"Si, sì anche a me hanno detto di non accettare le caramelle dagli sconosciuti..." (Giovanni P., detenuto tossicodipendente nel carcere di S. Vittore. Dall'incipit di una lettera per il mensile del carcere "La Nave" e pubblicata dal Corriere della Sera)
Piero Colaprico, giornalista prestato alla scrittura di storie noir, attento osservatore delle nostre società suburbane, li ha definiti "I ragazzi senz'anima" raccontando, su Repubblica del 25 aprile del massacro nel Varesotto di un giovane piastrellista croato di 17 anni, Dean, ad opera di due amici, "Mera" (Jacopo Merani, 20 anni) e "Bak" (Andrea Bacchetta, 18). Un omicido da videogame, scrivono i giornali, con l'occultamento del cadavere sotto un fico nel giardino di casa. " Hanno meno di sessant' anni in tre, assassini e vittima, e sembrano anche uno la fotocopia dell' altro: magri, scattanti, senza barba, pantaloni stretti, maglietta, felpa", scrive Colaprico. E a me pare di rivedere quei due ragazzi con l'acne e la barba appena accennata che, attorniati da un gruppo di carabinieri del nucleo operativo, facevano il loro ingresso a Brescia negli uffici della Procura presso il Tribunale per i minorenni. Loro i 18 anni non li avevano ancora compiuti e ora stanno scontando con un amico la condanna per aver ucciso a Leno, nel settembre 2002, Desireè Piovanelli una ragazza di 14 anni massacrata a coltellate in una cascina abbandonata vicino a casa. Facce ricorrenti di bravi ragazzi capaci di crimini atroci, come il volto di adolescente di famiglia borghese di Erika all'indomani del massacro della madre e del fratellino. Volti e menti cariche di niente, incapaci, spesso, di distinguere dove sta il virtuale e dove fatica il vivere quotidiano.
"Troppa playstation" scuoteva il capo, sette anni fa, un giovane maresciallo dei carabinieri dopo aver accompagnato in procura gli assassini di Desireè e uscito piagato dentro da quella storia che aveva ricostruito a fatica facendosi largo tra l'indifferenza e il mutismo di quei ragazzi che potevano essere fratelli minori. Che potrebbero essere miei figli, nostri figli. "Troppa televisione e poco dialogo" continuava quel carabiniere spiegando la difficoltà trovata a ricostruire le mosse dei ragazzi il pomeriggio del delitto in famiglie che non si trovavano unite nemmeno all'ora di cena, nelle quali genitori e figli vivevano quasi da estranei sotto lo stesso tetto: quello del salotto buono, della tv all'ultima moda, della casa bomboniera dove lo sporco deve sempre rimanere sotto il tappeto ("Vedi hai rovinato tutto" disse al figlio, che aveva appena confessato di aver ucciso Desireè, una madre davanti agli inquirenti sbigottiti).
Quelle facce crestate, quegli orecchini, quegli sguardi spavaldi da varesini tutti d'un pezzo, come i volti butterati dall'acne dei giovanissimi di Leno, resteranno lì ad interrogarci, a chiederci dove abbiamo sbagliato. Sì, perchè se la responsabilità penale è personale, quella sociale è collettiva, appartiene a tutti noi, ai nostri pensieri, ai nostri valori, al nostro essere donne e uomini, al nostro essere educatori. E qui, ancora una volta, è emergenza. E' il deserto dei pensieri e delle coscienze. E' emergenza educativa vera e non virtuale. Forse è arrivato il momento - ha osservato qualche mese fa un sacerdote che si occupa di oratori davanti all'ennesimo delitto del branco giovanile (una violenza di gruppo) - di pensare meno ai contenitori e più ai contenuti. Sarà un po' come togliere qualche k di troppo a queste generazioni coltivate a sms.
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