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mercoledì 29 luglio 2009

La Lega vuole l'esame di dialetto per i prof: no comment

Valentina Aprea (Pdl) investe della questione la conferenza dei capigruppo
Lega: «Test di dialetto per i prof»
Scontro sulla scuola, stop a riforma
«Gli insegnanti devono conoscere la cultura della regione dove lavorano». Fini: si rispetti la Costituzione


MILANO - I professori dovranno superare un «test dal quale emerga la loro conoscenza della storia, delle tradizioni e del dialetto della regione in cui intendono insegnare». Stop dunque alla selezione basata sui titoli di studio. È quanto la Lega chiede che sia inserito nella riforma della scuola ora all'esame della commissione Cultura della Camera. Ma il presidente della commissione, Valentina Aprea (Pdl), dice no e sconvoca il comitato ristretto investendo della questione direttamente la conferenza dei capigruppo di Montecitorio. La Lega però si oppone. E la riforma, per il momento si blocca.

LA PROPOSTA - «Il presidente Aprea - spiega Paola Goisis, deputata della Lega e presentatrice della richiesta - ci ha detto che il testo dovrà essere discusso direttamente in aula. Ma a questo noi ci opporremo perché non si può scavalcare così la volontà di un partito di maggioranza e la stessa Commissione». «Noi avevamo presentato una proposta di legge di riforma della scuola. Ma questa non è stata condivisa da tutta la maggioranza. Così - racconta ancora la parlamentare leghista - abbiamo chiesto che ne venisse recepita almeno una parte nel testo unificato che ora era all'esame della Commissione Cultura. Abbiamo rinunciato a tutto, tranne che ad un punto sul quale insisteremo fino alla fine: ci dovrà essere un albo regionale al quale potranno iscriversi tutti i professori che vogliono. Ma prima dovrà essere fatta una pre-selezione che attesti la tutela e la valorizzazione del territorio da parte dell'insegnante». La Lega, cioè, vuole inserire un test, per i professori, che attesti, per dirla con le parole di Paola Goisis, «il loro livello di conoscenza della storia, della cultura, delle tradizioni e della lingua della regione in cui vogliono andare ad insegnare».

«I TITOLI? A VOLTE SONO COMPRATI» - I titoli di studio, quindi, passeranno decisamente in secondo piano. «Non garantiscono un'omogeneità di fondo - osserva il deputato del Carroccio - e spesso risultano comprati. Pertanto non costituiscono una garanzia sull'adeguatezza dell'insegnante. Questa nostra proposta che, ripeto, è l'unico punto che noi chiediamo venga inserito nella riforma, punta ad ottenere una sostanziale uguaglianza tra i professori del Nord e quelli del Sud. Non è possibile, infatti, che la maggior parte dei professori che insegna al Nord sia meridionale». L'esponente del Carroccio si dice quindi d'accordo sull'ipotesi di istituire un albo regionale per gli insegnanti, ma ci dovrà essere però prima una selezione sulle conoscenze «della lingua, della tradizione e della storia delle regioni dove si intende insegnare». Altrimenti la Lega si metterà di traverso sulla riforma. «Spero davvero che il testo non venga calendarizzato prima di un chiarimento all'interno della maggioranza - dice - Non può essere scavalcata così la volontà del secondo grande partito della maggioranza». Valentina Aprea (Pdl), proprio per evitare una discussione che spaccasse ulteriormente Lega e Pdl sul punto ha sconvocato il comitato ristretto in attesa di decisioni che, secondo lei, dovrebbe prendere la conferenza dei capigruppo di Montecitorio.

L'OPPOSIZIONE - Il capogruppo del Pd in commissione Cultura, Manuela Ghizzoni, contesta l'atteggiamento del centrodestra: »Stupisce veramente la profonda spaccatura - sottolinea - L'istruzione è un tema troppo serio e non può divenire oggetto di pericolose incursioni ideologiche dal sapore tutto nordista».

FINI E LA COSTITUZIONE - Il presidente della Camera Gianfranco Fini ha invece assicurato nel prosieguo dell'iter parlamentare del disegno di legge sulla riforma della scuola il rispetto dei principi fondamentali della Costituzione. - «Durante l'esame della riforma la prima commissione e l'aula valutino il pieno e totale rispetto dei principi fondamentali della nostra carta costituzionale - ha detto il numero uno di Montecitorio - , si tratta di questione che non può essere opinabile ma che deve essere soltanto riferita a quel che c'è scritto nella Carta».

(dal Corriere della Sera)


Che dire? Ogni commento a questa ipotesi mi sembra superfluo. Forse tra qualche anno in tv vedremo cose così....



o così...

lunedì 27 luglio 2009

Cambiamento e innovazione: ma chi lo dice che non è un paese per vecchi?


Innovazione. Una parola che ci riempie la testa, un modo di pensare, di approcciarsi alle cose, di gustare e governare il cambiamento, senza subirlo, senza sentirsi obsoleti o pezzi di modernariato come un vecchio Commodore 64.
Giornalimo e innovazione, poi, appartiene al dibattito dell'anno con chi canta il De profundis, chi lancia la sfida della cross medialità (il giornalista che mette a disposizione la propria competenza per una serie di mezzi di comunicazione) e chi usa le regole per imbrigliare il presente (ma forse anche il sindacato dei giornalisti si è accorto che più professionisti sanno governare le nuove tecnologie, meno giornalisti finiranno per essere emarginati negli anni della crisi).
Uno spunto interessante di riflessione mi è arrivato da Mario Calabresi (neo direttore de La Stampa)e dall'ultimo capitolo del suo nuovo libro "La fortuna non esiste". Un ultimo capitolo che parla della caduta degli dei: di quei giornali che hanno contribuito a costruire il mito americano. "La più impressionate ma silenziosa caduta che ho incontrato nel mio viaggio americano - spiega -è stata quella dei giornali: un crollo senza eccezioni geografiche, che ha investito le due coste e messo a rischio di sopravvivenza bandiere dell'informazione come il "San Francsco Chronicle" o il "Boston Globe", mentre quotidiani come il "Los Angeles Times", il "Chicago Tribune" e il "Chicago Sun Time" hanno dovuto dichiarare bancarotta".
La prognosi è riservata per l'editoria mondiale, ma c'è chi ha saputo cambiar pelle, come il grande inviato americano che, partendo per l'ufficio di corrispondenza di Gerusalemme, scherza sul fatto che gli hanno fatto firmare quattro contratti al prezzo di uno: il quotidiano, un suo gemello dello stesso gruppo editoriale, il sito internet con video e audio.
Accanto a lui il premio Pulitzer David Remnick, direttore del "New Yorker" riflette: "Le cose stanno cambiando a una velocità incredibile e non sarebbe una tragedia se un giorno i quotidiani si leggessero solo sul video. Il problema è il modello di business: fino ad oggi nessuno ha avuto successo solo on line, la pubblicità in rete e molto meno redditizia e questo metterebbe in crisi la funzione che oggi hanno i giornali. L'ufficio del "New York Times" a Bagdad costa milioni di dollari l'anno, ma se non se lo fosse più potuto permettere avremmo saputo molto meno su questa guerra".
Ma il tema è anche un altro, spiega invece Seymour Hersh, 72 anni, portatore sano di scoop dal Vietnam ad Abu Ghraib: "Il problema è che le grandi corporation hanno preteso dai giornali utili del 20 per cento. Per anni hanno strizzato soldi dai quotidiani e ora che li vedono annaspare li buttano via. Dovremmo tornare al giornale di proprietà di una famiglia, che certo fa meno utili ma non pensa solo a quello, ci vuole una mentalità completamente diversa che riduca le aspettative e pensi a un nuovo modello di quotidiano. Ma noi siamo colpevoli di essere diventati troppo superficiali, approssimativi, asserviti e poco credibili".
Eccoci al peccato originale che forse è concausa di questo lento declino. Ogni innovazione ha un futuro ad un patto: la riconquista di una professionalità perduta. "Bisogna essere curiosi, affidabili, trasparenti e corretti. E se fai un errore devi ammetterlo e correggerlo il prima possibile" spiega Hersh. "Per fare un buon giornalismo non ci vuole un'intelligenza superiore ma tenacia" osserva David Remnick.
E l'innovazione? Siamo pronti a rinnovarci? Guardate questo video in cui Mario Calabresi parla dei suoi primi mesi a "La Stampa" e di innovazione. Buona riflessione.

giovedì 23 luglio 2009

La scuola, i giovani, la società

Invidio sempre chi con competenza, chiarezza, sintesi riesce a esprimere concetti forti e univoci, senza lasciarsi tentare dall'ecumenismo del "ma anche". Ho trovato su La Stampa di oggi questo commento sul sistema scolastico italiano, sulle carenze formative dei giovani e sul gap cognitivo che ne appesantisce le aspirazioni. Un invito all'autocritica schietto e sincero: anche per noi genitori, spesso disorientati peggio dei nostri figli. Da leggere...

Editoriali

La scuola ha smesso di insegnare
LUCA RICOLFI

Sulla scuola e l’università ognuno ha le sue idee, più o meno progressiste, più o meno laiche, più o meno nostalgiche. C’è un limite, però, oltre il quale le ideologie e le convinzioni di ciascuno di noi dovrebbero fermarsi in rispettoso silenzio: quel limite è costituito dalla nuda realtà dei fatti, dalla constatazione del punto cui le cose sono arrivate. Quale che sia l’utopia che ciascuno di noi può avere in testa, la realtà com’è dovrebbe costituire un punto di partenza condiviso, da accettare o combattere certo, ma che dovremmo sforzarci di vedere per quello che è, anziché ostinarci a travestire con i nostri sogni.

Queste cose pensavo in questi giorni, assistendo all’ennesimo dibattito pubblico su scuola e università, bocciature e cultura del ’68, un dibattito dove - nonostante alcune voci fuori dal coro - la nuda realtà stenta a farsi vedere per quella che è. La nuda realtà io la vedo scorrere da decenni nel mio lavoro di docente universitario, la ascolto nei racconti di colleghi e insegnanti, la constato nei giovani che laureiamo, la ritrovo nelle ricerche nazionali e internazionali sui livelli di apprendimento, negli studi sul mercato del lavoro. Eppure quella realtà non si può dire, è politicamente scorretta, appena la pronunci suscita un vespaio di proteste indignate, un coro di dotte precisazioni, una rivolta di sensibilità offese.

Io vorrei dirla lo stesso, però. La realtà è che la maggior parte dei giovani che escono dalla scuola e dall’università è sostanzialmente priva delle più elementari conoscenze e capacità che un tempo scuola e università fornivano.

Non hanno perso solo la capacità di esprimersi correttamente per iscritto. Hanno perso l’arte della parola, ovvero la capacità di fare un discorso articolato, comprensibile, che accresca le conoscenze di chi ascolta. Hanno perso la capacità di concentrarsi, di soffrire su un problema difficile. Fanno continuamente errori logici e semantici, perché credono che i concetti siano vaghi e intercambiabili, che un segmento sia un «bastoncino» (per usare un efficace esempio del matematico Lucio Russo). Banalizzano tutto quello che non riescono a capire.

Sovente incapaci di autovalutazione, esprimono sincero stupore se un docente li mette di fronte alla loro ignoranza. Sono allenati a superare test ed eseguire istruzioni, ma non a padroneggiare una materia, una disciplina, un campo del sapere. Dimenticano in pochissimi anni tutto quello che hanno imparato in ambito matematico-scientifico (e infatti l’università è costretta a fare corsi di «azzeramento» per rispiegare concetti matematici che si apprendono a 12 anni). A un anno da un esame, non ricordano praticamente nulla di quel che sapevano al momento di sostenerlo. Sono convinti che tutto si possa trovare su internet e quasi nulla debba essere conosciuto a memoria (una delle idee più catastrofiche di questi anni, anche perché è la nostra memoria, la nostra organizzazione mentale, il primo serbatoio della creatività).

Certo, in mezzo a questa Caporetto cognitiva ci sono anche delle capacità nuove: un ragazzo di oggi, forse proprio perché non è capace di concentrazione, riesce a fare (quasi) contemporaneamente cinque o sei cose. Capisce al volo come far funzionare un nuovo oggetto tecnologico (ma non ha la minima idea di come sia fatto «dentro»). Si muove come un dio nel mare magnum della rete (ma spesso non riconosce le bufale, né le informazioni-spazzatura). Usa il bancomat, manda messaggini, sa fare un biglietto elettronico, una prenotazione via internet. Scarica musica e masterizza cd. Gira il mondo, ha estrema facilità nelle relazioni e nella vita di gruppo. È rapido, collega e associa al volo. Impara in fretta, copia e incolla a velocità vertiginosa.

Però il punto non è se siano più le capacità perse o quelle acquisite, il punto è se quel che si è perso sia tutto sommato poco importante come tanti pedagogisti ritengono, o sia invece un gravissimo handicap, che pesa come una zavorra e una condanna sulle giovani generazioni. Io penso che sia un tragico handicap, di cui però non sono certo responsabili i giovani. I giovani possono essere rimproverati soltanto di essersi così facilmente lasciati ingannare (e adulare!) da una generazione di adulti che ha finto di aiutarli, di comprenderli, di amarli, ma in realtà ha preparato per loro una condizione di dipendenza e, spesso, di infelicità e disorientamento.

La generazione che ha oggi fra 50 e 70 anni ha la responsabilità di aver allevato una generazione di ragazzi cui, nei limiti delle possibilità economiche di ogni famiglia, nulla è stato negato, pochissimo è stato richiesto, nessuna vera frustrazione è mai stata inflitta. Una generazione cui, a forza di generosi aiuti e sostegni di ogni genere e specie, è stato fatto credere di possedere un’istruzione, là dove in troppi casi esisteva solo un’allegra infarinatura. Ora la realtà presenta il conto. Chi ha avuto una buona istruzione spesso (non sempre) ce la fa, chi non l’ha avuta ce la fa solo se figlio di genitori ricchi, potenti o ben introdotti. Per tutti gli altri si aprono solo due strade: accettare i lavori, per lo più manuali, che oggi attirano solo gli immigrati, o iniziare un lungo percorso di lavoretti non manuali ma precari, sotto l’ombrello protettivo di quegli stessi genitori che per decenni hanno festeggiato la fine della scuola di élite.

Un vero paradosso della storia. Partita con l’idea di includere le masse fino allora escluse dall’istruzione, la generazione del ’68 ha dato scacco matto proprio a coloro che diceva di voler aiutare. Già, perché la scuola facile si è ritorta innanzitutto contro coloro cui doveva servire: un sottile razzismo di classe deve avere fatto pensare a tanti intellettuali e politici che le «masse popolari» non fossero all’altezza di una formazione vera, senza rendersi conto che la scuola senza qualità che i loro pregiudizi hanno contribuito ad edificare avrebbe punito innanzitutto i più deboli, coloro per i quali una scuola che fa sul serio è una delle poche chance di promozione sociale.

Forse, a questo punto, più che dividerci sull’opportunità o meno di bocciare alla maturità, quel che dovremmo chiederci è se non sia il caso di ricominciare - dalla prima elementare! - a insegnare qualcosa che a poco a poco, diciamo in una ventina d’anni, risollevi i nostri figli dal baratro cognitivo in cui li abbiamo precipitati.




(Da "La Stampa" del 23 luglio 2009)

mercoledì 22 luglio 2009

Alcol ai minori e il decoro della città

Figlio 13enne (in vacanza al mare con l'oratorio): "Papà, sai, qui mi trovo benissimo. Anche i miei compagni di stanza sono simpatici. Sai, stasera facciamo un Coca-party".

Papà (non particolarmente perspicace a quell'ora e subito pronto a pensar male): ".... Come?"

Figlio (più sveglio del padre): "Ma cosa stai pensando, papààà... Coca- party vuol dire che adesso usciamo, ognuno si compra una lattina di Coca cola o di Pepsi e poi la beviamo insieme in camera prima di andare a letto".

Benedetti ragazzi....

(Dialogo telefonico realmente avvenuto, pubblicazione consentita prima della promulgazione della legge sulle intercettazioni telefoniche e prima che mio figlio mi mandi a quel paese perchè: va bene fare il giornalista, ma un minimo di privacy)


Strano paese l'Italia. Giocare a cricket in un campo è severamente vietato, vendere alcolici ad un adolescente abbondantemente tollerato.
Non si spiega altrimenti il motivo dello scalpore che una scelta saggia come quella del comune di Milano di vietare la vendita di alcolici ai minori di 16 anni abbia fatto tanto scalpore, scatendando accese discussioni. Sentirsi dire dal proprio figlio 13enne che qualche amico acquista al bar bevande alcoliche (sia pure quei long drink a base di rhum da 5 gradi) e birre senza troppi problemi, lascia un po' perplessi. Lascia soprattutto soli i genitori nella difficile impresa di far capire che l'abuso non è sinonimo di maturità, la trasgressione non è quella cosa che ti traghetta nel mondo adulto, che stordirsi d'alcol o di altro non è autonomia di pensiero ma omologazione: insomma, che non fa "fico" ma fa pecora.
Se poi il seme (per usare un'immagine bibblica) gettato dal volonteroso genitore finisce per inaridirsi far le spine e le rocce di un modello di società che scioglie valori e principi in un mojito, la battaglia (alla faccia della tanto sbandierata attenzione per la famiglia) diventa difficile e insidiosa come la lotta ai talebani. Insomma, la famiglia resta sola e gli alleati lo sono solo a parole. Il decoro di un città non si misura solo multando chi mangia nei parchi, ma grazie a chi a tutti i livelli opera scelte consapevoli a favore dei propri cittadini. E quale scelta è più consapevole (divieto o non divieto che sia) di far capire ad un adoloscente che consumare alcol a quell'età potrebbe rappresentare l'inizio di una dipendenza (per tacere della salute) dalla quale potrebbe essere difficile affrancarsi?

TESTIMONIANZE CHOC



martedì 21 luglio 2009

La fortuna non esiste


"Non importa quante volte cadi. Quello che conta è la velocità con cui ti rimetti in piedi"
Joe Biden


Il pregio delle vacanze è il dominio del tempo, e dominare il tempo permette di rendere proficua una passione come la lettura. Così in valigia è finita l'ultima fatica di Mario Calabresi (ex inviato di Repubblica negli Stati Uniti, giovane e promettente neo direttore della Stampa, autore, nel 2007, dello struggente "Spingendo la notte più in là" nel quale ha raccontato i tormenti delle vittime dimenticate del terrorismo, mondo che conosce bene essendo lui figlio del commissario Luigi Calabresi). "La fortuna non esiste", titola questo lavoro uscito per la collana "Strade blu" di Mondadori e racconta, in undici spaccati, il ritratto di un'America caduta nel baratro, di tante esistenze sepolte dalle fatiche e dalle tempeste quotidiane, di tante storie rinate nella fiducia di poter ancora costruire qualcosa, di poter ancora rientrare nel gioco della vita.
Non c'è solo l'America in saldo, quella della bufera immobiliare, della bolla speculativa, degli scatoloni sulle scrivanie pronte per essere abbandonate come il Titanic che affonda; c'è anche l'America che da a tutti una possibilità, la voglia di mettersi in gioco, lo spazio per i sogni e quello per il riscatto. C'è l'America che ha eletto un presidente Afro americano pronto a spiegare a tutti che... "Yes, we can".
Lungo le strade d'America, c'è l'ex uomo di successo che vive in un camper posteggiato ai margini della spiaggia e il premio nobel di "Beatiful mind", c'è Josef Cao, il primo vietnamita a diventare deputato al Congresso degli Stati Uniti, che dopo essere fuggito bambino da Saigon, ha nuovamente perso tutto con Katrina, l'uragano che ha spazzato via New Orleans e c'è anche Tammy Duckworth, che dopo la caduta dell'elicottero pilotato in Iraq si è rialzata su du arti artificiali per dire, a fianco di Obama, che si può rinascere anche se è dura.
Alla fine questo libro è un raggio di sole in un'estate difficile e a tratti tempestosa, un libro che porta un arcobaleno in cui qualcuno ha inciso una grande verità: "Ci vuole il coraggio di ripartire e di non farsi mai abbattere. La fortuna non esiste, la costruiamo noi ogni giorno"...




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domenica 19 luglio 2009

Quarant'anni fa l'uomo sulla luna. Ma sono veramente cadute tutte le distanze?


Quarant'anni fa l'uomo mise il piede sulla luna. Nottata indimenticabile e dal Lem di Apollo 11 fu scaricata una valanga di sogni che si persero negli oceani silenziosi e sabbiosi del satellite terrestre. Tante aspettative condensate in una sola parola: progresso. Tante distanze che sembravano sbriciolarsi in quel saltello di chi per primo lasciò la sua impronta fuori dal modulo lunare.
Son passati quarant'anni da quella notte, ne sono trascorsi la metà da quando cadde un'altro dei confini impenetrabili che sembravano legare il mondo: il muro di Berlino. Ma sono veramente cadute tutte le distanze dell'umanità?





sabato 18 luglio 2009

Se ne è andato Mario Venturini

E' morto questa mattina a Brescia dopo una luna malattia l'ex assessore comunale Mario Venturini. Per dieci anni si è occupato di urbanistica nella giunta del sindaco Paolo Corsini.
Ecco il ricordo breve e toccante di Laura Castelletti, già presidente del consiglio comunale di Palazzo Loggia: un ritratto efficace di un modo di fare politica di cui, in questi anni, si sente sempre più la mancanza.

Ciao Mario, il Nostro Assessore
sabato 18 luglio, 2009
scritto da Laura Castelletti in Pensieri in Libertà


Mario era unico, speciale, intelligente, sensibile, rigoroso, colto, affettuoso, timido, combattivo, sempre disponibile per un consiglio, mai agressivo, consigliere di letture profonde e mai banali. Non gli perdono solo quel berretto da “nano Cucciolo” che metteva per coprire la pelata delle chemio. Quanto ci abbiamo scherzato insieme. Mi fa male sapere che non ci sarà più. Mi fa male per me, per i tanti amici che non lo hanno mai lasciato (Mino, Claudio, Billy, Paolo, Ettore, Leo…), per la città che perde uno dei pochi pensatori colti in circolazione. Ognuno di noi porterà nel cuore immagini e sensazioni diverse. Nessuno riuscirà a parlare in questi giorni della morte con la lucidità, il bisogno di ricerca e serenità con la quale lui ce ne parlò lui quando fece quello splendido discorso davanti alla bara della giovane figlia di Mino e Cristina.

Ciao Mario.
(da www.lauracastelletti.it)

giovedì 16 luglio 2009

Uscire dalla crisi pensando alle persone...

Come si può uscire dalla crisi? E' la domanda che ci tormenta in questo caldo luglio fatto di bollini rossi per l'allarme afa e di picchi d'ozono. Non ho una risposta (se l'avessi e fosse efficace probabilmente non sarei qui a trastullarmi con questo blog) ma uno spunto di riflessione sì. Me lo ha offerto il solito Massimo Gramellini sulla Stampa partendo da un fatto di cronaca: il cliente di una banca che, esasperato per un prestito negato, spara alle gambe della direttrice della filiale.
Leggendo quella riflessione mi è tornato in mente un discorso che Bob Kennedy fece 41 anni fa e che ho risentito di recente. In quelle parole il tempo sembrava essersi fermato: era il 1968, ma sembra ieri...

Ecco cosa scrive Massimo Gramellini.

Buongiorno
16/7/2009 -

Non sparate sul bancario
L’altro ieri, a Settimo Torinese, il signor Giovanni ha gambizzato la signora Silvana, che gli aveva negato un prestito. Ieri diversi lettori hanno telefonato a La Stampa per dire: ha fatto bene. E a me è venuto un brivido. Ho scritto Giovanni e Silvana, invece che un «panettiere indebitato» e «una direttrice di filiale» perché ho l'impressione che si uscirà da questa crisi solo se smetteremo di trattare gli altri come dei simboli e ricominceremo a considerarli delle persone. Il piccolo imprenditore strozzato dalla mancanza di ordini non vede nel bancario la rotellina impotente di un meccanismo anonimo, ma il capro espiatorio perfetto. E il bancario, stritolato dalla gabbia dei regolamenti interni, non dialoga più con Francesco o Maria, con le loro storie e le loro capacità, ma con i clienti X e Y a rischio d'insolvenza. Ho saputo di un artigiano che si è visto rifiutare il pagamento di una bolletta di 8 euro perché il computer negava alla banca il permesso di pagare.

È questa rigidità arida che ci sta sfinendo. La solidarietà è diventata un dentifricio per sbiancarsi la coscienza, invece significa mettersi nei panni degli altri e smetterla di considerarli pedine intercambiabili, singole voci di una lista memorizzata in qualche archivio. Non siamo tutti uguali, al di qua dello sportello come al di là. Ci sono lo scansafatiche e il manigoldo: non meritano aiuto. E ci sono l'artigiano volenteroso e l'imprenditore che si indebita per non licenziare: questi vanno foraggiati strizzando anche un occhio, alla faccia dei regolamenti e delle griglie dei computer. Perché alla fine, porca miseria, siamo ancora esseri umani.

Massimo Gramellini
(La Stampa)



Ora la riflessione di Bob Kennedy in un video della trasmissione Report...

mercoledì 15 luglio 2009

Notizie dal carcere: è on line Zona 508


Cari amici che avete la costanza e un pizzico di autolesionismo per seguire questo blog permettetemi di farvi una segnalazione. E' disponibile on line (lo potete stampare in formato Pdf)il nuovo numero di Zona 508, periodico dalle carcere bresciane, un'esperienza editoriale in cui vesto gli immeritati panni di direttore responsabile. Un'esperienza umana che tutti quelli che fanno il mio mestiere, il giornalista, soprattutto dopo anni passati a scrivere di processi e delitti dovrebbero fare per dare un senso al loro raccontare, un calcio ai luoghi comuni, per dare un'anima a storie di drammi e, spesso, di ordinaria emarginazione. "Noi siamo spesso solo titoli di giornale" dicono i detenuti e proprio entrando in carcere si scopre che questi "titoli di giornale" da dietro alle sbarre hanno un'altra storia da raccontare, un'altra voglia da soddisfare: quella del riscatto. Ed è il mondo che, con l'aiuto prezioso di tanti volontari dell'associazione bresciana Carcere e territorio, vero motore dell'iniziativa, vuole raccontare Zona 508.
Cliccate qui per scaricare l'ultimo numero del giornale (oppure cercate il link qui a destra per accedere al sito dove troverete tutti i numeri della pubblicazione). Il tema del nuovo numero è quello dell'indifferenza raccontata da chi sta dietro le sbarre e da chi, quotidianamente, deve fare i conti con il mondo carcerario.
Sperando di non abusare della vostra pazienza, ecco il mio editorale sul tema...

L’indifferenza e la paralisi dell’anima

“Il peggior peccato contro i nostri simili non è l’odio ma l’indifferenza: questa è l’essenza dell’inumanità”. Ho preso in prestito questa frase di George Bernard Shaw perché mi pare che vesta bene questo nuovo numero di “Zona 508”, una pubblicazione nata proprio dalla voglia di abbattere un muro più spesso e robusto di quello che circonda il carcere di Canton Mombello: l’indifferenza, appunto.
Basta sfogliare i giornali, guardarci attorno, passare a memoria le immagini della campagna elettorale appena conclusa per capire quanto l’indifferenza sia parte integrante della nostra vita, della nostra scarsa voglia di metterci in gioco, della nostra pigrizia. Non è un caso che abbiamo mille ricette per rendere le nostre città più sicure, ma nessuno che ci dica come si combatte il male alla fonte, eliminando quelle sorgenti di disagio che, spesso, sono la molla di un comportamento criminale. In tanti ci dicono come ripulirebbero le strade dai criminali, pochi o nessuno ci spiegano come ritengono di risolvere quel problema, che sta alla base di molte condotte illegali e reiterate nel tempo, e che si chiama recidiva. Insomma ci si preoccupa troppo spesso dei rami della pianta e poco delle radici perché costa tempo e fatica entrare in profondità nei problemi: meglio coprirli, dunque, con un bello strato di indifferenza.
Così ci si preoccupa molto della pena come mera punizione, poco della pena in termini di riabilitazione, dove non basta cambiare un articolo del codice, mutare una legge, ma servono progetti, risorse, uomini e idee. Così dietro le sbarre l’indifferenza è come una muffa che copre la speranza, come la ruggine che inceppa un meccanismo che, al contrario, dovrebbe essere oliato ed efficiente per costruire un futuro senza la madre di tutti i mali: la recidiva. In questi anni si è fatto molto per vincere l’indifferenza: si è lavorato sull’educazione di chi sta fuori (partendo dal basso, dalle scuole, e incontrando un’attenzione che non ti aspetti) e sulle motivazioni di chi sta dentro (il polo universitario di Verziano ha laureato la sua prima studentessa che ha fatto un percorso, è giusto precisarlo per chi va ipotizzando l’ennesimo pretesto per una detenzione attenuata giustificata da frequenti uscite per ragioni di studio, tutto interno alla struttura carceraria), sulle istituzioni (la mobilitazione attorno al polo universitario è stata corale) e sulle persone (portando l’esperienza carceraria fuori dal perimetro detentivo e portando la gente a toccare con mano cosa voglia dire vivere all’interno di un carcere). Insomma si è lavorato sodo per costruire un ponte che superi il corso melmoso dell’indifferenza. Forse non sarà avveniristico come il ponte di Calatrava a Venezia, ma poggia su basi solide , su principi sani, su progetti condivisi.
Recentemente una tv locale di Brescia ha realizzato uno speciale dedicato al carcere. Un programma nel quale sono state cucite storie di ordinaria emarginazione, storie di delitti, pene e tentativi di riscatto. Racconti di un’umanità forte, storie di persone che si sentono spesso solo titoli di giornale, esecrati per un giorno e dimenticati il giorno successivo. Inghiottiti da una indifferenza che paralizza. In questo numero di Zona 508 abbiamo voluto conoscere la “bestia” e lo abbiamo fatto con lo stile di sempre: senza lamentazioni fini a se stesse, per essere protagonisti e non vittime. Protagonisti e non vittime come quella madre che ci ha scritto chiedendo di poter dare la sua collaborazione all’esperienza di “Zona 508”, per far conoscere la fatica di vivere di tanti genitori che condividono con i figli una pena che nessuno gli ha inflitto se non la forza dell’amore. Un altro importante colpo di piccone per abbattere il muro più robusto e più alto. Affinchè l’indifferenza non diventi, come ha scritto qualcuno, “la paralisi dell’anima, una morte prematura”.

Marco Toresini
(da "Zona 508" Giugno 2009)



Vale anche un pizzico di ironia per battere l'indifferenza...