
VITTORIO SABADIN
Che hanno i giornali da lamentarsi? La crisi offre grandi opportunità di cambiamento, il giornalismo non morirà presto ed è arrivato il momento di smetterla di piangersi addosso: occorre invece adattarsi al nuovo ambiente. Di questi tempi è difficile partecipare a un convegno sui giornali improntato all’ottimismo, ma quello («L’ultima edicola») organizzato ad Asti dal Comune e dall’Ordine dei giornalisti del Piemonte ha dimostrato che se le redazioni avranno il coraggio di rimettere in discussione le vecchie abitudini può cominciare una nuova epoca.

Che si può fare? Hanno risposto 16 esperti, tra corrispondenti stranieri, amministratori e direttori radunati da Nata Rampazzo, apprezzato newspaper designer che opera a Parigi. Bisogna decidere se arrendersi all’apocalisse o governare la metamorfosi, ha premesso David Guiraud, direttore generale del Gruppo Le Monde. Chi decide per la seconda opzione può contare sul valore di credibilità che le testate si sono conquistate. Ma deve anche cambiare e ritrovare la «rarità» delle informazioni proposte. In un mondo nel quale tutto è online, la «rarità» è un valore. Il mondo verticale non esiste più. L’autorità discendeva da politici, magistrati, giornali verso il pubblico, ora il cittadino vive in un mondo orizzontale e non accetta di essere consumatore passivo delle idee degli altri (Pierre Gironde, gruppo La Montagne).

La nuova parola d’ordine è «prossimità». Bisogna essere più vicini ai propri lettori (Jurek Kuczkiewicz, caporedattore del belga Le Soir). Imparare, comprendere e sorprendere sono le linee guida. In un mondo in cui ogni notizia è disponibile immediatamente, ci sarà sempre bisogno di un giornalista che dia un senso alle informazioni ricevute.


Ed ecco Facci che racconta Feltri ad Annozero

mercoledì 23 settembre 2009

David - Barack, Bruno - Silvio: ma quanto sono distanti questi mondi






Ho assistito ieri al David Letterman show con Barack Obama e ho sofferto di nostalgia. Nostalgia per un confronto che non fosse sudditanza; nostalgia per un politico che non fa giri di parole, che non risponde alle critiche aspre con gli insulti, ma difendendo le proprie convinzioni. Insomma,guardavo il presidente degli Stati Uniti seduto davanti ad uno degli show man più stimati e autorevoli d'America e pensavo alla messa cantata di una settimana prima a Porta a Porta di Silvio Berlusconi con Bruno Vespa. Facevo un parallelo e non ho potuto non notare le distanze abissali non tanto nel format (Vespa fa approfondimento giornalistico, Letterman fa uno show e come tale è uno spettacolo) quanto nei fondamentali (Letterman mi è sembrato quasi più giornalista di Vespa, per nulla intimorito dalla presenza di Obama, lieve ma puntuto nell'evidenziare i punti deboli dell'interlocutore come i rapporti con la signora Clinton, ad esempio, o le aspre critiche repubblicane alla riforma sanitaria o, ancora, l'efficacia della ricetta per uscire dalla crisi). Quello negli studi della Cbs non è stato come in via Teulada un "one man show", ma un confronto di sostanza. E, particolare non secondario, non si sono sentite parole come "farabutti" anche quando a Barack Obama sono stati ricordati gli insulti Repubblicani sul nodo sanitario. "Capisco i timori di molti - ha ribadito nella sostanza il Presidente - ma questa riforma è necessaria perchè un numero sempre maggiore di americani vende la casa e perde il lavoro per far fronte alle spese sanitarie. Una situazione che altri paesi occidentali faticano persino a capire".
E lo stesso Obama ha affrontato il tema della guerra senza retorica, dicendo semplicemente una cosa: sono io che comunico ai famigliari dei soldati caduti che i loro figli sono morti per l'America e quindi prima di mettere a rischio la loro vita voglio pensarci bene. Lo stesso parlando di economia e dicendo senza livore che nella precedente amministrazione i ricchi sono diventati sempre più ricchi e il ceto medio non è cresciuto con altrettanta rapidità. Così come non sì è pensato alle regole ed ora, controvoglia, si è costretti ad intervenire iniettando denaro pubblico nel sistema (un principio fuori dalla logica americana, ma necessario). Nel momento per lui forse più difficile, in cui sul tema della sanità è più esposto alle critiche, dalla bocca di Obama non è uscito un insulto, ma, al contrario, comprensione ("capisco, ma noi pensiamo che..."). E dall'altra parte della scrivania David Letterman ha fatto più il giornalista che lo show man, dando una lezione a molti con il tesserino dell'Ordine in tasca.
Insomma, detto con tristezza mista ad invidia, mi sembrava di essere planato su un altro pianeta.
O forse siamo noi in questa Italia di "farabutti" che stiamo diventando degli extraterrestri?






martedì 22 settembre 2009

Good morning Kabul: ed ora che facciamo?


Abbiamo pianto i nostri morti (ma sul come vi invito a leggere l'intervento di Massimo Gramellini di oggi sulla Stampa), ora non sarebbe male dare una risposta a questi sacrifici. Il presidente americano ha evidenziato tutte le sue perplessità davanti alla prospettiva di rimpinguare il contingente Usa in Afghanistan se non altro perchè si sente moralmente responsabile di ogni perdita che potrebbe essere registrata sul campo. E l'Italia che fa? Cosa vuol dire transation strategy, per dirla con Berlusconi, o cosa vuole dire "tutti a casa", parafrasando Bossi?
Prove tecniche di insofferenza per una presenza militare che sta diventando costosa in termini di vite umane le abbiamo registrate già ieri al termine dei funerali con qualche grido di protesta che non veniva dall'esagitato signore che ha occupato l'ambone gridando "Pace subito", nè da qualche pacifista e .come tale, vetero o catto-comunista. Voci che venivano da quelli normalmente "usi ad obbedir tacendo", che, evidentemente, vedono quanto sia priva di prospettiva una missione di questo tipo.
E se si cambiassimo registro? E se si cambiassero le truppe? E se si caricassero i C-130 invece che di mimetiche di progetti di pace, democrazia e cooperazione. Sì, ma ci sono i talebani e quelli sono in guerra. Allora ci si attrezzi per fare la guerra e non si prenda in giro chi in quel paese sta rischiando la vita.
Lo so, stiamo nuotando in una grande utopia. E allora scusatemi, ma il corraggio di costruire utopie mi affascina.
Good morning Kabul... e speriamo che il tramonto sia di un rosso carico di speranza.

lunedì 21 settembre 2009

Altre truppe per l'Afghanistan


Nel giorno dei funerali dei para' uccisi a Kabul, i vertici militari americani chiedono nuove truppe per l'Afghanistan e avvertono Obama: "Altrimenti sarà un fallimento".
Leggi qui l'articolo apparso oggi sulla versione on line del New York Time. Il tutto merita una riflessione.

sabato 19 settembre 2009

Libertà di stampa: una riflessione


"La libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare"
Pietro Calamandrei

"Chiunque ha il diritto alla libertà di opinione ed espressione; questo diritto include libertà a sostenere personali opinioni senza interferenze ed a cercare, ricevere, ed insegnare informazioni e idee attraverso qualsiasi mezzo informativo indipendentemente dal fatto che esso attraversi le frontiere"
Dichiarazione Universale dei Diritti Umani


Oggi, nel giorno in cui a Roma, prima della tragedia di Kabul, era prevista la mobilitazione per la libertà di stampa voglio fare una riflessione. Di ragioni per protestare ce ne sono più d'una ma forse, a noi giornalisti, farebbe bene concentrarsi su una parola solo: credibilità. Uno studio americano , ne ha riferito recentemente il capo redattore del Sole 24 ore Luca De Biase nel suo blog, spiega che solo il 29 per cento degli abitanti degli states pensa che i giornali raccontino i fatti come sono, il 60% ritiene che siano molto imprecisi. La maggioranza degli americani, poi, pensa che i giornali siano troppo schierati politicamente e non siano indipendenti dalle pressioni dei poteri economici. Dei giornali italiani e di quello che pensa la gente abbiamo già detto in altre occasioni(il 68% ci giudica bugiardi, il 52% ritiene che difendiamo interessi di parte): la nostra credibilità è ai minimi storici e davanti a vicende come quelle di Boffo e Feltri non può che finire ulteriormente in basso. Giusto che la società civile si mobiliti per difendere la libertà di stampa. Giusto che i giornalisti, di questi tempi, la libertà di stampa sappiano riconquistarla. Lo so, non è facile riconquistare l'orgoglio in mesi di ristrutturazioni aziendali pesanti e diffuse, di professionalità riconosciute che si avviano verso il prepensionamento in nome del risanamento dei bilanci, di fatturati pubblicitari prosciugati dalla crisi economica e di giornali che - secondo il principio sbandierato da alcuni manager editoriali che il giornale libero è quello in utile - sono un po' più deboli. In questo giorno di protesta, però, possiamo riflettere sui nostri sbagli (direi non solo nostri ma anche su quelli dei nostri editori che hanno spremuto e spartito utili come se un'azienda editoriale fosse una ferriera ed ora, che la congiuntura spinge i diagrammi vanno verso il basso, usano la sciabola con buona pace della qualità dei prodotti). Possiamo meditare sulla nostra indipendenza tradita, sulla nostra autorevolezza dilapidata al tavolo verde del potere, sul nostro patrimonio professionale (parlo dei maestri che hanno popolato le nostre redazioni) spesso bollato come jurassico e troppo scassa palle per il nuovo che avanza, per il giornalismo universitario senza tradizioni consolidate (un tempo le facoltà di giornalismo si contavano sulle dita di una mano, ora i corsi sono decine, ma gli studenti con il dna giusto una rarità) che non conosce la strada, non sa insegnare a fare un'inchiesta e che, spesso, crede che la notizia nasca da un comunicato stampa. Errori che stiamo pagando cari e che ci impongono un cambio di rotta. I margini di manovra ci sono e persino uno come Clay Shirky, docente universitario americano ed esperto-guru di new media, si è trovato aa ammettere: "La società non ha bisogno dei giornali, ha bisogno di giornalismo. Per un secolo l’imperativo di rafforzare il giornalismo e quello di rafforzare i giornali sono stati così collegati da diventare indistinguibili. È stato un caso felice, ma oggi dobbiamo trovare altri modi di rafforzare il giornalismo. Se spostiamo l’attenzione da “salvare i quotidiani” a “salvare la società”, l’imperativo di “salvaguardare le istituzioni esistenti” si trasforma in quello di “fare qualunque cosa funzioni”. E quello che oggi funziona è diverso da quello che funzionava prima. Nei prossimi decenni il giornalismo sarà fatto di una serie di casi particolari. Molti di questi modelli saranno creati da amatori, ricercatori e scrittori. Altri dipenderanno da sponsorizzazioni, sovvenzioni e donazioni. Molti altri esisteranno grazie a un gruppo di quattordicenni pieni di energia che diffonderanno le notizie.Molti di questi modelli falliranno. Non sarà un solo esperimento a sostituire quello che stiamo perdendo con la fine dei giornali, ma con il tempo l’insieme degli esperimenti che funzionano potrebbe darci il giornalismo di cui abbiamo bisogno".
Davanti ad una riflessione come questa resta un tema aperto: chi "sfama il giornalista" (e la libertà per chi fa questo lavoro a tempo pieno passa attraverso l'indipendenza economica) davanti a nuovi progetti di cui al momento si fatica a vedere il business. Un nodo che credo possa essere sciolto di pari passo con la ricostruzione dell'autorevolezza perduta. Cambiano i tempi, ma il lettore - cittadino ha sempre bisogno non di una informazione qualunque, ma di una informazione qualificata, di un giornalismo sul quale può contare. Con il quale condividere e difendere la propria libertà.

venerdì 18 settembre 2009

Kabul: 17 settembre 2009. No comment (2) - Lasciamo parlare gli altri


Sulla tragedia di Kabul... lascio parlare gli altri


La strage dei para'a kabul
Gli eroi di una guerra lontana
Il diritto dei morti, il dolore del Paese
Forse non si troverà mai un anonimo poeta in grado di cucire addosso ai ragazzi italiani morti di Kabul una canzone di quelle di una volta. Canzoni di lutto e dolore che fermavano il fiato. Come «Sul ponte di Perati», con quella strofa che dice «sull’ultimo vagone c’è l’amor mio / Col fazzoletto in mano mi dà l’addio. / Col fazzoletto in mano mi salutava / E con la bocca i baci lui mi mandava». La disperazione della perdita, lo strazio delle mogli, le lacrime dei bambini e lo sguardo impietrito dei padri e delle madri, però, sono sempre gli stessi. Anche la bandiera stesa sulle bare dei caduti, quella bandiera che un pezzo del mondo politico non perde occasione per coprire di disprezzo, è sempre la stessa. Quella che coprì, quando fu possibile e i corpi non furono abbandonati ai lupi, i soldatini mandati a morire sui monti della Grecia dove «c’è la Vojussa, col sangue degli alpini s’è fatta rossa» e sulle rive del Don descritte da Mario Rigoni Stern o sugli altopiani etiopi dov’erano arrivati cantando allegri: «Il treno parte: ad ogni finestrin / ripete allegramente il soldatin. / Io ti saluto: vado in Abissinia / cara Virginia, ma tornerò...».

Dentro i loro blindati Lince fatti saltare in aria dai talebani, Antonio e Roberto, Giando­menico e Matteo, Massimiliano e Davide e gli altri rimasti feriti, avevano forse sparato a tut­to volume prima di partire, come era giusto che fosse per ragazzi della loro età, un po’ di rock duro. Oppure quella samba che a un pa­io di pattuglie che laggiù in Afghanistan si fa­cevano coraggio cercando un po’ di normali­tà quotidiana nella musica carioca aveva fatto guadagnare appunto quel soprannome: Pattu­glie Samba. Quella che più è cambiata, però, è la guerra. Meglio: il modo in cui gli italiani vivono quelle guerre lontane. Guerre insensate e balorde. Più infide, sot­to molti aspetti, di tutte le altre guerre. Dove i nostri soldati vanno rischiando la pelle co­me la rischiavano i loro nonni sull’Ortigara o ad Adua ma con regole diverse: gli altri spara­no e mitragliano e scaricano i bazooka per­ché sono in guerra, i nostri possono sparare solo se proprio non c’è nessunissima altra scelta perché in guerra non sono. Meglio: lo sono, ma devono cercare il più possibile di restarne fuori. Scrive in un articolo su Limes intitolato «Il soldato preso a calci» il generale Piero Lapor­ta, un ufficiale furente con quella politica (non solo di sinistra, anzi) che pretende di te­nere insieme la guerra e il pacifismo, gli im­pegni militari internazionali e i continui tagli finanziari alle Forze Armate, che è tutta colpa di un equivoco. Quello che spinse anni fa un insegnante, che sventolava un opuscolo stam­pato con fondi pubblici, a illustrare la Costitu­zione ai suoi studenti spiegando che è «mol­to significativa l’immagine dell’Italia che, con la sua punta di stivale, dà un calcio al soldato: è l’articolo 11, in cui si dice che l’Italia ripudia la guerra». Sia chiaro: fecero bene a scriverlo, quell’ar­ticolo, i padri costituenti. Il nostro Paese, nel­la sua non lunghissima storia, ne aveva già fat­te troppe, di guerre. Alcune delle quali parti­colarmente aggressive. Ed è stato giusto tene­re sempre a mente quel principio. Anche quando abbiamo mandato i nostri soldati in missioni spesso difficilissime a ridosso di guerre spaventose.

È tuttavia difficile dare tor­to a Laporta quando lamenta una serie di am­biguità che non c’entrano neppure col sogno di tanti di sventolare la bandiera arcobaleno cantando «We shall over come» e facendo la «ola» con gli accendini accesi. «Una pattuglia di soldati italiani ha colpito a morte una bambina in Afghanistan. Il fatto è finito sotto la lente della magistratura. Altre pattuglie hanno avuto scontri a fuoco; vi so­no stati feriti italiani e morti nelle file avver­se. Altre inchieste. Dicono si tratti di fatti im­prescrittibili. Suggerirei altrettanta solerzia per Caporetto, Nikolajevka e anche dalle parti di El Alamein, dove le cose non sono state molto chiare», ironizza Laporta. «Perché si at­tiva la magistratura per fatti di guerra, quan­tunque non dichiarata?» Insomma: «La politi­ca militare italiana non comprende che è in­sufficiente eliminare la leva o ridisegnare i co­mandi per stare fra eserciti moderni, mentre sono in circolo vecchie tossine politiche e cul­turali ben peggiori della lettura ideologica dell’articolo 11 della Costituzione». Questo è il punto: la consapevolezza di esse­re fino in fondo «dentro» una guerra vera e che dentro una guerra vera, come ha scritto due mesi fa Guido Rampoldi, puoi starci solo combattendo, aiuterebbe a vivere anche i lutti come quello che ci ha colpiti ieri. Cosa siano l’Iraq e l’Afghanistan, dove abbiamo perduto fino ad oggi alcune decine di persone, lo dice uno studio della rivista statunitense The New England Journal of Medicine ripreso dal libro «Soldati» del generale Fabio Mini: il 30% dei soldati regolari e della riserva che rientrano a casa dopo un periodo passato sui due fronti mediorientali manifesta «sindrome da stress post-traumatico con depressione, violenza fa­miliare, abuso di alcol e droga e disagio socia­le ». Per non dire dei tentati suicidi e degli atti di auto-lesionismo di chi a un certo punto non riesce più a vedere vie d’uscita: nel 2002, dice uno studio di Reuters Health erano stati 350, nel 2007 addirittura 2.100.

I nostri milita­ri lo sanno, «dove» stanno. Sanno che la mis­sione internazionale nella quale sono impe­gnati deve portare cibo a chi ha fame, costrui­re ospedali e scuole, garantire il diritto di voto a chi vuol votare impedendo agli integralisti islamici di mozzare il naso e le orecchie agli elettori come hanno fatto il mese scorso con Lal Mohammad, le cui amputazioni sono fini­te sui giornali di tutto il mondo. Sanno che, come ha scritto tra gli altri Ahmed Rashid, l’in­tellettuale pachistano autore del best seller Ta­lebani , «le pattuglie ISAF a Kabul sono enor­memente popolari tra la popolazione locale. Hanno fatto crollare il tasso di criminalità, protetto le donne e i bambini che vanno a scuola, mostrato alla polizia locale un esem­pio di servizio alla comunità...». Ma sanno anche che c’è chi li odia. E, co­me ha detto il comandante del contingente italiano Generale Rosario Castellano a Gianluca Di Feo, il problema è capire «chi» è il nemico. «Prima fanno i contadini, poi si arruolano con i talebani e poi ritornano con­tadini. Ma gli abiti e le case sono sempre le stesse». Sapevamo che poteva costarci caris­simo, mandare i nostri laggiù in Afghani­stan. Molto più caro di quanto ipotizzasse po­che settimane fa, subito corretto dagli allea­ti, Umberto Bossi, quando disse «io li porte­rei a casa tutti» spiegando che «la missione costa un sacco di soldi e visti i risultati e i costi bisognerebbe pensarci su». Ecco, in questi giorni i familiari di Antonio e Rober­to, Giandomenico e Matteo, Massimiliano e Davide, così come i loro compagni d’arme ri­masti laggiù, a ciglio asciutto, a pattugliare altre strade su altri blindati Lince, hanno di­ritto almeno a una cosa. Di sentirsi alle spalle un Paese unito dal dolore.

Gianantonio Stella
dal Corriere della Seraù
18 settembre 2009

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I cuori, le menti e le follie
dal Blog di Vittorio Zucconi
post del 17 settembre
Avvertiva il generale Colin Powell, due volte volontario in Vietnam come giovane ufficiale combattente, che “gli eserciti non sono fatti per accompagnare i bambini a scuola e aiutare le vecchiette ad attraversare la strada. Gli eserciti sono fatti per uccidere nemici e per distruggere cose”. L’uso di reparti militari in funzione di polizia e di occupazione, in territori ai quali, a differenza delle forze di pubblica sicurezza che li’ sono radicate, ha senso soltanto se la popolazione nella sua maggioranza li accetta e li accoglie come temporanei strumenti e aiuti per arrivare all’auitogoverno. Tutti i falsi paralleli storici con l’Italia, la Germania e il Giappone del 1945 liberati dalle Nazioni Unite, come si facevano chiamare gli alleati, dopo guerre senza quartiere e senza condizioni, rispolverati a suo tempo per giustificare l’Iraq e l’Afghanistan dimostrano oggi, davanti alla montagna di bare purtroppo anche italiane, la loro assurdita’ culturale e la implicita’ arroganza della cultura occidentale convinta che tutta l’umanita’, se fosse lasciata libera di scegliere, sceglierebbe di diventare “come noi”. Eserciti nemici possono essere sconfitti e se in Afghanistan siamo andati per fare la guerra, facciamola, indviduiamo le forze nemiche, affrontiamole e distruggiamole, se ne siamo capaci. I regimi possono essere rovesciati con la forza. Le loro armate possono essere annientate. Ma le democrazia non puo’ essere esportata come un’automobile o una cassa di magliette che comunque non saranno vendute se non troveranno i clienti disposti ad acquistarle. Dove non esistono possibili classi dirigenti alternative al regime rovesciato, come aveva l’Italia fascista nelle organizzazioni clandestine di cattolici, comunisti, socialisti, liberali, monarchici affiancati nel Cln che assunsero la responsabilita’ di governare la nazione, se non esistono tradizioni e precedenti di democrazia, come in Germania o almeno di buona e disciplinata amministrazione civile come in Giappone che possano essere riprese dopo la caduta del tiranno o del regime, l’idea che organizzare un’elezione possa da sola far sbocciare la civilta’ politica e’ letteratura da think tank autorefernziale o da ideologo accecato dalle proprie dottrine. Mi sono venuti i brividi ad ascoltare il grigio ministro Frattini dire al TG1 che “dobbiamo conquistare le menti e i cuori degli Afghani”. E’ esattamente quello che 500 mila soldati americani cercarono di fare per quasi 15 anni, lasciando sul campo, insieme con l’onore dell’America, quasi 60 mila americani e milioni di vietnamiti uccisi. Naturalmente dobbiamo essere grati e rispettosi del lavoro che i nostri soldati stanno facendo perche’ noi, il loro governo, la loro nazione, glielo abbiamo chiesto, ma la commozione e il cordoglio non possono nascondere la futilita’ di un progetto politico-strategico, condannato a fallire se, e fino a quando, non saranno le nazioni coinvolte a scegliere - se lo vorranno - diverse forme di governo e ad espellere le tossine del fanatismo e del dispotismo. La piu tenace tirannide del XX secolo, il cosiddetto Socialismo Reale non fu abbattuto dai cannoni di altre nazioni, ma dal peso del proprio fallimento. Cosi’ come la Cina rossa sta, per propria scelta, evolvendo verso forme diverse di sviluppo e di governo. La democrazia non si esposta, si autoproduce. E se il terreno non e’ favorevole, e’ vano credere di poter coltivare noci di cocco nelle valli Alpine o grano in Antartide.


Io, se vi interessa, la penso così...

giovedì 17 settembre 2009

Kabul: 17 settembre 2009. No comment

"Fate ciò che è in vostro potere per far prevalere la voce del dialogo su quella della forza" (Giovanni Paolo II - Messaggio per la XII Giornata della Pace - Roma, 1 gennaio 1979).






"Con la guerra è l'umanità a perdere"
(Giovanni Paolo II
Messaggio in occasione della Giornata della Pace, Vaticano - 1 gennaio 2000)

Avvocatura, tra diritto, politica e normalità costituzionale


Continuo a ritenere che siamo un paese strano. Su un tema come il Lodo Alfano (la norma che sospende i processi a carico delle quattro più alte cariche dello Stato: presidente della Repubblica, premier, presidenti di Camera e Senato) possiamo pensarla come vogliamo (personalmente in politica sono fermo all'etica del buon esempio ed una norma come quella in questione sarebbe superflua, ma se poi arrivasse un siluro giudiziario in corso d'opera a ciascuno le proprie valutazioni in base alla fondatezza delle contestazioni, ma lasciano comunque perplessi le valutazioni espresse ieri dall'avvocatura dello Stato nella memoria alla Corte Costituzionale. Perchè? Perchè mischiano diritto e politica con frasi del tipo: "ci sarebbero danni a funzioni elettive, che non potrebbero essere esercitate con l’impegno dovuto, quando non si arrivi addirittura alle dimissioni. (...)Talvolta la sola minaccia di un procedimento penale può costringere alle dimissioni prima che intervenga una sentenza ed anche quando i sospetti diffusi presso la pubblica opinione si sono dimostrati infondati". Che valutazioni di questo tenore le facciano esponenti politici è corretto, che diventino l'ossatura di una memoria dell'Avvocatura dello Stato (dello Stato, non del Governo) davanti alla Consulta è una mutazione genetica di una questione che, in quella sede deve essere - come sostiene Giovanni Bianconi sul Corriere - solo giuridica.
"L'avvocatura si è forse espressa in modo, se si vuole, un po' troppo politico" finisce per ammettere l'avvocato - deputato Pdl Gaetano Pecorella, che assisterà Berlusconi davanti alla Consulta e che difende nel complesso le conclusioni della memoria. L'avvocatura, in realtà, avrebbe dovuto semplicemente argomentare attorno al nodo giuridico principe della questione che verrà discussa il 6 ottobe: il lodo Alfano viola il principio costituzionale secondo il quale "tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge"?.
Lì dovevano concentrarsi lo zelo e il valore professionale dell'avvocato dello Stato Glauco Nori; solo quei concetti dovevano essere sviluppati nelle 21 pagine della sua memoria. Un documento, peraltro, che, secondo gli esperti, non era nemmeno obbligatorio, così come non doveva essere scontata la difesa d'ufficio del Lodo. "Già Calamandrei osservava che i governi farebbero meglio a non costituirsi, rimettendosi al giudizio della Corte - scrive infatti il giurista Michele Ainis su La Stampa -. In secondo luogo, non è detto che l'esecutivo (e perciò l'Avvocatura) debba per forza sostenere la legittimità dell'atto normativo sindacato: di solito succede, ma in qualche caso (sentenze n. 63 del 1966, n. 305 del 1995, n. 233 del 1996 e via elencando) succede anche il contrario".
Insomma di questa ennesima deriva politica in atto giudiziario non se ne sentiva proprio la mancanza e, per dirla sempre con il professor Ainis, "sarebbe molto meglio moderare i toni, recuperare un clima di normalità costituzionale". Ci riuscirà questa strana Italia?

mercoledì 16 settembre 2009

Le due facce di casa Feltri












Curiosando fra i commenti che i giornali questa mattina dedicano all'"one man show" di Silvio Berlusconi tra case in Abruzzo e Porta a Porta (a proposito credo che ancora una volta molti giornalisti ed editori abbiano perso il treno per dimostrare la propria autorevolezza, credibilità e, soprattutto, autonomia di giudizio in cui ci stanno le case consegnate, ma anche i tanti drammi ancora aperti lungo la faglia aquilana), trovo sulla Stampa un commento di Mattia Feltri: ironico il giusto, puntuale come sempre, per nulla intimorito dal presidente del consiglio paragonato a Leopoldo Fregoli, l'uomo dai mille travestimenti, o ad un farfallone amoroso.
Leggo il pezzo e sorrido pensando alle due facce di casa Feltri: Mattia, 40 anni compiuti il 23 giugno, è il figlio di Vittorio, direttore de Il Giornale, giornalista schiaccia-sassi conto-terzi. Conoscevo Mattia ai tempi di Bergamo-oggi, giornale ormai scomparso, quando muoveva i primi passi nella professione (ramo cronaca nera e per questo ci sentivamo spesso per quell'attitudine mai tramontata di bresciani e bergamaschi per spacciare droga e rapinare banche insieme o spaccarsi la faccia a vicenda fuori e dentro uno stadio). Poi ha spiccato il volo per i giornali nazionali, dal Foglio alla Stampa, dando prova di grande sensibilità, equilibrio, autonomia di giudizio, scarsa attitudine ad asservirsi agli schieramenti: insomma oggi sembra lontano anni luce, professionalmente parlando dall'idea del giornalismo del padre.
Anche Vittorio Feltri è cresciuto all'ombra di Bergamo-oggi e della stampa bergamasca prima di approdare alle cattedrali milanesi del giornalismo nazionale. Vittorio resta uno dei pochi direttori di giornali che tramuta in oro - dal punto di vista del fatturato e delle copie - ciò che tocca: le esperienze dell'Indipendente, di Libero e della prima direzione del Giornale sono lì a dimostrarlo. Certo è un giornalismo per palati forti (qualcuno lo chiama anche "killeraggio"), non privo di sbandamenti (ai tempi di affittopoli il suo Giornale scrisse che i figli di Mino Martinazzoli abitavano nelle case di un ente, ma l'ultimo segretario della Dc non ha figli), ma per un editore di area è una sicurezza in termini di lettori conquistati, bilancio e, vedi i casi recenti, di fedeltà alla causa politica.
Due modi, insomma, molto distanti di fare giornalismo. Ma le due facce di casa Feltri forse hanno un unico comune denominatore: la fedeltà alla propria linea professionale. "Conosco bene mio padre e anche quando può apparire eccessivo e incomprensile ha fede assoluta in quello che fa" confermava, alcuni anni fa a Prima Comunicazione, Mattia Feltri.

martedì 15 settembre 2009

Un clic per salvare la provincia di Brescia dagli scempi



Il quotidiano Bresciaoggi ha lanciato una nuova iniziativa: ha invitato i suoi lettori a documentare con una fotografia i piccoli, grandi scempi che costellano la provincia di Brescia. Il contributo dei lettori verrà ospitato sia sulla versione on line del giornale che sul quotidiano cartaceo. Una sinergia multimediale per tanti lettori che si scoprono "citizen jornalist".

Ecco il pezzo di presentazione dell'iniziativa alla quale anche tu puoi contribuire.




L'INIZIATIVA. Il sito internet del nostro quotidiano è pronto ad accogliere le segnalazioni dei cittadini sui piccoli grandi problemi ambientali che ci circondano
L'occhio del lettore a tutela del territorio


Basta poco: una macchina fotografica digitale, un telefono cellulare con videocamera, una manciata di pixel in grado di garantire uno scatto di buona qualità e, soprattutto, l'occhio e la sensibilità di chi ci tiene a vivere in una provincia sì industriosa e laboriosa, ma anche rispettosa del proprio territorio e consapevole che, nella qualità della vita, un posto importante spetta alla qualità di ciò che ci sta attorno: il territorio.
IN QUESTI ANNI Bresciaoggi ha sempre raccontato con puntualità mobilitazioni in difesa di fette di provincia che finivano erose dalle cave prima, riempite di rifiuti poi, cementificate da scelte urbanistiche non sempre felici e lungimiranti. Abbiamo anche raccontato le nuove sensibilità dei cittadini e delle istituzioni (ad esempio con i fequenti blitz dei carabinieri del Nucleo di tutela del territorio o della task force di esperti istituita qualche anno fa dalla Procura della Repubblica del Tribunale) e i tentativi di barattare una cultura del territorio dissipatrice con la voglia di valorizzare quegli angoli incantati che le valli e i laghi della nostra provincia sanno offrire.
Insomma su queste colonne si è parlato di poli logistici e discariche, più o meno abusive, della corsa dissennata ai capannoni industriali e alle seconde case che hanno stravolto la fisionomia di alcuni paesi ad alta vocazione turistica, di proteste e raccolte di firme, di piccoli e grandi scempi dai quali nemmeno Brescia è immune.
Ora tocca a voi lettori diventare protagonisti, collaboratori attenti per raccogliere i tanti «sos» che arrivano dalla nostra provincia. In inglese si chiama «citizen journalism» o «open source journalism», in Italia l'abbiamo definito giornalismo partecipativo, un termine che indica un ruolo attivo dei lettori nella raccolta delle notizie, sfruttando la versatilità e l'immediatezza delle nuove tecnologie, dei nuovi media, di Internet. Così è nata l'iniziativa «Provincia da salvare», una finestra aperta sui piccoli e grandi problemi ambientali del nostro territorio. Un album fotografico da arricchire con le vostre foto, le vostre «scoperte» sul campo, i vostri «scoop» sulle brutture che ci circondano: dal mucchio di rifiuti abbandonato sul ciglio della strada, allo scheletro di un edificio mai ultimato; dallo strato di schiuma su un fiume o un fosso, allo stato di abbandono in cui viene lasciato un parco o una zona protetta.
Qualche lettore già ci manda le sue foto che trovano puntuale riscontro sulle pagine di Bresciaoggi, ora «Provincia da salvare» ha a disposizione un altro strumento importante e immediato: la versione online del nostro quotidiano. Le vostre segnalazioni, infatti, avranno una sezione dedicata su www.bresciaoggi.it, una sezione arricchita dalle inchieste che in questi anni Bresciaoggi nella sua veste tradizionale ha fatto in tema di tutela del territorio. Con «Provincia da salvare» vogliamo costruire pagine web che si arricchiranno quotidianamente dei vostri piccoli e grandi contributi, delle vostre segnalazioni, che diventeranno per noi preziose testimonianze del vostro amore per Brescia e il suo territorio.
SIN DA ORA gli indirizzi mail provinciaweb@bresciaoggi.it e provincia@bresciaoggi.it sono pronti ad accogliere le vostre foto, le vostre segnalazioni. Accanto alle immagini basta una sintesi scritta che ci permetta di ricostruire la storia di quel fotogramma (insomma basta soddisfare domande semplici come: chi, cosa, quando e dove).
Ed ecco che «Provincia da salvare» diventa l'occhio del lettore contro le brutture che spesso ci circondano. Ecco che sito web e giornale tradizionale si alleano, dialogano, mettono le proprie qualità e peculiarità al servizio del territorio. Di un territorio che merita un occhio di riguardo. Un po' di sensibilità e di rispetto. Il vostro occhio speciale, la vostra sensibilità, il vostro rispetto.

Marco Toresini
(da Bresciaoggi del 15 settembre 2009)

lunedì 14 settembre 2009

Un anno fa Lehman Brothers...


Un anno fa le tv di tutto il mondo ci dispensavano le immagini dei manager di Lehman Brothers che lasciavano l'avveniristico palazzo di Mahattan in quella che passerà alla storia come la lunga notte della bancarotta, l'inizio di una crisi che sta facendo sentire ancora i propri effetti. In questi mesi, dopo la grande abbuffata speculativa, si è tornati a parlare di regole, di priorità dell'industria sulla finanza, soprattutto sul quella creativa, di un freno a quel liberismo sfrenato che ha fatto finire in fumo, patrimoni, posti di lavoro, le prospettive per il futuro di tante famiglie.
I giornali oggi sono pieni di analisi e ricordi, di speranze e timori e di qualche monito a non avere la memoria troppo corta, a non ripetere adesso gli errori del passato come se la stella della Lehman Brothers non fosse mai tramontata, come se un anno non fosse passato invano. Ecco l'editoriale che il direttore de La Stampa, Mario Calabresi (che da inviato di Repubblica ha raccontato la crisi traendone anche un interessante libro: "La fortuna non esiste") dedica alla vicenda.

Editoriali
14/9/2009 -
Quando si spensero le luci
di MARIO CALABRESI
«Due mesi prima che nascesse nostro figlio mia moglie mi convinse a lasciare il fondo speculativo per cui lavoravo da anni per trovarmi finalmente un posto sicuro. Per questo al compimento dei 36 anni sono arrivato a Lehman Brothers: non volevo più correre rischi». Il broker che un anno fa, la mattina di lunedì 15 settembre, mi raccontava la sua storia mentre teneva in braccio la scatola con i pochi oggetti che aveva portato via dalla scrivania, non poteva credere che il mondo gli fosse caduto in testa. Era attonito, parlava con un filo di voce, eppure non aveva idea del crac che avrebbe investito il mondo.

Il giorno dopo vennero disattivati i megaschermi a cristalli liquidi che coprivano il palazzo della banca d’affari, sull’angolo tra la Settima Avenue e la Cinquantesima Strada, e che fino a quel momento avevano trasmesso a ritmo continuo balene megattere che saltavano fuori dal mare, iceberg polari, prati d’Irlanda e montagne rocciose. Fu un gesto simbolico: in quel momento si spensero davvero le luci di Manhattan.

Si svuotarono i negozi di lusso, i ristoranti e i grandi magazzini, ma chi cercava conforto cominciò a riempire le chiese o i bar. Gli americani cominciarono a pensare che un nuovo modello di consumo fosse possibile e la parola risparmio tornò nel vocabolario. Il Natale fu all'insegna della frugalità, ma se i bambini americani finalmente furono meno viziati gli operai cinesi del distretto del giocattolo rimasero a casa a migliaia. La crisi era diventata mondiale, milioni di disoccupati e di fabbriche chiusero e dall’Asia all’Europa nessuno venne risparmiato.

Cominciarono i vertici internazionali globali, i G20, a cui trovarono posto anche Cina, India e Brasile. Prima Washington, poi Londra e dagli Stati Uniti al Giappone, passando per Pechino, vennero varati giganteschi piani di stimolo all’economia.

Ora le Borse hanno recuperato, si vedono segnali di stabilizzazione ma la perdita di posti di lavoro continua. La responsabilità maggiore per il grande crollo, un anno dopo, è ancora sulle spalle del ministro del Tesoro di George Bush, Henry Paulson. Fu sua la decisione di lasciar fallire Lehman Brothers, era sicuro che il sistema avrebbe retto, che era più importante concentrarsi sul salvataggio del colosso assicurativo Aig - con cui erano assicurati milioni di cittadini americani che stavano per essere chiamati alle urne per eleggere il nuovo Presidente - e che fosse fondamentale dare un segnale forte a Wall Street: bisognava punirne uno per educare tutti gli altri a darsi una calmata e a mettere freno alle speculazioni. Paulson sbagliò drammaticamente i suoi conti e la crisi sistemica arrivò puntuale. In questi mesi non ha mai spiegato le sue ragioni, non ha raccontato i retroscena di quel drammatico fine settimana, né le responsabilità di George W. Bush. Lo abbiamo contattato questa settimana, in uno scambio di e-mail ci ha risposto che le sue ragioni le potremo conoscere solo all'inizio del prossimo anno: sta scrivendo un lungo libro con le sue verità.

Cinquanta isolati più a Nord del palazzo dove abitava Lehman Brothers, in una bellissima casa con vista sul fiume Hudson, abita l'economista premio Nobel Joseph Stiglitz, critico feroce di Paulson - uomo che veniva da Goldman Sachs, storica banca rivale di Lehman - e dell'attuale amministrazione Obama. Siamo andati a trovarlo e abbiamo raccolto il suo sfogo per un sistema che non si è ancora dato nuove regole per evitare un altro crac.

Dopo di lui abbiamo incontrato giornalisti e banchieri, industriali ed economisti, politici e sindacalisti, per capire se quella che appare alla fine del tunnel è davvero luce. Per capire come, nel crac globale, Cina, India e Brasile abbiano trovato il modo per continuare a crescere. Ma in un anno non è cambiato solo il nostro modo di consumare, come ci raccontano tra gli altri Vittorio Colao di Vodafone e Andrea Guerra di Luxottica, ma anche quello di immaginare il futuro. Perfino Hollywood ha cambiato la sua testa e ha cancellato la parola rischio dai suoi copioni, mentre il mercato dell'arte, dopo anni di eccessi e quotazioni record, ha visto dileguarsi i nuovi collezionisti russi e arabi.

Ora bisogna sperare in nuove regole, in un ritorno della fiducia e in politiche sagge di investimenti. Questa sera Barack Obama parlerà al suo Paese dalla Federal Hall di New York, annuncerà che il peggio è passato e chiederà al Congresso di varare nuove leggi per impedire che un nuovo crollo possa avvenire. Ma nulla è certo e allora abbiamo voluto tradurre in uno slogan scaramantico la foto di copertina del settimanale americano Time della scorsa settimana: incrociamo le dita.

Nel frattempo il mio broker è tornato a lavorare in quello stesso palazzo sulla Cinquantesima Strada e a fare colazione da Starbucks all’angolo: è stato assunto dalla Barclays, che ha rilevato il palazzo e una parte delle attività di Lehman. Un anno fa mi aveva detto che il fallimento era stato un atto catartico e che era giusto così, perché la furbizia non può vincere sempre. Oggi i soldi e i bonus però hanno ricominciato a girare vorticosamente intorno a lui.
(La Stampa)


CLICCA QUI: Ecco un video del New York Times ad un anno dal disastro finanziario

domenica 13 settembre 2009

Expo, edilizia e la crisi: teniamo gli occhi aperti

Nei giorni scorsi hanno presentato i progetti dell'Expo 2015, la crisi morde ancora e l'edilizia è indicata da tutti come il primo volano per far ripartire la macchina in affanno.
Un'unica avvertenza: teniamo gli occhi aperti. Al tema - quello dei nuovi schiavi - current tv dedicò tempo fa una interessante inchiesta.
Eccone un assaggio.

sabato 12 settembre 2009

Globalizzazione e televisione: la morte all'ora del reality


Nel giorno in cui si celebrano i funerali di un padre della televisione italiana come Mike Buongiorno ecco un articolo sulla morte, quasi passata sotto silenzio, di un concorrente di un reality in Pakistan. Globalizzazione e televisione...

Pakistan: morte durante un reality show rivela scarsa sicurezza e assenza di responsabilità

La morte di un partecipante a un reality show pakistano è stata oggetto di un acceso dibattito nella blogosfera locale. Saad Khan era alle prese con una prova di abilità fisica, girata a Bangkok, che implicava nuotare attraverso un lago portando 7 Kg di peso. Secondo i resoconti dei testimoni, Khan è apparso in difficoltà e ha urlato aiuto prima di scomparire sott'acqua.

La morte è stata riportata per prima su Twitter da un amico stretto ed ex collega di Khan, scatenando un'ondata di reazioni in molti siti di social network. In un messaggio su Twitter Farrukh, amico di Khan, ha incitato i blogger a unirsi per chiedere una spiegazione sull'incidente in cui ha perso la vita il giovane:

@Farrukh ahmed : a tutti i blogger: ho bisogno del vostro aiuto nell'alzare la voce contro un game show miseramente organizzato da Unilever che ha tolto la vita a un mio caro amico. Unilever si rifiuta di diffondere i dettagli e gli spezzoni video dell'evento.

Più tardi, una nota sul blog di Farrukh ha reso noti i dettagli dell'incidente:

A parte il mio resoconto personale, la morte di Saad sta diventando un segreto attentamente protetto dalle multinazionali coinvolte nella campagna dello spettacolo. Ironicamente, è proprio questo il motivo che ha portato alla diffusione della notizia a livello internazionale su blog e siti di social network (…) con questo post, voglio chiarire i fatti e rendere pubbliche alcune domande che sono sicuro vi porrete non appena ascoltati i dettagli della morte di Saad.

Paksatire ha creato un fumetto satirico in cui critica le grandi testate per non aver dato la necessaria evidenza al caso. Il messaggio generale è che, a quanto pare, i grandi media subirebbero la pressione dal settore imprenditoriale.


Nel frattempo la notizia della morte di Saad è lentamente arrivata sulle maggiori testate. Dawn ha riportato [ la notizia della morte insieme a delle spiegazioni della Unilever, che non ha ammesso alcuna responsabilità per la morte di Saad. In un post su All things Pakistan , Sabeen Mehmud condivide l'esperienza personale di quando lavorava in questa corporation.
C'era molto cameratismo e abbiamo potuto osservare quasi tutti i dipartimenti in azione, praticamente come membri. (…) L'azienda è una macchina senz'anima, dedita solo al profitto. Il piano imprenditoriale, le linee guida etiche, e i programmi di responsabilità sociale sono solamente requisiti legali che non hanno influenze pratiche su come tali aziende fanno affari.

Più avanti Sabeen approfondisce la questione della responsabilità, richiedendo che si faccia piena chairezza sui fatti:

Ciò detto, sono d'accordo sul fatto che lo show in cui è morto Saad Khan si svolgesse in un ambiente completamente controllato e la tragedia poteva essere evitata. Di fatto sembra un caso di totale negligenza.

Anche il Dottor Awab Alvi su Teeth maestro ha pubblicato una serie di articoli riguardo l'incidente, speculando sulla negligenza degli organizzatori. In un post recente ha pubblicato un'intervista ad un altro partecipante, il quale ha dichiarato che l'incidente era evitabile ed è stato causato dalla negligenza degli organizzatori.

Max Robinson ha fatto dei confronti tra i reality show di altri Paesi. Egli sottolinea la necessità che i dirigenti televisivi si assumano la responsabilità [10] [in] nell'informare i partecipanti sui fattori di rischio insiti in particolari prove di abilità fisica.

Le circostanze intorno alla morte di Khan rimangono un mistero. Mentre crescono le speculazioni, non si potrà dire nulla di certo fin quando non ci sarà qualche prova concreta. Sana Saleem sul suo blog ha esteso le preoccupazione riguardo i vari reality show che vanno spesso in onda in Pakistan.

Quest'incidente ha anche aperto le porte al mondo agli anomali reality show del Pakistan dove le misure di sicurezza non sono mai adeguate. [..] La questione ora riguarda la credibilità di questo tipo di spettacoli d'intrattenimento – poco attenti alle misure di sicurezza – dovremmo permettergli di continuare ad andare in onda a favore dell'intrattenimento e della commercialità?

Articolo di Saana Salem tradotto da Elena Intra per Global Voices

venerdì 11 settembre 2009

Martinazzoli: biografia di uno strano democristiano


“Sapevo che i francobolli per le buste grandi costavano di più e allora ho comprato un po’ di buste piccole. Ecco, questa è la cosa importante che ho fatto al ministero.” Mino Martinazzoli (dal libro "Uno strano democristiano")


E' uscito in questi giorni per Rizzoli il libro "Uno strano democristiano", un saggio scritto da Mino Martinazzoli con Annachiara Valle, alla quale il politico bresciano ha provato a raccontarsi. Un salto all'indietro nella storia politica italiana, una storia politica che, forse, lascia qualche rimpianto soprattutto in tempi in cui si spaccia la mediocrità per cambiamento, l'incompetenza per la virtù del fare, mentre la casta è rinnovata nei volti ma non nello spirito. In questo libro, ne hanno parlato recentemente i giornali, Martinazzoli, classe 1931, ultimo segretario Dc, fondatore del Ppi, ex ministro di Grazia e Giustizia, uno degli ultimi impegnato a riformare codici e non a varare leggi ad personam, ripercorre gli anni più difficili della politica italiana, dal terrorismo a tangentopoli, tributando a Romano Prodi la patente di unico leader che il Centro sinistra abbia saputo esprimere dalla fine del Ppi. "Uno strano democristiano - si legge nell'introduzione del libro - è un memoriale atipico, che ha ben poco a che fare con quelli dei grandi vecchi della cosiddetta prima Repubblica. In queste pagine, l’uomo che ha deciso di chiudere un’epoca, non si è limitato a raccogliere i retroscena sullo scandalo Lockheed, sul sequestro Moro, sulla morte di Sindona, sul giallo di Ustica e sul l’intrigo internazionale dell’Achille Lauro, ma ha scelto soprattutto di raccontare due aspetti della politica che spesso vengono incresciosamente trascurati: quello del capire prima del fare e quella dimensione di lavoro quotidiano che la nostra Repubblica dei media ha relegato in un angolo, preferendole il culto della personalità. Anche in assenza di personalità degne di culto".
Mi sembra il Martinazzoli acuto e caustico di sempre e di cui, sempre di più, di questi tempi, si sente la mancanza.

giovedì 10 settembre 2009

Scuola, riforme e "nativi digitali"


Un recente articolo su l'Espresso, attingendo al Rapporto sulla scuola 2009 della Fondazione Agnelli (una anticipazione del rapporto in coda a questo post), fa alcune considerazioni interessanti sull'istruzione nel nostro paese finendo per concludere che migliorare la scuola italiana si può e si deve, perchè se arretra la scuola, va in declino un intero paese. E come succede spesso in Italia quella che viene spacciata per una riforma è un'altra cosa: la rivoluzione può attendere se bisogna far quadrare i conti; il dibattito sull'innovazione è solo virtuale se l'unica logica è quella di tagliare: i posti di lavoro di chi è precario e l'entuasiasmo (almeno quello residuale) di chi resta in cattedra.
Eppure basta poco - dicono gli esperti - per una nuova scuola, per una realtà che dia una formazione vera a questi studenti che vengono definiti dall'Espresso (mi sembra più che azzeccato il termine) "nativi digitali" e come tali vanno ascoltati e accuditi. Limitarsi a constatare senza intervenire di conseguenza che la preparazione media di un 15enne italiano in lettura, matematica e scienze naviga tra il 26esimo e il 29esimo posto al mondo (spesso dopo Macao, Corea e Polonia) o osservare come ad una istruzione elementare fra le migliori al mondo faccia da contraltare una scuola secondaria di primo grado da paese dei balocchi ("E' la scuola media il vero buco nero - spiega l'analisi dell'Espresso -: entrano piccoli scienziati motivati e curiosi ed escono somari svogliati") è da suicidio generazionale per un paese civile.
Eppure basta poco per domare questa generazione di nativi digitali: basta forse parlare più il loro linguaggio e meno quello delle circolari ministeriali. Un linguaggio che si abbevera a Internet, alla rete e a tutto quanto ci gira attorno.
Un mondo sconfinato, ma chi sta in cattedra spesso ne vede solo le derive più deleterie. Internet non è esclusivamente l'apoteosi del "copia e incolla" per le ricerche (basta bandire il principio all'origine con una chiarezza che non lasci spazio a fraintendimenti), ma un archivio che, con i giusti strumenti di discernimento per separare il grano dall'olio, ha potenzialità inimmaginabili fino a qualche anno fa. Che c'è di meglio che studiare la Germania con le immagini (tratte dai tg dell'epoca) del muro di Berlino che crolla sotto i picconi della gente dell'est?
You tube non è solo il luogo dove i vandali - studenti postano le prove delle loro bravate nei bagni e nelle classi di mezza Italia, ma anche il cinema virtuale dove mio figlio ha ascoltato (filmato tratto da una trasmissione Rai) dalla sua viva voce Primo Levi raccontare le emozioni provate tornando nel campo di concentramento che aveva isprirato il suo "Se questo è un uomo". Un libro che mio figlio ha letto per le vacanze di seconda media. Una lettura faticosa costellata di ostacoli in termini linguistici e di inquadramento storico. Anche perchè nessuno gli ha ancora spiegato a scuola la Seconda guerra mondiale e la tragedia umana che l'ha accompagnata.... Ma questa è un'altra storia, un'altra di quelle storture che ci lanciano verso il declino, confermando sul campo tutte le perplessità di cui sopra sulla qualità delle scuole medie italiane.

RAPPORTO SULLA SCUOLA 2009

mercoledì 9 settembre 2009

E' morto Mike Buongiorno: un padre della patria


Allegria!
(Mike Buongiorno)



Ha spento definitivamente la Tv Mike Buongiorno, classe 1924. Aldo Grasso lo ha definito "Padre della patria" perchè lui, come altri della sua generazione, hanno fatto gli italiani, quegli italiani analfabeti al 52%, quegli italiani divisi dai dialetti, ma uniti dal tubo catodico. Se n'è andato un grande della Tv. E per lui il saluto non può essere che: "Allegria!"


IL RICORDO DI MASSIMO GRAMELLINI SU "LA STAMPA" DI OGGI

Buongiorno
9/9/2009 - L'UOMO-QUIZ CHE FECE GLI ITALIANI
Un borghese piccolo grande
Da icona della piccola borghesia a "filosofo" del berlusconismo
L’Italia l’avrà fatta Garibaldi, ma gli italiani, se permettete, li ha fatti lui, che di italiano non aveva neppure il nome. E qui per italiani non s'intendono le minoranze snob delle metropoli, che lo hanno trattato con degnazione per tutta la vita e in morte lo rimpiangono come capostipite di una società televisiva meno ignorante e volgare di questa. Gli italiani veri, diceva Mike, vivono in provincia.

Elui li aveva frequentati e plasmati. Settimana dopo settimana nei suoi quiz. E sera dopo sera durante gli interminabili tour estivi nelle piazze, organizzati per rimpinguare lo stipendio Rai: un milione a puntata, che anche al cambio d’oggi sarebbe una paga di gran lunga inferiore a quella di tanti non insostituibili eredi.

La vera abilità di Mike è consistita nell’arrivare sempre primo. Primo a condurre programmi radiofonici nell’Italia della ricostruzione. Primo a fare quiz televisivi. Primo a lasciare la Rai per la tv commerciale, le televendite e i giochi a premi. Fra i primi anche ad andarsene verso la nuova frontiera della tivù a pagamento, sulla scia di Fiorello e con la rabbia di chi si sentiva trattato come un rudere da dirigenti ingrati. Ogni volta che da qualche parte stava per cominciare il futuro, arrivava lui. Il suo suggerimento ai giovani era proprio questo: per sfondare nella vita non basta fare meglio di tutti quello che già fanno gli altri, dovete inventarvi qualcosa di nuovo. È una strategia di marketing che si insegna nelle università, «l’Oceano Blu», ma lui anziché teorizzarla la applicava. Come dice un altro genio della tv, Carlo Freccero, per poter restare lo specchio immutabile degli italiani Mike era costretto a cambiare di continuo. Ma senza dichiararlo apertamente, perché il pubblico è conservatore di natura e non glielo avrebbe mai perdonato.

Ancor più delle sue gaffe, ci resteranno i suoi tormentoni: «fiato alle trombe», «un cantante che va per la maggiore» e naturalmente «allegria», la cui ripetizione ossessiva serviva a marcare i vari passaggi del rito televisivo di cui era il serissimo officiante. Sì, serissimo, perché sarebbe impossibile rintracciare un'ombra di ironia nelle sue celebri lavate di capo alle vallette o nelle tecniche di seduzione con cui si rivolgeva agli stomaci degli spettatori per piazzare latticini, insaccati e persino l'amico Silvio, alla vigilia del suo esordio in politica: «Ci sono di nuovo le elezioni, come vola il tempo, e stavolta si presenta anche Berlusconi, uno di cui vi potete fidare perché con me ha sempre mantenuto le promesse». Ma qui siamo già nel Mike 2, il banditore della tv commerciale. Umberto Eco lo aveva ormai elevato a icona della mediocrità ben poco aurea dei tempi moderni. Chissà se lo avrà mai letto: lui preferiva le cronache di atletica leggera, l'unica materia in cui avrebbe potuto presentarsi come concorrente al Rischiatutto. L’incontro con Berlusconi fu memorabile. Socrate aveva trovato il suo Alcibiade, Aristotele il suo Alessandro, Seneca il suo Nerone. Silvio convocò le sottilette Kraft e altri sponsor davanti al laghetto di Milano 2, poi montò su una cassetta e disse: «Amici, ho qui Mike Bongiorno che verrà a lavorare da noi, mi date una mano?». Gliela diedero, e lui ne diede due a Mike stracolme di bigliettoni, pagandolo in un anno come la Rai in tutta la vita.

È stato davvero il filosofo del berlusconismo? E qui torniamo al punto di partenza: l’Italia di provincia, quella vera, formata a immagine e somiglianza della tv. Nell’immediato dopoguerra fu lui, torinese d'America naturalizzato milanese, la faccia del Nord benestante che milioni di massaie e contadini analfabeti impararono a conoscere e a sognare. Di quel popolo Mike parlava così: «È gente buona, semplice, sono ingenui come bambini. Li conquisti con due parole, una speranza e un sorriso». Lo ripeteva a tutti. I fenomeni della sinistra se ne infischiavano, Silvio prendeva appunti.

L’abbassamento dell’asticella del buongusto e la definitiva trasformazione dei quiz di cultura in giochi e lotterie (anche quelli, con la Ruota della Fortuna, li ha comunque battezzati lui) lo fecero invecchiare di colpo. Non era più il suo mondo. Mike, così serio, professionale, anche cattivo e non solo con i concorrenti (ricorderete il Tapiro sfasciato sul pavimento e le liti in diretta con Loretta Goggi e Vittorio Sgarbi) aveva però un debole per i personaggi ossessivi di Lascia o Raddoppia? e del Rischiatutto. Gente monomaniaca, ma il cui messaggio al pubblico era che i soldi bisognava guadagnarseli con la schiena curva sui manuali di storia e di ornitologia (ahi ahi ahi signora Longari), anziché accendendo risposte multiple o ricorrendo agli aiutini.

Come capitò a Montanelli, altro campione della piccola borghesia con il quale condivise la prigionia nazista a San Vittore, negli ultimi anni di vita ha assistito alla rivalutazione della sua opera da parte dell’intellighenzia che si era sempre presa beffe di lui. Il percorso verso la santità fu accelerato dalla decisione di trasferirsi a Sky, la tv del più grande padrone di media del mondo che l'anomalia italiana ha trasformato in ultimo avamposto della democrazia d'opposizione. Ma un giudizio sereno non può che assegnare a Mike il ruolo di unico e vero ideologo del berlusconismo: inteso non come movimento politico, ma come fenomeno di massa, ebbene sì, culturale. Il contatto con la gente comune, la centralità della televisione, il linguaggio semplice ma non sgrammaticato, le gaffe, l’amore per il denaro e l’allergia per i salotti del potere. Tutto in lui faceva sì che la sua gente, guardandolo, dicesse: sicuramente non è uno di loro e forse è addirittura uno di noi. Uno che fa domande a cui non saprebbe mai rispondere. Come i grandi filosofi, appunto.

Massimo Gramellini


venerdì 4 settembre 2009

Se va a ruba il video del furto


Quando Giovanni Baselli da Quinzano ci ha telefonato in redazione era determinato: mostrate quelle immagini aiutatemi a prendere i ladri. La banda ci ha raccontato "ha portato via tutto fuorchè il pianoforte". Eccoli qui i ragazzi della banda, la banda bassotti che tenta di scassinare la cassaforte sotto l'occhio della telecamera, che si affanna su è giù per le scale in una frenesia predatoria. Sorridiamo a quelle facce stupite quando si accorgono di essere ripresi, ma non possiamo non notare che tanto sprovveduti, quei ragazzi dalla nazionalità indefinita, non lo sono visto che tutti indossano i guanti perchè in tempo di Ris e Csi meglio non rischiare (rischiare si fa per dire, perchè per il furto le pene sono oggettivamente sproporzionate rispetto all'allarme sociale che desta il reato). Vediamo il video in anteprima (ne ricaviamo anche qualche fotogramma per ledizione del giorno), prima che finisca pubblicato su Youtube, prima che ne parlino le tv. E l'audience va alle stelle con centinania di contatti, centinaia di occhi che scrutano quei ladri. Magari con il pensiero a chi, qualche tempo prima, aveva violato gli affetti più cari, aveva rubato e devastato in casa propria. Lo confesso: anche io ho scrutato quei volti per capire se, fra quei lineamenti, potessi scorgere i tratti dell'uomo che una notte di due anni fa mi fece il dito medio a mo' di sfida dopo aver forzato la serratura di casa (vedi foto) e mentre, vistosi scoperto, stava tagliando la corda con un complice (di quello ricordo un bel paio di orecchie a sventola).
Non so se prenderanno mai i ladri di casa Baselli a Quinzano, certo è che, nel giorno di apertura del Festival di Venezia, hanno avuto più successo dell'ultimo film di Tornatore. Forse perchè in quella strana location ci siamo sentiti coinvolti in tanti.




mercoledì 2 settembre 2009

Un paese che non ha più misericordia: le parole di don Gino Rigoldi e il ricordo di Teresa Sarti Strada

Il titolo di questo post è ispirato a quello che La Stampa, quotidiano torinese, da ad una lettera di don Gino Rigoldi, cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano, prete di strada e di frontiera, come si ama dire. Un piccolo grande uomo - come ce ne sono tanti per la verità - in queste pianure sempre più aride e selvagge perchè, come sostiene lo stesso don Gino, "pietà l'è morta". Una lettera toccante, un invito alla riflessione per tutti, cristiani e non: perchè la misericordia, prima che del fedele è dell'uomo.


Un paese che non ha più misericordia


Caro Direttore,
La scorsa domenica ho letto sulla Stampa l’intervento di Barbara Spinelli che segnalava lo scarso senso delle leggi, soprattutto delle leggi umanitarie da parte di molti italiani. Diceva la giornalista che la cultura corrente, il modo di pensare degli italiani ha perso il senso della pietà ed è sempre più portata a fare legge i propri interessi veri o presunti con scarso rispetto per i diritti sanciti dai parlamenti o dalle organizzazioni internazionali.

Io non posso che essere d’accordo con la Spinelli ma vorrei aggiungere, da cristiano, un’altra osservazione e preoccupazione che come credente mi affligge, preoccupazione che si aggrava quando osservo i comportamenti di certa gerarchia ecclesiastica e del Vaticano.

Lunedì trentuno agosto, in un articolo su di un quotidiano nazionale il direttore dell’Osservatore Romano in pratica rimproverava al direttore dell’Avvenire di aver esagerato nei giudizi sui comportamenti morali del premier. Aggiungeva il direttore del giornale vaticano che i giornalisti «sono a caccia di prelati» più o meno competenti sul tema dei rapporti con il governo e ripeteva per l’ennesima volta che l’opinione di molti prelati non era quella della Santa Sede. Quando ci diranno una volta per tutte quale è l’opinione della Santa Sede? Mi piacerebbe conoscerla.

Io vorrei esprimere, modestamente, il punto di vista di un cristiano che ama leggere tutti i giorni il Vangelo e pregare lungamente sulla parola di Gesù. Nel Carcere dei minorenni di Milano e in diverse città, io cammino a piedi, prendo il tram o la metropolitana, bazzico in alcuni bar di quartiere, nei cortili. Respiro una brutta aria di ostilità, di diffidenza, di domanda di sicurezza fatta con le forze dell’Ordine o dalle ronde, come fossimo non i cittadini della stessa città, persone che sono chiamate a costruire collaborazione e comunità, ma nemici. Non sento più da anni la parola misericordia, solidarietà, accoglienza, vita sociale.

Nemici siamo un po’ tutti, in modo speciale tutti i poveri, soprattutto gli stranieri. Nel Vangelo che leggo ogni mattina la scelta di fede è chiara: cercare il volto di Dio ed amare i fratelli. Il Dio dei cristiani non è un soggetto sconosciuto ed i suoi comandi non sono vaghi e la fede consiste non tanto nel credere che in qualche parte del cielo Dio esiste quanto, ubbidire ai suoi comandi.

Se la indagine di Sky24 afferma che il 71% degli italiani intervistati ha chiesto il carcere per i cinque scampati dal terribile naufragio che ha fatto annegare nel Mediterraneo quasi settanta somali, si può affermare che la pietà l’è morta, ma anche che viene celebrata la bestemmia più grande contro Dio che in Gesù ci ha comunicato che ogni uomo e donna è figlio o figlia di Dio.

Grandi scandali per i temi familiari e sessuali, grande prudenza a tenere i buoni rapporti con il governo in carica, bacchetta per chi si dimostra moralista.

E diciamolo che non è buonismo predicare la fraternità, che Gesù era bravo anche a litigare ma non disprezzava nessuno, che la punizione è uno strumento ma non può andare senza la misericordia e la fraternità. «Non sono i tuoi fratelli, sono i tuoi nemici». Non è la voce del grande nemico, di «colui che separa»?

Non credo che la responsabilità di questa cultura sia soltanto dei media o dei politici in carica anche se questo governo ci mette molto del suo ma non si tratta forse della immoralità fondamentale per un cristiano e per la Chiesa? Perfino nelle confessioni il grande peccato che troppi giovani adulti denunciano è quello del «non essere andati a messa qualche domenica» come se la giustizia, la solidarietà, la politica, l’accoglienza fossero eccezioni per cristiani eccezionali, forse debolezza.

Saremmo discepoli di Uno che è stato arrestato, condannato e ucciso per quello che faceva e diceva, il sospetto di essere troppo diversi io ce l’ho non poco.

Don Gino Rigoldi
Cappellano Carcere Beccaria di Milano
(da "La Stampa" del 2 settembre 2009)



P.S. A proposito di persone speciali: è morta ieri Teresa Sarti Strada, la moglie di Gino Strada, fondatore di Emergency. E' morta dopo una lunga malattia, era l'anima dell'organizzazione, l'angelo custode di un marito vulcanico, indomabile ambasciatrice dell'organizzazione umanitaria. Per ricordarla ecco un video girato nel 2008 all'assemblea di Emergency a Riccione. In quell'intervento Teresa Sarti fa un cenno anche alla sua lotta personale contro il male. Un male che non aveva fiaccato la sua voglia di lavorare per gli altri.