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lunedì 25 ottobre 2010

Troppo comoda dottor Marchionne

Sergio Marchionne ha lasciato la 500 e ha preso la ruspa per fare dell'Italia industriale un bel cumulo di macerie. Davanti a Fabio Fazio il manager della Fiat ha spiegato che senza l'Italia la sua azienda farebbe di più e meglio, dimenticandosi forse che senza l'Italia la sua azienda, le migliaia di braccia che hanno attraversato la penisola per approdare a Torino, senza lo stato che l'ha soccorsa nei momenti di difficoltà, non ci sarebbe stata.
Ha detto cose suffragate dalla verità dei numeri (la scarsa competitività del nostro paese è cosa nota) e dei fatti (che lavorare alla Fiat sia come lavorare in un ministero con tutti i difetti, le storture e i lassismi del caso non è un mistero per nessuno), ma dire che la Fiat in Polonia e in Brasile sta facendo meglio è una ovvietà. Provi, dottor Marchionne (si ricorda? Da questo blog le avevamo lanciato una lettera aperta in proposito)  ad esportare gli stessi diritti, salari e garanzie in Polonia e Brasile e poi ne riparliamo: sappiamo benissimo che esistono molti suoi colleghi che giocano a risiko con le aziende delocalizzando di volta in volta dove è più conveniente (oggi è la Repubblica di Moldova con salari da 300 euro al mese e zero tasse, domani sarà un'altra terrà di nessuno affamata di industrie e pronta ad offrire salari al limite dello sfruttamento fin quando fa comodo).
Certo in Italia esistono dei problemi: una politica industriale che latita, un problema di costi che, fa notare qualche suo collega, non è solo salariale, ma di energia, di fisco, di infrastrutture. Problemi che vanno risolti insieme ognuno per le proprie competenze. Se per i lavoratori sono finiti (se mai ce ne siano stati a 1.200 euro al mese) i tempi delle vacche grasse, mi sembra che il medesimo concetto fatichi ad essere recipito da molti suoi sodali che hanno affrontato la crisi chiudendo qui e aprendo altrove, facendo pagare all'industria i peccati commessi con la finanza., ottimizzando le perdite del guadagno facile a spese di una vera, lungimirante ristrutturazione industriale.
Così, caro dottor Marchione, lei avrà anche dato una salutare scrollata all'azienda Italia, ma per cortesia, non eluda le domande che Massimo Mucchetti oggi le rivolge in un commento sul Corriere.
"Tutti parlano - spiega Mucchetti - e non si capisce dove vada il Paese, lamenta Marchionne. Una frustata al radicalismo sindacale e al governo, che a parole sostiene l'azienda, ma poi non fa politica industriale. E tuttavia il capo della Fiat esercita anche lui un potere del quale dovrebbe rendere conto non solo agli analisti finanziari. Le domande s'affollano. Che cosa ha inventato di grande in quest'ultimo lustro la Fiat? Come lavora l'ufficio progetti? Quanto incidono i 10 minuti di pausa in meno o il sabato lavorativo in più sui margini di contribuzione dei diversi modelli? Come intende cambiare stabilimento per stabilimento, e con quale spesa, l'obsoleta struttura produttiva italiana? I mitici 20 miliardi in 5 anni vanno bene per introdurre, ma poi bisogna spiegarsi. Anche perché la Fiat non sta investendo al ritmo promesso. I molti, che hanno visto in Marchionne l'eroe della rinascita italiana, vorrebbero capirne di più. Il capo della Fiat dovrebbe rispondere in particolare ai sindacati moderati che gli hanno firmato una cambiale in bianco rischiando la propria reputazione. Promettere di avvicinare i salari Fiat a quelli francesi o tedeschi pare troppo bello per essere vero. Citare le percentuali del tesseramento per delegittimare il sindacato non è un pò superficiale? La Francia, assai meno sindacalizzata dell'Italia, sta mettendo in croce Sarkozy".
Insomma anche lei, dottor Marchionne, se vuole che gli sia riconosciuto il diritto di dire quello che ha detto, faccia la sua parte e non dimentichi di essere in Europa. Quell'Europa che sullo sviluppo industriale ha costruito il suo benessere, il suo progresso, il suo stato sociale che non sia solo sfruttamento. A me meno che non si voglia parlare di un'Europa che, con la scusa della crisi, vorremmo un po' più vicina al Terzo Mondo.





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