Subscribe Twitter FaceBook

mercoledì 29 aprile 2009

Mamma, ho perso l'avvocato...

Leggo una bella inchiesta sul "Corriere della Sera" sul futuro della professione di avvocato, sempre più numerosi, sempre più in crescita esponenziale (era 4.429 gli iscritti all'Albo di Milano nel '90, lo scorso anno sono diventati 19.569), sempre più impegnati a consolidare un futuro incerto. In quell'inchiesta anche l'opinione del presidente della Camera penale di Milano, Vinicio Nardo, che alla domanda sul motivo per il quale ha lanciato da tempo un allarme deontologia risponde: "L'aumento spropositato di coloro che si affacciano alla professione di avvocato, e di penalista in particolare, può portare, come in tutti i campi, a un inevitabile scadimento della professionalità. Più avvocati vuol dire più competizione e rischio di abbassamento della soglia del buon comportamento".
In questa frase è facile leggere anche un altro tema, oltre a quello deontologico (che va comunque di pari passo con il buon comporamento professionale) l'aumento della litigiosità. Se non avessi fatto il giornalista, probabilmente, avrei intrapreso la professione forense e in questi anni di studi legali ne ho bazzicati parecchi, a sufficienza per capire quando si accampano tesi e pretese senza fondamento. E di "cause temerarie" - come si dice - se ne vedono in giro parecchie: basta guardare le istanze che spesso avvocati più o meno giovani avanzano a giornali contestando il contenuto di qualche articolo pubblicato. Istanze non di rado prive di fondamento giuridico (soprattutto in tema di privacy), richieste di danni irricevibili che in realtà sarebbero risolvibili con una semplice lettera di precisazioni. Insomma: iniziative fuori misura fatte semplicemente per poter giustificare una parcella di qualche centinaio di euro. Un tempo gli avvocati, da buoni professionisti, sapevano dire anche qualche no nell'interesse del cliente davanti a richieste più dettate dalla rabbia del momento che da pretese realmente fondate sul diritto e quindi dotate di una ipotetica prognosi positiva in sede di giudizio. Oggi, purtroppo, non è più così e a farne le spese, oltre ad una nobile professione come quella dell'avvocato, è, come sempre, il cliente consumatore.

martedì 28 aprile 2009

I ragazzi senz'anima e il disprezzo della vita

"Un'inquetante normalità del male, che trova origine nella vacuità di giornate trascinate senza studio senza desiderio di apprendere, riempite solo dallo scorrere del tempo e svuotate nella qualità delle relazioni, dal trascinarsi tra video e stupefacenti" (Giuseppe Battaino, giudice per le indagini preliminari di Varese, nell'ordinanza di convalida dell'arresto di Andrea Bacchetta e Jacopo Merani)

"Un omicido nato in un contesto di disprezzo della vita umana". Forse non servivano le valutazioni del giudice Giuseppe Battaino per scoprire il contesto dell'uccisione a Varese di Dean Catic, 17 anni, ad opera degli amici Andrea Bacchetta e Jacopo Merani di poco più giovani, ma quelle valutazioni fatte nero su bianco sono un atto di accusa un po' per tutti, per la nostra responsabilità civile che, davanti a queste cose, forse non dovrebbe rimanere inerte. Se davanti al giudice uno degli indagati "ritiene di poter essere superiore e sprezzante rispetto alla vicenda giudiziaria", una storia di crudeltà che potrebbe condurlo dritto all'ergastolo, è forse perchè questi due giovani sono figli di una terra di nessuno, venuti al mondo in un mondo di valori virtuali. Forse perchè sono giovani che "vagano in questa città privi di reale e serio radicamento sociale, culturale, lavorativo". Quanti non luoghi sono cresciuti in torno a noi? Quanti volti ci guardano con lo sguardo assente di chi appare distante - per dirla con il gip di Varese - "dalla soglia minima di rispetto della vita e dell'integrità fisica altrui"? Ma la nostra esistenza sarà pure un po' agra, un po' glamour, un po' Malavoglia, un po' Fabrizio Corona; sarà tutto ciò, ma non diventerà mai un videogame.

lunedì 27 aprile 2009

Quei ragazzi senz'anima/2

Una clip che può aiutare a riflettere sui ragazzi senz'anima.

Quei ragazzi senz'anima: la vera emergenza è qui


"Si, sì anche a me hanno detto di non accettare le caramelle dagli sconosciuti..." (Giovanni P., detenuto tossicodipendente nel carcere di S. Vittore. Dall'incipit di una lettera per il mensile del carcere "La Nave" e pubblicata dal Corriere della Sera)
Piero Colaprico, giornalista prestato alla scrittura di storie noir, attento osservatore delle nostre società suburbane, li ha definiti "I ragazzi senz'anima" raccontando, su Repubblica del 25 aprile del massacro nel Varesotto di un giovane piastrellista croato di 17 anni, Dean, ad opera di due amici, "Mera" (Jacopo Merani, 20 anni) e "Bak" (Andrea Bacchetta, 18). Un omicido da videogame, scrivono i giornali, con l'occultamento del cadavere sotto un fico nel giardino di casa. " Hanno meno di sessant' anni in tre, assassini e vittima, e sembrano anche uno la fotocopia dell' altro: magri, scattanti, senza barba, pantaloni stretti, maglietta, felpa", scrive Colaprico. E a me pare di rivedere quei due ragazzi con l'acne e la barba appena accennata che, attorniati da un gruppo di carabinieri del nucleo operativo, facevano il loro ingresso a Brescia negli uffici della Procura presso il Tribunale per i minorenni. Loro i 18 anni non li avevano ancora compiuti e ora stanno scontando con un amico la condanna per aver ucciso a Leno, nel settembre 2002, Desireè Piovanelli una ragazza di 14 anni massacrata a coltellate in una cascina abbandonata vicino a casa. Facce ricorrenti di bravi ragazzi capaci di crimini atroci, come il volto di adolescente di famiglia borghese di Erika all'indomani del massacro della madre e del fratellino. Volti e menti cariche di niente, incapaci, spesso, di distinguere dove sta il virtuale e dove fatica il vivere quotidiano.
"Troppa playstation" scuoteva il capo, sette anni fa, un giovane maresciallo dei carabinieri dopo aver accompagnato in procura gli assassini di Desireè e uscito piagato dentro da quella storia che aveva ricostruito a fatica facendosi largo tra l'indifferenza e il mutismo di quei ragazzi che potevano essere fratelli minori. Che potrebbero essere miei figli, nostri figli. "Troppa televisione e poco dialogo" continuava quel carabiniere spiegando la difficoltà trovata a ricostruire le mosse dei ragazzi il pomeriggio del delitto in famiglie che non si trovavano unite nemmeno all'ora di cena, nelle quali genitori e figli vivevano quasi da estranei sotto lo stesso tetto: quello del salotto buono, della tv all'ultima moda, della casa bomboniera dove lo sporco deve sempre rimanere sotto il tappeto ("Vedi hai rovinato tutto" disse al figlio, che aveva appena confessato di aver ucciso Desireè, una madre davanti agli inquirenti sbigottiti).
Quelle facce crestate, quegli orecchini, quegli sguardi spavaldi da varesini tutti d'un pezzo, come i volti butterati dall'acne dei giovanissimi di Leno, resteranno lì ad interrogarci, a chiederci dove abbiamo sbagliato. Sì, perchè se la responsabilità penale è personale, quella sociale è collettiva, appartiene a tutti noi, ai nostri pensieri, ai nostri valori, al nostro essere donne e uomini, al nostro essere educatori. E qui, ancora una volta, è emergenza. E' il deserto dei pensieri e delle coscienze. E' emergenza educativa vera e non virtuale. Forse è arrivato il momento - ha osservato qualche mese fa un sacerdote che si occupa di oratori davanti all'ennesimo delitto del branco giovanile (una violenza di gruppo) - di pensare meno ai contenitori e più ai contenuti. Sarà un po' come togliere qualche k di troppo a queste generazioni coltivate a sms.

venerdì 24 aprile 2009

Una laurea dietro le sbarre

Erika De Nardo, la ragazza, oggi 25enne, che il 21 febbraio 2001 uccise, da minorenne, in compagnia del fidanzato la madre e il fratello nella villetta di famiglia a Novi Ligure, si è laureata in lettere e filosofia con 110 e lode. Fin qui la notizia, ora inizia la speranza.
Sì, la speranza: perchè Erika, condannata a 16 anni di reclusione, è da otto anni in cella e quella laurea l'ha conseguita nel carcere di Verziano a Brescia. Erika è la prima detenuta laureata del nuovo polo universitario nato nella struttura detentiva bresciana, una detenuta "illustre" per le cronache, che continuano a seguire questa ragazza con attenzioni che spesso sconfinano nella morbosità (vedi i filmati - testimonianza contenuti nel fascicolo processuale dell'omicidio e proposti alcune settimane fa, nonostante siano passati anni dal fatto, a Matrix); una detenuta famosa a far da testimonial ad una iniziativa sulla quale i promotori (le Università bresciane, l'associazioni Carcere e territorio, l'amministrazione carceraria lombarda) ripongono molte aspettative.
Il percorso rieducativo di un detenuto passa anche attraverso la formazione, la scuola, lo studio ed Erika è la testimonianza che, con lo sforzo di tutti, in carcere si può intraprendere un percorso scolastico complesso come quello universitario; si può iniziare a mettere le basi di una nuova vita, per riprendersi in mano l'esistenza quando si saranno riaperte definitivamente le porte della cella. Erika e la sua storia ancora una volta sono tornate al centro della cronaca (ricordo che nell'unica occasione in cui l'ho incontrata, manifestò una certa insofferenza per le continue attenzioni mediatiche), ma questa volta, gli occhi dell'informazioni è giusto che guardino oltre il volto di quella ragazza. La detenuta "illustre" (si fa per dire, visto che non esistono carcerati illustri, ma solo persone che pagano per le loro colpe) è finalmente testimonial di una speranza, di una scommessa vinta: quella che un percorso rieducativo, anche in carcere, anche nelle carceri italiane, è possibile. Qualcuno storcerà il naso perchè nel paese delle leggi anti - kebab, dove è vietato anche stendere i panni alle finestre per il pubblico decoro, qualcuno preferirebbe aver buttato via la chiave della cella di Erika De Nardo, anche perchè è meglio dimenticare che confontarsi con un dramma famigliare inquietante come quello di Novi Ligure. Ma nulla potrà restituire alla vita la mamma e il fratello di Erika e il destino può guardare solo avanti. Qualcuno in questi anni a casa De Nardo l'ha fatto: è il padre di Erika, l'uomo che la sera del delitto era ad una partita di calcetto con gli amici. Francesco De Nardo non ha mai abbandonato la figlia e l'altro giorno nell'aula del carcere di Verziano assisteva alla discussione della tesi. Quel 110 e lode è anche un po' per lui. Una sorta di voto "in condotta" per quel padre lacerato dai dubbi e per tutti quelli che nel progetto universitario dietro le sbarra del carcere hanno creduto tanto, vincendo luoghi comuni e ottusità. Congratulazioni Erika e in bocca al lupo a tutti quelli che stanno facendo lo stesso percorso....

giovedì 23 aprile 2009

Calabresi a La Stampa

Un quarantenne alla guida di uno dei più autorevoli quotidiani italiani. Oggi il mattino ha l'oro in bocca per chi fa una professione come la mia e in un settore dove, in questi mesi, si naviga a vista. Una buona notizia in un settore che è un po' casta, in un panorama dove i direttori vanno e vengano, ma di facce nuove se ne vedono solo se funzionali ad un progetto che, quasi sempre, non è un progetto editoriale di tipo giornalistico ma risponde a valutazioni politiche o alla necessità di avere figure poco autorevoli per frenarne l'indipendenza.
La scelta di Mario Calabresi - almeno a parole - sembra una scommessa che guarda lontano. Il tempo dirà se sarà proprio così... chi ha fede ancora nella credibilità di questa professione lo spera.

Di Mario Calabresi, intanto, ecco un video in cui racconta suo padre il commissario Luigi Calabresi, ucciso dal terrorismo degli anni '70 e al quale il figlio ha dedicato un libro toccante ("Spingendo la notte più in là" - Mondadori). Un omaggio a tutte le vittime, spesso dimenticate dallo Stato e dalla gente, degli anni di piombo. CLICCA QUI PER VEDERE IL VIDEO

mercoledì 22 aprile 2009

Il paese delle troppe regole

"Multe ai mimi, multe agli artisti di strada e ora multe a chi mangia kebab. Che tristezza, in giro resterà solo gente che parla di politica" (Enrico Bertolino al "Corriere della Sera")
Ora tocca ai kebab: vietato consumare il cibo per strada davanti al locale. E' l'ultima regola introdotta dalla Regione Lombardia, dopo che in questi anni è diventato "somma iniuria" giocare a calcio nei parchi, consumare cibo e bevande su una panchina, fare tutta una serie di cose che, fino a qualche anno fa regolavano il nostro vivere quotidiano, la nostra socialità, il nostro stare con gli altri. Ora è una gara chi inventa la regola più stolta. A Dello, paese della provincia di Brescia, il regolamento impone il divieto di stendere i panni alla finestra. Le società produttrici di asciugatrici ringraziano di tanto zelo, ma che senso ha una regola 'si fatta? Non è meglio spiegare che, per buona educazione e rispetto delle persone, i panni vanno sì stesi al sole, ma evitando che sgocciolino sulla testa di passanti o dell'inquilino del piano di sotto?
E' lo stesso principio che passa tra l'educare e il vietare. Si dicono le stesse cose, ma educare costa fatica, mobilità le coscienze, bisogna fare i conti con qualche piccolo insuccesso; vietare è lo sbocco ideale per una politica in cerca di slogan e per una società disorientata dalla paura di crescere. E non fa nulla se alla apparente tranquillità del divieto di oggi, domani arriverà la trasgressione. Sì perchè troppe regole non supportate da una adeguata educazione finiscono inesorabilmente per essere dimenticate, superate dalla routine dei comportamenti.
Tempo fa un sindaco di un grosso centro della provincia di Brescia mi spiegò di aver convocato in comune i rappresentanti di una comunità straniera radicata in paese perchè in un palazzo da loro abitato gli inquilini erano soliti sputare dai balconi. "Nella loro cultura - spiegava il sindaco - questo non è un comportamento deplorevole. Io gli ho detto che in Italia non è così e che nel nome di una convivenza civile gli sputi dalle finestre dovevano cessare". La comunità capì ed ora quel palazzo è un po' meno terra di nessuno e un po' più italiano. Con buona pace di chi ha punito un gruppo di stranieri che mangiava un mango sulle panchine di un parco di Brescia.

sabato 18 aprile 2009

Yes, web can

Vagando come si vaga non perchè ci si è persi, ma perchè non si è persa la gioia di capire e conoscere pensieri nuovi, sono incappato in "Salva con nome", una parentesi dedicata alle nuove frontiere della comunicazione da Rai news 24, il canale all news della tv di Stato. Il docente Carlo Infante lancia un messaggio di speranza a quanti vedono nella Rete l'alienazione delle coscienze, la fine della condivisione di una comunità. Lui risponde, parafrasando Obama: "Yes, web can".

venerdì 17 aprile 2009

Pronti, via. E' tempo di votare

Anche quest'anno ci tocca. Nel senso che come quasi ogni primavera inoltrata dovremo fare i conti con le urne e le elezioni. Quest'anno accanto alle Europee e - forse, che più forse non si può - ai referendum ci sono le elezioni amministrative generali, ovvero il rinnovo di buona parte delle Province e delle amministrazioni comunali d'Italia. In provincia di Brescia ciò vuol dire che verrano rinnovati 154 consigli comunali, ovvero più di tre quarti dei comuni che la compongono (sono 206, capoluogo compreso).
Che vigilia si sta vivendo? Il Centro destra sogna il cappotto, la Lega, tornata quella dei tempi d'oro, scalpita e vuole contare in termine di uomini quanto il suo peso elettorale gli permette di capitalizzare, il Centro sinistra è sulle difensive e cerca di fare argine all'onda di piena preparandosi almeno a preservare dal ribaltone le vecchie roccaforti che costellano, soprattutto, l'hinterland cittadino. Ma, si sa, le elezioni comunali sono un animale strano: comuni che da sempre sono un serbatoio di voti per una coalizione politica, possono riuscire a regolare i conti con il primo cittadino uscente rinnegando, sulla scheda azzurra del sindaco, ogni patto di fedeltà a questo o a quello schieramento nazionale; elettorati apparentemente moderati, possono premiare, contro ogni pronostico, outsider che sono un'incognità, stizziti dalle troppe beghe di chi è al governo.
Insomma, è come addentrarsi in un campo minato, quasi a occhi bendati visto che repentine crescite demografiche, nuovi arrivi e tante partenze rendono il corpo elettorale di molti comuni difficilmente leggibile anche dal più fedele interprete del territorio.
Movimenti, coalizioni, liste civiche, lavorano ormai a pieno regime, invadono la rete e le cassette della posta, fanno conferenze stampa e lanciano proclami per una politica diversa e per un comune più vivibile. Ma tutti, o quasi, hanno un problema: trovare volti nuovi. Tempo fa Romano Prodi, parlando ad un seminario nel Regno Unito, spiegò che in Italia non c'è più chi forma, in politica, una classe dirigente, prerogativa un tempo di tante scuole quadri dei partiti e di tanti oratori dove la dottrina sociale della Chiesa diventava spesso cimento di impegno amministrativo alla guida di un comune.
Così, ecco ricomparire ex sindaci messi cinque anni fa in quarantena perchè non più eleggibili dopo due mandati consecutivi, vecchi politici che avevano masticato di giunte e consigli anche in amministrazioni lontane e, addirittura, ecco prendere corpo voci che vogliono il sindaco uscente e non più eleggibile cercare di indossare la fascia tricolore del comune attiguo, una variante alla prassi del "sindaco ombra", il primo cittadino uscente che passa il testimone ad un suo delfino, dal quale ottiene poi il ruolo di vice, per continuare, nella sostanza, a decidere il menù nei banchetti che contano.
Insomma nella politica italiana il problema del ricambio esiste sin dalle sue diramazioni più periferiche. Ma ci sarà mai una via di mezzo tra il sindaco "professionista" e il dilettante allo sbaraglio? Troveremo mai volti giovani e motivati disposti a lavorare con spirito di servizio e competenza amministrativa?

mercoledì 15 aprile 2009

Aggiornamenti. Il ricordo dell'uomo semplice ad un mese dalla morte

La storia di Domenico Bulla detto Menèc da Villachiara (vedi posto del 26 e del 31 marzo), morto nella piazza del paese per un malore, e della sua semplicità d'animo che ha toccato i cuori di tanti che lo conoscevano, dando vita anche ad un gruppo-memoriale su Facebook, si arricchisce di un nuovo capitolo: gli amici lo ricorderanno, ad un mese dalla morte, il 25 aprile. Appuntamento in piazza Santa Chiara a Villachiara dalle 21 alle 23. Il programma è ancora da definire, ma la mobilitazione è già iniziata...

Terremoto e le case che non cadono

Terremoto in Abruzzo: seconda fase. Dopo il dramma degli sfollati in Abruzzo è arrivata la fase 2: la verifica delle agibilità degli edifici. E i giornali in questi giorni sono un fiorire di storie sul malcostume tutto italiano di predicare bene (ovvero realizzare leggi spesso all'avanguardia), ma di razzolare male (ovvero non mettere in pratica quelle leggi o, peggio, aggirarle). E nell'elenco degli edifici che meriterebbero un'indagine della magistratura non c'è solo l'ospedale de L'Aquila, ma anche palazzi residenziali sbriciolatisi come pane raffermo.
Il Corriere della Sera di oggi, però, a pagina 6, racconta la storia di una casa di Onna miracolosamente illesa nonostante si trovi nell'occhio dell'inferno. E' la villetta di Margherita Nardecchia Marzolo, una vecchia fornace ristrutturata dal marito della donna ingegnere e dall'amico geologo. Una ristrutturazione che ha incatenato muri, usato malte speciali e tanto legno con il risultato che la signora Margherita deve ora fare i conti, oltre che con la paura di nuove scosse, solo con un comignolo lesionato.
Forse non si potrà prevedere quando verrà il terremoto, ma stare con la lampada accesa (per usare un'immagine evangelica) si può e si deve. Le tecniche di costruzione antisismiche esistono e per conoscerne i segreti basta riascoltare una trasmissione proposta nei giorni scorsi dall'emittente del Sole 24 ore, Radio 24, all'interno del programma di divulgazione scientifica Moebius . Nella trasmissione si è parlato anche delle tecniche costruttive antisismiche messe a punto da Ivalsa (l'istituto per la valorizzazione del legno) e Cnr e Provincia di Trento e presentate con successo in Giappone. Volete vedere una casa in legno di sette piani resistere al terremoto di magnitudo 7,2 della scala Richter? Guardate il video qui sotto e capirete che domare la furia del sisma si può.

martedì 14 aprile 2009

Giornalisti, cani, sciacalli e terremoto

"Facciamo tutti un esame di coscienza" (Giorgio Napolitano in visita alle zone terremotate d'Abruzzo)

E' una settimana che non alimento questo "armadio delle parole" e qualcuno me lo ha già fatto notare perchè - dicono gli esperti - il blog è come un tamagoci: va nutrito quotidianamente altrimenti si spegne in una lenta agonia, muore per asfissia di idee e pensieri. Ma questa settimana di digiuno mi è servita per ascoltare le cronache di tanti colleghi dal fronte del terremoto, un fronte instabile, fatto di scosse continue, di dolore, disperazione, distruzione. Un fronte popolato da tanti maestri, molti sciacalli e qualche cane.

Saranno stati ingenerosi quei tifosi che in uno stadio di Serie A sabato hanno esposto uno striscione contro la categoria (reggere ore di diretta televisiva mantenendo alta la qualità dell'informazione non è impresa facile), ma forse, fra le terre martoriate d'Abruzzo, si è persa, come al solito, un'occasione di riscatto professionale. L'occasione per smentire quei sondaggi che, nell'immaginario dell'opinione pubblica ci vogliono con credibilità e autorevolezza pari a zero.

Una catastrofe come il terremoto è un pozzo senza fondo di storie, spunti giornalistici, racconti di vita e di denuncia. Basta saperli cogliere con rispetto, con spirito di condivisione con la discrezione che fa di un giornalista, non un rompiscatole professionista, ma una persona che racconta, che aiuta a capire la tragedia, che aiuta a condividere i bisogni di questa gente che con il passare dei giorni e delle settimane avranno una grande necessità da soddisfare: quella di non essere dimenticati, in questa Italia tanto incline alla commozione e alla mobilitazione nell'immediato, tanto portata alle amnesie con il passare del tempo. Mi sembra che i giornali abbiamo soddisfatto con professionalità il loro compito, mi pare che non si possa dire altrettanto di telecamere e tv. Bussare alle porte di gente che dorme in macchina per chiedere come si sente, non è giornalismo: è molestia; chiedere "come sta" ad un uomo con la maschera ad ossigeno in un letto d'ospedale non è giornalismo: è qualcosa che si avvicina molto all'imbecillità. E' difficile fare televisione, è difficile fare buona televisione, ma i maestri, anche se sono sempre più merce rara, non mancano nella tv di Stato come in quelle commerciali (la barba bianca di Toni Capuozzo, cresciuta nelle notti passate fra tende e macerie, racconta più di tanti trattati di giornalismo): basta saper far tesoro degli insegnamenti e magari lasciar perdere smanie di protagonismo fuori luogo. E non ditemi che per fare buona tv serve sbattere un microfono in faccia a madri affrante e anziani disorientati: guardate la sezione "no comment" del sito di Euronews e capirete; guardate il video sul terremoto in Abruzzo e comprenderete quanto i commenti talvolta siano superflui: basta l'abbaiare di un cane, l'incrociarsi di lingue e dialetti dei soccorritori per testimoniare un dramma. Noi giornalisti in fondo, con le telecamere o con il taccuino, non siamo protagonisti siamo testimoni. E questo non tutti, purtroppo, l'hanno capito...

lunedì 6 aprile 2009

La polemica sul terremoto prevedibile




Lo confesso: la polemica sulla prevedibilità del terremoto non mi esalta, sopratutto perchè al momento c'è altro a cui pensare. In ogni caso ecco un video nel quale il ricercatore abruzzese Giampaolo Giuliani spiega i motivi per i quali nei giorni scorsi aveva parlato di una forte scossa in arrivo. Da dire anche che la teoria di Giuliani, basata sulla presenza e gli incrementi di gas radon,è molto controversa in campo scientifico.

Chissà che notte sarà in Abruzzo?





Sarà il tarlo che hai dentro da quando sei nato, sarà quella brutta malattia che ti fa mettere il naso nella storia delle persone, vicine o lontane che siano. Sarà tutto questo, ma oggi non sono riuscito a togliere gli occhi da quelle macerie per le strade dell'Aquila, da quei paesini spazzati dal soffio del terremoto, da quei morti, da quei muri sbriciolati. E' come se un po' di polvere ti si fosse depositata dentro. Uscendo di casa ho fissato quell'intercapedine che mi divide dall'abitazione del vicino: mi hanno spiegato che, in caso di terremoto, dovrebbe dare alle villette a schiera quell'elasticità necessaria per assorbire l'onda d'urto di un sisma. Ho guardato quel solco celato da una copertura di metallo e mi sono chiesto: basterà? Così come basterà la dose extra di cemento armato che le leggi antisismiche impongono in un paese a rischio, come a rischio è buona parte della provincia di Brescia?
Qui i conti del terremoto li abbiamo fatti quasi cinque anni fa è quel soffio che ci ha attraversato l'anima, che ha costretto centinaia di persone di Garda e Valsabbia fuori casa per mesi, fortunatamente senza piangere morti e feriti, è ancora vivo; ancora ci terrorizza, ci fa sobbalzare al minimo sussulto (e da quel giorno, a conferma che non siamo in un'isola felice, di sussulti, più o meno robusti, ne abbiamo vissuti sin troppi).
Forse, proprio per questo, vedere quegli sguardi colmi d'angoscia, quegli occhi pieni di lacrime, ci rendere più facile e autentico condividere un dolore che è un po' anche il nostro. Che notte sarà quella che sta arrivando sotto le tende di Abruzzo? Che giorni saranno quelli che attendono quegli italiani all'ombra del Gran Sasso? Saranno notti e giorni in cui crescerà la consapevolezza che tutto non sarà più come prima. Mai più.
Nel 1980, dopo il terremoto dell'Irpinia, centinaia di morti, interi paesi rasi al suolo, giravi per le strade bombardate dal fato di Calabritto o Sant'Angelo dei Lombardi (due centri fra i più colpiti) e trovavi gli anziani che ti prendevano per mano e ti portavano a vedere la loro casa, di cui era rimasto solo lo scaldabagno appeso all'unico muro maestro non crollato e il quadro della Sacra famiglia alla parete di quella che un tempo doveva essere la camera da letto. Raccontavano, piangevano e morivano lentamente dentro. In uno di questi paesi un gruppo di volontari bresciani aveva ricostruito in una tensostruttura il nucleo storico del borgo: avevano recuperato dalle macerie i ciotoli delle strade e li avevano fusi, in una ricostruzione tridimensionale, alle gigantografie dei palazzi in tutto il loro splendore. Il risultato era un paese virtuale che non ci sarebbe stato più e nel quale molti abitanti stavano ore seduti in mezzo piangendo, sognando e tentando così di lenire una ferita che forse non si sarebbe mai rimarginata.
Che notte sarà quella in Abruzzo? Sarà la notte del lutto e dell'angoscia, del ricordo per i morti e del pianto per i vivi. Sarà una notte che, speriamo possa restituire un'alba di speranza. Sotto le macerie, forse, qualche fiore è rimasto. Buonanotte Abruzzo...

domenica 5 aprile 2009

L'America della crisi raccontata da un acuto osservatore come Vittorio Zucconi

Ecco un interessante filmato dal Festival del Giornalismo di Perugia.

venerdì 3 aprile 2009

Che faccia ha la crisi?

Ecco come cavarsela nell'America profonda ai tempi della crisi







"Gli economisti sono chirurghi che hanno un eccellente scalpello e un bisturi scheggiato, sicchè operano a meraviglia sul morto e martorizzano il vivo" (Nicolas de Chamfort)


Che faccia ha la crisi? La faccia degli uomini in giacca e cravatta che lasciano gli uffici della banca d'affari americana con i loro scatoloni o quella dell'ex operaio che ha tirato su una tenda a fianco della ferrovia perchè la crisi si è portata via casa e lavoro? "Picturing the recession" è l'iniziativa lanciata dalla versione on line del quotidiano New York times in cui i lettori sono invitati a mandare la loro testimonianza visiva di questa crisi economica che sta spazzando il mondo. Così dall'America profonda arrivano immagini di store con le vetrine tapezzate di super sconti, facce desolate di giovani un po' sovrappeso sprofondati in divani provati dall'usura, inebetiti da una vita che, in un lampo, si è trasformata in tempesta. Così la fotogallery si anima di facce senza tetto, spazi senza apparente futuro, cronache dell'abbandono, microstorie di piccoli smottamenti quotidiani.
E le facce della nostra crisi quali sono? E se dovessimo anche noi "to picture the recession"? Scatterei una foto al papà operaio che accompagna il figlio a scuola la mattina (mai visti tanti uomini ad evadere l'incombenza come in questi mesi), che si aggira con aria smarrita fra le bancarelle del mercato, che rovista fra felpe e camice "tutto a 5 euro". Scatterei una foto al mio giovane vicino di casa che ho incontrato questa mattina con il cane al guinzaglio: la sua azienda è stata messa in liquidazione e la sua faccia da depresso "dog sitter" parla più di mille comunicati sindacali. Scatterei una foto anche a quel signore che non so bene come si chiami ma che, sotto il municipio del mio paese, ha pensato bene di raccontarmi la sua storia come ad un confessore. Una vita fatta di fabbriche che chiudevano, lavori plurimi per potersi garantire uno stipendio dignitoso e l'ultimo schiaffo dell'azienda in liquidazione (sì, la stessa del giovane vicino di casa). A salvarlo questa volta, dopo la cassa integrazione, ci sarà il pensionamento, ma in quella fabbrica ha trovato posto la figlia e lui di questo non sa darsi pace.
Scatterei una foto alle tante storie che basterebbe raccontare con un clic, le ritaglierei e ne farei un maxi poster (ricordate il Toscani di "United colors of Benetton"?) e vorrei sventolarlo come una bandiera al prossimo G20, chiedendo - sommessamente, perchè altrimenti la regina si adombra - "Do you like mister Obama? Do you like mister Berlusconi?"...

giovedì 2 aprile 2009

Ho l'invidia del pene...


"Scrivere non è roba per gente serena" (Margaret Mazzantini al "Corriere della Sera")
Lo confesso: ho l'invidia del pene. In senso lato, ovviamente. L'invidia per qualcosa che uno non ha, o che sente di non avere a pieno: l'invidia per una prosa sciolta, per una metafora creativa. Il sogno incompiuto di chi fa un mestiere come il mio, quello del giornalista e che vorrebbe raccontare, fatti, storie e persone in modo sì comprensibile, ma anche piacevole e accattivante.
Insomma, lo confesso, vorrei aver scritto io frasi come queste: "E' l'alba, poco prima del giorno. Corriamo su questa macchina futurista incontro ad un futuro che forse sarà fatto tutto così, con gli avanzi di ciò che resta del prima..." (M.Mazzantini "Venuto al mondo"). Non l'ho scritto io è forse non lo scriverò mai, ma una cosa mi consola: se scrivere non è roba per gente serena, noi giornalisti sereni non lo siamo più da un pezzo o forse non lo siamo mai stati. Che sia il viatico giusto...?