martedì 8 giugno 2010
Ritrovarsi a Villachiara e la storia dei mondi che si specchiano
La storia che sto per raccontare è una di quelle che piacerebbero a Gianantonio Stella (giornalista del Corriere della Sera) , parla di immigrazione, emigrazione e di quanto la storia, in fondo, è destinata a ripetersi.
E' la prima domenica di giugno, un caldo dì di inizio estate, è il giorno in cui Villachiara, paese della Bassa bresciana di mille abitanti e poco più, chiama a raccolta quanti, negli anni, hanno lasciato questo comune in riva all'Oglio per disperdersi nelle fabbriche e nelle cascine di mezzo nord Italia, a caccia di un lavoro che desse un futuro migliore alle famiglia. Erano gli anni '50 e '60, gli anni del miracolo economico e non c'erano solo le braccia di gente arrivata dal sud nei capannoni della Pirelli, dell'Alfa, dell'Innocenti e delle piccole grandi fabbriche di Milano e dell'hinterland, che conoscevano in quegli anni un'espansione mai più tornata. C'erano anche braccia bresciane, di gente che arrivava da paesi come Villachiara, fuggendo salari agricoli sempre troppo bassi e da una campagna da "Albero degli zoccoli", fatta di sudore, povertà e un futuro che arrivava spesso solo fino a San Martino.
La prima domenica di giugno a Villachiara si sono ritrovati in tanti, molti avevano lasciato quel paese, che ricordano solo per averlo letto sulla propria carta di identità, con il "mocio" al naso e i pantaloni corti, la loro vita è altrove, ma i ricordi affiorano non appena si varca il portone che negli anni è diventato l'orgoglio del borgo che vuole "ritrovarsi" con i nuovi arrivati (cerimonia in municipio per i neo residenti) e quanti se se sono andati (cerimonia in piazza e maxi foto di gruppo all'ombra del castello). Villachiara è il paese di mio padre, migrante per lavoro ad una manciata di chilometri di distanza dopo essere stato tentato dalle lusinghe della metropoli, come tre dei quattro fratelli, che tra gli anni '50 e '60, hanno salutato il borgo che li aveva visti braccianti, soldati e prigionieri di guerra, e trasferito le famiglie nell'hinterland milanese. Gli avi se ne sono andati tutti da qualche anno, ma i figli domenica hanno voluto ritrovarsi a Villachiara. Tutti insieme non era mai accaduto (se non per qualche ricorrenza comandata e non sempre felice) ed è stata l'occasione per ricordare; per ricordare gli anni difficili dell'integrazione, loro, bambini di pochi anni, catapultati nella quasi città (la scuola iniziata a metà anno scolastico senza libri e con un po' di magone); per ricordare quegli scorci del borgo che avevano caratterizzato un'infanzia povera ma, tutto sommato, felice. Come la casa del guardiacaccia, spersa nella campagna di Villagana in quella che ancora oggi si chiama l'Isola ed è riserva naturale. Allora era riserva di caccia per conti e signori di città che avevano affidato ad un padre di famiglia con tre figli la sorveglianza di quel bosco popolato di selvaggina. Allora era proprio un'isola, nel senso che l'Oglio, che allora non aveva piene controllare come oggi, spesso la isolava dal resto del mondo e per arrivare in paese ci voleva la barca. "Papà - racconta quello che cinquant'anni fa era un ometto - la legava vicino a casa e noi in barca andavamo scuola, a prendere il pane, a coltivare il pezzo di orto che i conti, i nostri padroni, ci avevano dato vicino al loro palazzo". Ora quel palazzo è un ristorante (nella foto), il borgo è semi disabitato, ma in fondo ad una discesa si scorge ancora il bosco e, al centro, la casetta del guardiacaccia. Scendiamo rapidi per quella strada, costeggiamo i campi che un tempo erano marcite e mezze paludi ed ecco l'Isola. Oggi è una tenuta, ci allevano i cavalli, nei campi attorno alla casa pascolano puledri e fattrici, il paesaggio è molto inglese. "Della casa sono rimasti i due gradini dell'ingresso - ricorda, l'ex ragazzo, che avendo esperienza da vendere come muratore specializzato ha l'occhio clinico per certe cose - ma hanno reso abitabile anche il piano superiore". Gli infissi laccati di bianco, le verande e le porte finestre fanno molto dimora di campagna. "Anche il fienile è cambiato - aggiunge - sopra è stato chiuso. Io la ci tenevo i picconi". Piccola economia di sussistenza insieme agli animali di bassa corte, da sempre integrazione di reddito per chi abitava in campagna. Ora il fienile è una scuderia, i cavalli scalpitano, è l'ora di una sgambata nel recinto ben curato. Ma chi pensa ai cavalli?
"Salve". Ad accoglierci è un ampio sorriso dai tratti indopachistani, mentre poco distante una donna in saree saluta abbassando gli occhi e due bambine se la godono giocando a palla nel campo. La dove quasi sessant'anni fa c'era un guardiacaccia bresciano con la sua famiglia, oggi c'è un immigrato che sussurra ai cavalli. I nuovi e i vecchi inquilini si stringono la mano e parlano fitti attorno alla fontana che è rimasta la stessa: dal gusto ferrugginoso e dalla pompa a manovella. I ricordi si intrecciano, i vecchi inquilini raccontano del padre guardicaccia, dei cani e delle corse in bici per quelle strade sterrate, i nuovi parlano dei cavalli e di come scorre lenta la vita da quelle parti che sembra quasi di stare in paradiso. I volti, anche se così diversi, paiono specchiarsi nello stesso destino. Se un tempo all'Isola si parlava dialetto, oggi in questo piccolo paradiso si parlano le lingue del mondo. Perchè "ritrovarsi a Villachiara" tra i boschi dell'Isola è un poco come ritrovarsi con il mondo, che intreccia qui le proprie storie. E le storie spesso si ripetono nei corsi e ricorsi di un'umanità in cammino.
E' la prima domenica di giugno, un caldo dì di inizio estate, è il giorno in cui Villachiara, paese della Bassa bresciana di mille abitanti e poco più, chiama a raccolta quanti, negli anni, hanno lasciato questo comune in riva all'Oglio per disperdersi nelle fabbriche e nelle cascine di mezzo nord Italia, a caccia di un lavoro che desse un futuro migliore alle famiglia. Erano gli anni '50 e '60, gli anni del miracolo economico e non c'erano solo le braccia di gente arrivata dal sud nei capannoni della Pirelli, dell'Alfa, dell'Innocenti e delle piccole grandi fabbriche di Milano e dell'hinterland, che conoscevano in quegli anni un'espansione mai più tornata. C'erano anche braccia bresciane, di gente che arrivava da paesi come Villachiara, fuggendo salari agricoli sempre troppo bassi e da una campagna da "Albero degli zoccoli", fatta di sudore, povertà e un futuro che arrivava spesso solo fino a San Martino.
La prima domenica di giugno a Villachiara si sono ritrovati in tanti, molti avevano lasciato quel paese, che ricordano solo per averlo letto sulla propria carta di identità, con il "mocio" al naso e i pantaloni corti, la loro vita è altrove, ma i ricordi affiorano non appena si varca il portone che negli anni è diventato l'orgoglio del borgo che vuole "ritrovarsi" con i nuovi arrivati (cerimonia in municipio per i neo residenti) e quanti se se sono andati (cerimonia in piazza e maxi foto di gruppo all'ombra del castello). Villachiara è il paese di mio padre, migrante per lavoro ad una manciata di chilometri di distanza dopo essere stato tentato dalle lusinghe della metropoli, come tre dei quattro fratelli, che tra gli anni '50 e '60, hanno salutato il borgo che li aveva visti braccianti, soldati e prigionieri di guerra, e trasferito le famiglie nell'hinterland milanese. Gli avi se ne sono andati tutti da qualche anno, ma i figli domenica hanno voluto ritrovarsi a Villachiara. Tutti insieme non era mai accaduto (se non per qualche ricorrenza comandata e non sempre felice) ed è stata l'occasione per ricordare; per ricordare gli anni difficili dell'integrazione, loro, bambini di pochi anni, catapultati nella quasi città (la scuola iniziata a metà anno scolastico senza libri e con un po' di magone); per ricordare quegli scorci del borgo che avevano caratterizzato un'infanzia povera ma, tutto sommato, felice. Come la casa del guardiacaccia, spersa nella campagna di Villagana in quella che ancora oggi si chiama l'Isola ed è riserva naturale. Allora era riserva di caccia per conti e signori di città che avevano affidato ad un padre di famiglia con tre figli la sorveglianza di quel bosco popolato di selvaggina. Allora era proprio un'isola, nel senso che l'Oglio, che allora non aveva piene controllare come oggi, spesso la isolava dal resto del mondo e per arrivare in paese ci voleva la barca. "Papà - racconta quello che cinquant'anni fa era un ometto - la legava vicino a casa e noi in barca andavamo scuola, a prendere il pane, a coltivare il pezzo di orto che i conti, i nostri padroni, ci avevano dato vicino al loro palazzo". Ora quel palazzo è un ristorante (nella foto), il borgo è semi disabitato, ma in fondo ad una discesa si scorge ancora il bosco e, al centro, la casetta del guardiacaccia. Scendiamo rapidi per quella strada, costeggiamo i campi che un tempo erano marcite e mezze paludi ed ecco l'Isola. Oggi è una tenuta, ci allevano i cavalli, nei campi attorno alla casa pascolano puledri e fattrici, il paesaggio è molto inglese. "Della casa sono rimasti i due gradini dell'ingresso - ricorda, l'ex ragazzo, che avendo esperienza da vendere come muratore specializzato ha l'occhio clinico per certe cose - ma hanno reso abitabile anche il piano superiore". Gli infissi laccati di bianco, le verande e le porte finestre fanno molto dimora di campagna. "Anche il fienile è cambiato - aggiunge - sopra è stato chiuso. Io la ci tenevo i picconi". Piccola economia di sussistenza insieme agli animali di bassa corte, da sempre integrazione di reddito per chi abitava in campagna. Ora il fienile è una scuderia, i cavalli scalpitano, è l'ora di una sgambata nel recinto ben curato. Ma chi pensa ai cavalli?
"Salve". Ad accoglierci è un ampio sorriso dai tratti indopachistani, mentre poco distante una donna in saree saluta abbassando gli occhi e due bambine se la godono giocando a palla nel campo. La dove quasi sessant'anni fa c'era un guardiacaccia bresciano con la sua famiglia, oggi c'è un immigrato che sussurra ai cavalli. I nuovi e i vecchi inquilini si stringono la mano e parlano fitti attorno alla fontana che è rimasta la stessa: dal gusto ferrugginoso e dalla pompa a manovella. I ricordi si intrecciano, i vecchi inquilini raccontano del padre guardicaccia, dei cani e delle corse in bici per quelle strade sterrate, i nuovi parlano dei cavalli e di come scorre lenta la vita da quelle parti che sembra quasi di stare in paradiso. I volti, anche se così diversi, paiono specchiarsi nello stesso destino. Se un tempo all'Isola si parlava dialetto, oggi in questo piccolo paradiso si parlano le lingue del mondo. Perchè "ritrovarsi a Villachiara" tra i boschi dell'Isola è un poco come ritrovarsi con il mondo, che intreccia qui le proprie storie. E le storie spesso si ripetono nei corsi e ricorsi di un'umanità in cammino.
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2 commenti:
Non sono Gianantonio Stella, ma a me è piaciuta :-)
Grazie
Marco
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