lunedì 27 luglio 2009
Cambiamento e innovazione: ma chi lo dice che non è un paese per vecchi?
Innovazione. Una parola che ci riempie la testa, un modo di pensare, di approcciarsi alle cose, di gustare e governare il cambiamento, senza subirlo, senza sentirsi obsoleti o pezzi di modernariato come un vecchio Commodore 64.
Giornalimo e innovazione, poi, appartiene al dibattito dell'anno con chi canta il De profundis, chi lancia la sfida della cross medialità (il giornalista che mette a disposizione la propria competenza per una serie di mezzi di comunicazione) e chi usa le regole per imbrigliare il presente (ma forse anche il sindacato dei giornalisti si è accorto che più professionisti sanno governare le nuove tecnologie, meno giornalisti finiranno per essere emarginati negli anni della crisi).
Uno spunto interessante di riflessione mi è arrivato da Mario Calabresi (neo direttore de La Stampa)e dall'ultimo capitolo del suo nuovo libro "La fortuna non esiste". Un ultimo capitolo che parla della caduta degli dei: di quei giornali che hanno contribuito a costruire il mito americano. "La più impressionate ma silenziosa caduta che ho incontrato nel mio viaggio americano - spiega -è stata quella dei giornali: un crollo senza eccezioni geografiche, che ha investito le due coste e messo a rischio di sopravvivenza bandiere dell'informazione come il "San Francsco Chronicle" o il "Boston Globe", mentre quotidiani come il "Los Angeles Times", il "Chicago Tribune" e il "Chicago Sun Time" hanno dovuto dichiarare bancarotta".
La prognosi è riservata per l'editoria mondiale, ma c'è chi ha saputo cambiar pelle, come il grande inviato americano che, partendo per l'ufficio di corrispondenza di Gerusalemme, scherza sul fatto che gli hanno fatto firmare quattro contratti al prezzo di uno: il quotidiano, un suo gemello dello stesso gruppo editoriale, il sito internet con video e audio.
Accanto a lui il premio Pulitzer David Remnick, direttore del "New Yorker" riflette: "Le cose stanno cambiando a una velocità incredibile e non sarebbe una tragedia se un giorno i quotidiani si leggessero solo sul video. Il problema è il modello di business: fino ad oggi nessuno ha avuto successo solo on line, la pubblicità in rete e molto meno redditizia e questo metterebbe in crisi la funzione che oggi hanno i giornali. L'ufficio del "New York Times" a Bagdad costa milioni di dollari l'anno, ma se non se lo fosse più potuto permettere avremmo saputo molto meno su questa guerra".
Ma il tema è anche un altro, spiega invece Seymour Hersh, 72 anni, portatore sano di scoop dal Vietnam ad Abu Ghraib: "Il problema è che le grandi corporation hanno preteso dai giornali utili del 20 per cento. Per anni hanno strizzato soldi dai quotidiani e ora che li vedono annaspare li buttano via. Dovremmo tornare al giornale di proprietà di una famiglia, che certo fa meno utili ma non pensa solo a quello, ci vuole una mentalità completamente diversa che riduca le aspettative e pensi a un nuovo modello di quotidiano. Ma noi siamo colpevoli di essere diventati troppo superficiali, approssimativi, asserviti e poco credibili".
Eccoci al peccato originale che forse è concausa di questo lento declino. Ogni innovazione ha un futuro ad un patto: la riconquista di una professionalità perduta. "Bisogna essere curiosi, affidabili, trasparenti e corretti. E se fai un errore devi ammetterlo e correggerlo il prima possibile" spiega Hersh. "Per fare un buon giornalismo non ci vuole un'intelligenza superiore ma tenacia" osserva David Remnick.
E l'innovazione? Siamo pronti a rinnovarci? Guardate questo video in cui Mario Calabresi parla dei suoi primi mesi a "La Stampa" e di innovazione. Buona riflessione.
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