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martedì 4 maggio 2010

Il dilemma: giornalisti-giornalisti o giornalisti-impiegati?

"Ci stanno i giornalisti-giornalisti e i giornalisti-impiegati"
dialogo dal film Fortapasc
(l'omaggio a Giancarlo Siano, nella foto, di Marco Risi)
Sarà un caso, ma questa frase mi frulla nella testa da qualche giorno, da quando ho visto in tv Fortapasc, il film di Marco Risi, che ricostruisce la storia professionale di Giancarlo Siani, giovane giornalista del "Mattino" di Napoli ucciso dalla camorra il 23 settembre 1985 a 26 anni compiuti da poco. Giancarlo Siani aveva l'età in cui anche io (quache anno dopo) ho iniziato a pestare sui tasti della macchina da scrivere, raccontando certo storie meno cruente delle sue (Brescia non era Napoli), ma, mi piace pensare, con uguale passione. Quella passione l'ho rivissuta ieri nelle parole di Lirio Abbate e Rosaria Capacchione due colleghi (lui siciliano, lei campana) che ora vivono sotto scorta dopo aver scritto di mafia e camorra. A Colpire, nelle loro parole, non era la vocazione al martirio, ma la forza di chi continua a fare con umiltà il proprio lavoro: quello di scrivere senza reticenze. Ieri per noi giornalisti era la giornata della memoria per i colleghi uccisi dalle mafie e dal terrorismo, una ricorrenza celebrata nella giornata mondiale della libertà di stampa e nel nome di Walter Tobagi, ucciso dal terrorismo a 33 anni nel 1980. Non siamo in guerra ma di giornalismo, in Italia, sono morti in tanti e in tanti ancora oggi sono minacciati, dai nuovi potenti e dai nuovi criminali.
A noi che facciamo questa professione da oltre 20 anni viene da chiedersi che razza di giornalisti siamo: "giornalisti- giornalisti" o "giornalisti-impiegati" per usare le categorie coniate nel film dal caporedattore di Giancarlo Siani  alla redazione di Castellammare di Stabia?
Non è una risposta facile, non è una risposta che corrisponde ad una mansione (c'è chi scrive gli articoli, chi porta le notizie e chi fa lavoro di coordinamento) e uno categoria dello spirito, è una pentola in cui ci metti l'entusiamo, l'indipendenza di pensiero, la voglia di capire, la testimonianza sociale e qualche discreta rottura di scatole. E' una stato d'animo sempre più raro: vuoi per mancanza di maestri veri, vuoi per mancanza di editori puri e liberi (troppo stretti tra profitto, pubblicità e poteri forti), vuoi per carenza di lettori esigenti.
Vuoi perchè i tempi passano, il potere ammalia  e alle scarpe consumate dal giornalista-giornalista sui marciapiedi della cronaca si preferiscono negli anni quelle confezionate su misura del giornalista - impiegato (e gli esempi, su questo fronte, non mancano: da Augusto Minzolini ai tanti colleghi cresciuti sulle colonne di Lotta Continua e persisi nei corridoi del Palazzo).
Tentazioni da paradiso terrestre, dilemmi di chi sta perdendo un'identità, di chi dovrebbe ricostruirla dalle fondamenta, dal rigore della testimonianza all'etica delle piccole cose, di chi si fa piccolo davanti ai grandi e arrogante davanti ai piccoli. Ricordare i colleghi che non ci sono più, forse può aiutare a riscoprire il "richiamo della foresta", sfogliare i giornali in questi giorni forse può aiutare a comprendere la nostra identità vera, a capire che se non ci fossero stati i giornali, forse ora non avremmo un ministro chiamato a giustificare davanti all'opinione pubblica l'acquisto di una casa con degli strani assegni...
Ma io sono un giornalista-giornalista o un giornalita-impiegato? Predico bene e razzolo male? Sinceramente non lo so, anche perchè non mi faccio domande per darmi delle risposte. Mi resta la consolazione di quella scena (che ripropongo qui sotto) girata su una spiaggia sgarruppata, di una società in lento degrado. Mi resta la consolazione che quella domanda mi fa ancora pensare, mi fa ancora agitare: ma che tipo di giornalista sono?




Ecco la registrazione della Giornata della memoria organizzata a Roma dall'Unione cronisti



Ecco un ricordo di Giancarlo Siani realizzato dal fratello...



La biografia filmata di Siani

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Il punto penso che sia il fatto che si è stipendiati per fare quello che l'editore, puro o meno che sia, chiede. E che gli organici e le scadenze non danno modo di perseguire temi, idee, inchieste. Probabilmente siamo giornalisti-illusi, che è una categoria di mezzo, di quelli da "vorrei ma non posso". Almeno così credo.

Jebediah Wilson ha detto...

Appunto, si fa quel che si può.

Quindi alla domanda rispondo: un bravo giornalista (tranne quando mi facevi fare le paginate sulla riforma Gelmini... lì rompevi le balle ;).

Una volta il ben noto capo redattore G. da Ome mi disse: "Il tuo problema è che credi di poter cambiare le cose, ma tanto non cambia nulla". Con tutto il rispetto, credo che sia proprio quest'ultima una delle ragioni per cui il mondo non cambia.

W i giornalisti con le crisi di coscienza.

Marco Toresini ha detto...

Paola Buizza da Facebook: "Domande che circolano in testa....ambizione, utopia, sogno...giornalismo-giornalismo, è la molla che ci mette la penna in mano, le dita sulla tastiera, che ci fa stringere il microfono con l'impeto e il desiderio di rivelare, dire, svelare...poi? ....grazie per la riflessione Marco..."