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lunedì 31 maggio 2010

Legge bavaglio e chiavi per aprire le manette

Sarà anche una legge bavaglio per l'informazione e il diritto di essere informati, ma la legge sulle intercettazioni è anche la legge sulla "tolleranza zero" per chi vuole perseguire i criminali. Mi chiedo oggettivamente se l'opinione pubblica si sia resa conto cosa voglia dire questa legge in termini di lotta alla criminalità (a meno che per criminalità non si intendano solo scippatori e piccoli delinquenti), anche se la legge sulle intercettazioni è solo una delle tante mine che stanno rendendo friabili gli strumenti contro la delinquenza e il malaffare (mettiamoci pure le prescrizioni brevi, le ipotesi di reato come il falso in bilancio cancellate e tutto ciò che è stato creato nella galassia delle leggi ad personam). Non accorgersi di questo vuol dire finire in un gorgo che ci spinge verso una deriva preoccupante, dove l'impunità rischia di diventare una regola, ancor più di quanto succeda ora (dove l'impuntita, leggi prescrizione, è più legata a ragioni logistiche e mancanza di mezzi che all'inadeguatezza delle leggi).
Sì, direte voi, ma sulla legge "bavaglio" si è corsi ai ripari con una serie di emendamenti. A parte la schizzofrenia e la serietà di un parlamento che fa e disfa senza sapere dove vuole andare, leggetevi questo articolo del giurista Vittorio Grevi sul Corriere che come sempre dice delle cose che solo persone prive di buon senso o in malafede possono non condividere.

Già che ci siete ecco cosa ha scritto Grevi in questi mesi sulla nuova legge sulle intercettazioni.

Divieto di Pubblicazione degli Atti un Colpo al Diritto di Informare

Giusto impedire la «fuga di notizie» Ma le intercettazioni restano vitali



Ed ecco gli articoli di Luigi Ferrarella, sempre dal Corriere.

Meno segreti: così si tutelano i cittadini Servono regole, non sanzioni per tutelare il cittadino-lettore

Se la nuova legge fosse già in vigore neanche una riga sulla casa di Scajola


La Legge, i Giornali e la Tassa sulle Notizie


Buona lettura.

domenica 30 maggio 2010

Oggi a Brescia c'è solo il Brescia

Oggi a Brescia c'è solo il Brescia. La squadra di Gino Corioni che insegue la promozione in A da anni e l'atmosfera è quella da ultima chiamata: o questo campionato o mai più. E per uno che di calcio si intende meno ch di cucina molecolare?
Per non sbagliare... Forza Brescia.





Un tributo all'amico ciro

venerdì 28 maggio 2010

Piazza Loggia e "un fascio di bombe". Se il ricordo è a fumetti


Nel giorno in cui si ricorda la Strage di piazza della Loggia (28 maggio 1974), nel giorno in cui anche la maglia rosa del Giro d'Italia rende omaggio alle otto vittime della bomba, mentre a palazzo di giustizia a Brescia si celebra un processo carico di reticenze, ma importante perchè svela quali fossero in quegli anni i rapporti tra stato, servizi segreti e mondi dell'estrema destra, permettetemi di raccontarvi una storia.
E' la storia di un fumetto, si chiama "Un fascio di bombe" ed è un racconto vergato, nel 1975, da tre artisti del genere: Alfredo Castelli (il padre di Martin Myster), Mario Gomboli (bresciano di nascita, fra gli animatori di Diabolik), e Milo Manara (che non ha bisogno di grandi presentazioni). Nel 1975 il Psi commissionò quel fumetto che fu distribuito in 600 mila copie soprattutto nelle regioni bianche con uno scopo ben preciso spiegare agli elettori (la distribuzione avvenne in occasione di una campagna elettorale) in un racconto a fumetti la strategia della tensione. Così, partendo dalla Strage di piazza Fontana, le tavole si animano di adunate sediziose, vertici segreti tra uomini dello Stato e gruppi eversivi di destra, di Pinelli, Valpreda, Fanfani, generali e funzionari, fino ad un'immagine famigliare ai bresciani, l'orologio di Piazza Loggia e la nuvola di fumo di quel piovoso giorno di fine maggio.

Un fumetto che non sembra scritto nel 1975, ma che pare tratteggiato da un cronista che in questi mesi stra seguendo il processo di Brescia sulla Strage di piazza Loggia. "Ogni rassomiglianza di questo fumetto con persone viventi e vissute e con fatti realmente accaduti non è casuale, è volontaria" si legge in seconda di copertina del volume edito da Qpress che sotto la direzione di Giuseppe Peruzzo ne ha curato la ristampa integrale dell'edizione uscita nel '75 (fino ad ora riproposta solo in tiratura limitata tre anni dopo). "E' un'opera che segna una tappa fondamentale nell'impegno del fumetto come strumento di informazione" spiega l'editore che ha presentato il lavoro all'ultimo salone del libro di Torino (è qui, infatti, che mi sono imbattutto in questa opera).
Dopo aver letto quelle tavole, mi chiedo se questo non sia uno dei tanti campi da perlustrare assieme ai libri, agli incontri, ai lavori nelle scuole per perpetuare la memoria. Qualcuno, per la verità, ci sta già pensando.
Scrive il fumettista-disegnatore Matteo Fenoglio sul suo blog "Oggi  (giovedì 27 maggio, ndr) su l'Unità è uscito un fumetto mio e di Francesco (Francesco "Baro" Barilli, ndr). E' una tavola pensata per il giorno della memoria sulle vittime del terrorismo, ma inquadrata nell'anniversario di Piazza della Loggia e della morte di Walter Tobagi, il 28 maggio. E' da alcuni mesi che con Francesco seguiamo le udienze del processo tuttora in corso. Stiamo seriamente pensando di farci un fumetto, un po' per chiudere l'esperienza di Piazza Fontana, un po' perchè ci siamo vivamente e umanamente appassionati alla vicenda. Sarà una cosa diversa dal fumetto precedente, più ampia, più personale, forse più riflessiva. Ma è ancora presto per parlarne".
Sarà ancora presto per parlarne ma auguriamo a Matteo di poter coronare il proprio progetto: sarà un altro importante mattone per costruire la nostra memoria collettiva.

Ecco la tavola comparsa sull'Unità sulla strage di Piazza Loggia (cliccaci sopra per ingrandirla e leggerla).


mercoledì 26 maggio 2010

Intercettazioni e memoria corta: la storia di una telefonata del 2005

La notizia è di ieri: un uomo, Fabrizio Favata, è finito i carcere con l'accusa di estorsioni ai danni di un manager di una società (Roberto Raffaelli, pure indagato) che si occupa di curare le intercettazioni telefoniche per alcune Procure italiane, per averlo minacciato di rivelare la storia vera di una telefonata intercettatta nel 2005 tra Giovanni Consorte, ex numero uno di Unipol, e Piero Fassino, allora segretario dei Ds, e finita sulle colonne del Giornale della famiglia Berlusconi. In quella telefonata Fassino fu messo al corrente da Consorte dell'iniziativa di Unipol di lanciare un'Opa su Bnl e il segretario Ds se ne uscì con la famosa frase: "Allora, abbiamo una banca?".
Nulla di penalmente rilevante in quella conversazione, che al momento in cui venne diffusa non solo non era stata depositata negli atti del procedimento contro Consorte, ma non era ancora nemmeno stata trascritta per essere utilizzata dai magistrati. Era però, secondo le accuse, già finita su una pen-drive in un file audio fatto ascoltare dal manager ora ricattato alla famiglia Berlusconi (ecco la ricostruzione che ne fa Repubblica) per ottenere favori per un affare in Romania (allora governo amico di Berlusconi).
La magistratura ci dirà come siano andate le cose, certo è che quella telefonata dagli effetti politici di un certo peso, è finita, usata come una clava sulle colonne del quotidiano della famiglia Berlusconi, che l'ha ricevuta in forma anonima.
Insomma, coloro che oggi sono tra i più accesi sostenitori di una legge che chiude i rubinetti sullo strumento investigativo delle intercettazioni telefoniche e imbavaglia la stampa, decretando la fine della cronaca giudiziaria, non hanno esitato ad utilizzare una intercettazione, peraltro in quel momento non contenuta in alcun atto processuale (come invece le intercettazioni della cricca di Anemone), per semplice strumentalizzazione politica. Ciò che si vuole bloccare ora, insomma, era pienamente lecito e disinvoltamente utilizzabile meno di cinque anni fa. Se questa è la politica in Italia e il rispetto che si ha per gli italiani, forse ha ragione Elio Germano.

Quattro formaggi e la classe dirigente

« Siccome i nostri governanti in Italia rimproverano sempre, al cinema, di parlare male della nostra nazione, io volevo dedicare questo premio all' Italia e agli italiani, che fanno di tutto per rendere l'Italia un paese migliore nonostante la loro classe dirigente. »
(Elio Germano dopo la vincita del premio come miglior attore al Festival di Cannes 2010)



"Quattro formaggi" l'ha fatta grossa. Il piccolo attore con casa non in piazza di Spagna ma al Corviale (periferia pasoliniana della grande Urbe)  ha detto ciò che pensano in tanti. "Quattro formaggi" è stato schietto come schietto e genuino può essere solo uno classe 1980, nè vecchio nè giovane per questa società che se non riesce ad assoldarti ti espelle. "Quattro formaggi" è fatto così. E' come un bambino: vive di grandi miti tanto da inginocchiarsi davanti a Xavier Bardem, e di grandi incazzature tanto da dedicare il premio appena vinto (la palma d'oro come migliore attore, mica un premio qualunque) agli italiani e non alla sua classe dirigente. E allora apriti cielo, nessuno a chiedersi il perchè di tale affermazione, ma tutti a sparare bordate su "Quattro formaggi" con le tiritere di sempre ("critica, ma poi i film li fa con i soldi dello Stato"; "il solito radical chic del cavolo", "Sembreva simpatico fino a quando non ha vinto Cannes"). Eccheccavolo! E la libertà di parola, di espressione e di opinione.Invece di chiederci se siamo veramente ridotti così male, tutti in fila a dire: il solito "Quattro formaggi". Sì perchè Elio Germano, attore, ha legato il suo nome (nel film "Come Dio comanda", 2008, di Gabriele Salvatores) ad un personaggio strano, matto e visionario per un infortunio sul lavoro, che si chiamava, appunto, "Quattro formaggi", come la pizza che amava tanto e che sgranocchiava appena aveva una manciata di spiccioli in tasca.
Ora che "Quattro formaggi" (nella foto) ha messo lo smoking se prima faceva simpatia ora fa scandalo, perchè l'Italia è così, come molti suoi telegiornali: mai turbare il manovatore, mai dire, magari sbagliando, che il re è nudo, mai fare un passo verso la sincerità perchè se prima eri geniale ora sei semplicemente "matto".
Non è, insomma, un'Italia per "Quattro formaggi". Non tanto per la sua classe dirigente sciatta e poco capace, quanto (è qui, per me, sta il vero dramma) per una società forse non in grado, al momento, di esprimerne una diversa.










venerdì 21 maggio 2010

Che dire? Forza Prandelli

"Dì pure a Prandelli  che se vòle, noi qui a Firenze lo si fa pure sindaco"
Colloquio tra un mio amico di Orzinuovi e un suo collega di Firenze
Scusatemi l'intervento per fatto personale, ma le notizie che vogliono Cesare Prandelli alla Nazionale, da conterraneo non mi lasciano indifferente. Non sono amico di Prandelli, ma di lui ricordo le partite del lunedì all'oratorio sotto casa con Antonio Cabrini e altri lombardi della Juve. Non ho fatto mai grandi discorsi con lui se non un fugace cenno di saluto quando ci si incrocia in un paese che sta tutto intorno ad una piazza. Non ho quindi scoop da vendervi, esclusive di corridoio da propinarvi. Mi piace, però, l'idea di un Prandelli specchio e ambasciatore del nostro calcio, di un Prandelli che riesca a fare quei discorsi e quelle scelte fino ad ora fatti in squadre di club anche in una vetrina di prestigio come quella di una Nazionale titolata qual è la nostra. Di un allenatore che sappia lavorare bene fuori e dentro il campo e in un calcio con qualche problema come il nostro questo non è secondario. «I giovani in lui vedono un punto di riferimento non solo per quello che fa sul campo, ma anche per il comportamento fuori. Cesare privilegia sempre il lato umano» racconta Luciano Zanchini oggi a Vincenzo Corbetta su Bresciaoggi. E forse questo è il valore aggiunto del cambiamento in un ambiente dove sì, contano i risultati, ma anche lo stile puo aiutare.
Prandelli è l'uomo giusto, scrive Emanuele Gamba su Repubblica.it perchè: "Stile, etica, qualità professionali, virtù morali: sono quattro ottimi motivi per sperare che Cesare Prandelli diventi il cittì della nazionale italiana e di tutti i tifosi italiani. Molti dei suoi predecessori, che abbiano vinto o perso o entusiasmato o deluso, hanno soprattutto diviso, magari appoggiando sulle divisioni la leva della loro forza. Prandelli promette di unire perché nella sua carriera non ha mai alimentato odio ma offerto rispetto, non ha cercato lo scontro ma il confronto ed è riuscito a farsi apprezzare per ciò che faceva (a Parma e a Firenze soprattutto) ma anche per come lo faceva, per quello che diceva ma anche per come lo diceva. È abbastanza giovane per imporre una ventata di novità, è abbastanza esperto per resistere nel frullatore dentro il quale viene sballottato ogni cittì, ha sufficiente personalità per gestire i capricci dei giocatori e sufficiente carisma per farsi ascoltare anche da quelli un po’ duri d’orecchie. Alla nazionale non s’è mai candidato, ha anzi quasi subito il peso di questa candidatura, finendo per accettarla perché una serie di circostanze, e di coincidenze, lo hanno spinto verso la panchina azzurra senza che la sua smania di arrivarci sia stata la principale: anche questo può essere un punto a suo vantaggio. Dovrà però imparare a selezionare, invece di allenare: quello del cittì è un mestiere diverso e Prandelli, abituato a migliorare e migliorarsi attraverso i dettagli della quotidianità, sa che dovrà cambiare qualcosa di se stesso, dei suoi metodi, dei suoi progetti e anche dei suoi sogni. Di conseguenza, sarà fondamentale la sua capacità di imparare un lavoro nuovo. E il suo motto potrebbe essere: l’unità fa la forza".
Mi sembra un'ottima sintesi di questa storia di Cesare Prandelli in azzurro e chissa che un giorno non incontri anch'io, come è accaduto ad un mio amico con un collega di Firenze, un Italiano che mi dica: "Dì pure a Prandelli che se vuole, noi italiani lo facciamo anche presidente della Repubblica". E se l'alternativa è Silvio Berlusconi, allora da orceano non mi resta che gridare: "Forza Cesare". Comunque vada.

mercoledì 19 maggio 2010

Voglio sperimentare, ma con la buonuscita di Michele Santoro

Lasciatemi sperimentare, lasciatemi raccontare un mondo che fatica, lasciatemi raccontare pressioni e censure, lasciatemi percorrere le nuove frontiere dell'informazione, le strade del web e quelle dei nuovi media. Lasciatemi essere finalmente cross-mediale, sempre e comunque contro, azzannare ai polpacci il potente, far la pipì all'angolo di palazzo Grazioli, spaventare e ringhiare contro vallette e veline.
Lasciatemi liberare la creatività che è in me. Ma con la buonuscita e lo scivolo di Michele Santori, please.

Ripassando Edoardo Sanguineti

"Chi si guarda dal politico che, come iena temibile, va barzellettando, si avvia, per questo stesso fatto, sulla lunga strada della libertà. Dai leoni non è difficilissimo guardarsi, per noi, poveri uomini, ma dalle volpi amene occorre prendere prontamente le distanze, con quell’onestà decorosa che giova al buon cittadino".
Edoardo Sanguineti (1930 - 2010)
Quando se ne va un poeta è sempre come se l'umanità perdesso un po' del suo sentimento, fatto di sorrisi, di angosce e di riflessioni. Edoardo Sanguineti era una persona acuta che accanto alla poesia era capace di analisi profonde e talvolta irriverenti (come quella che puoi leggere cliccando qui) che aiutavano a pensare e a capire. Se ne è andato per un umanissimo aneurisma e forse ora è il momento di un piccolo ripasso. Di rileggere quello che è stato per comprendere ciò che abbiamo perso.





lunedì 17 maggio 2010

Nati per leggere: reportage

Siamo partiti in "missione", sabato, al Salone del libro di Torino: Matteo a caccia degli ultimi fumetti di una collana edita da una casa editrice toscana, Luca con l'intenzione di sfidare i "professionisti" allo stand di Magic, gioco di carte e di mostri, Serena a caccia di Gianrico Carofiglio e il suo ultimo libro, io armato di macchina fotografica perchè mi sono detto: perchè non fare un "safari" fotografico per il mio blog?
Come al solito ad andare al salone del libro un rischio c'è: finire mezzi annegati sotto una cascata di libri e di proposte, da una performance al pianoforte di Stefano Bollani, al dibattito con Maurizio Costanzo. Non mancano gli scontri generazionali: così se padri e madri si assiepano attorno a Bud Spencer che ha presentato il suo libro, le figlie e i figli non hanno occhi che per Luca Jurman, il maestro della voce di "Amici".

VISTI AL SALONE DEL LIBRO...

giovedì 13 maggio 2010

Salone del libro 2010. Il piacere di leggere

Le statistiche dicono che sono 25 milioni gli italiani che nel 2009 hanno letto un libro (si è passati dal 44 al 45,1%): una statistica in crescita che suona come una speranza. Una speranza che fa da sfondo alla 23esima edizione del Salone internazionale del libro di Torino che ha come tema la Memoria e come al solito, da oggi al 17 maggio al Lingotto, sfodera una serie di ospiti illustri da garantire agli appassionati giornate intense e cariche di appuntamenti imperdibili. Insomma: un fine settimana carico di emozioni.

APPROFONDIMENTI

ECCO LO SPECIALE ON LINE DE L'ESPRESSO SUL SALONE


IL PROGRAMMA



IL BACK STAGE



Da Roma all'alto Garda se questa è l'Italia

Ora, a Roma, spunta anche la lista dei piaceri, il libro mastro degli amici degli amici: case, lavori, favori; politici, artisti, registi, boiardi di stato. Tanto tuonò che piovve sulle colline dell'alto Garda, dopo le perquisizioni e i sequestri ora gli arresti, le misure cautelari mentre qualcuno già dice che siamo solo all'inizio, che volano gli avvisi di garanzia, pronti a colpire in alto: chi sapeva, ma ha coperto o fatto finta di non vedere.
A Roma come a Tremosine (l'arrestato ai domiciliari sull'Alto Garda è il sindaco di questo piccolo comune, pizzicato dalla giustizia nel suo ruolo di funzionario della Comunità montana) questa è l'Italia del terzo Millenio. La giustizia dirà nei prossimi mesi cosa ci sia di penalmente condannabile in questi comporamenti, certo è che il 1992 e gli anni di Tangentopoli non sembrano aver insegnato nulla, al centro come alla periferia. Anzi, se prima si rubava per partiti onnivori e affamati, ora si rischia per il funzionario compiacente, il politico influente, l'amico dell'amico, non meno onnivoro e goloso. Insomma, forse non abbiamo imparato nulla in questo mondo di furbi senza etica (ma si usa ancora questa parola, qualcuno vorrebbe concellarla dal vocabolario?). Al centro come alla periferia contaminati dalla stessa morale all'incontrario. Riusciremo mai ad uscirne. La prognosi non sembra favorevole, fin quando avremo politici alla Scajola che prima annunciano le dimissioni per poter chiarire tutto e poi, quando scocca l'ora (dieci giorni dopo) tirano in ballo, tramite i legali, il mancato rispetto delle garanzie difensive per sottrarsi alla prova della verità, alla chiarezza. Cosa c'è di più avvilente?

mercoledì 12 maggio 2010

La nazione e la Nazionale....

Pontificare di calcio non è il mio mestiere, per questo affido al Buongiorno di Gramellini di oggi discutere di Lippi e della Nazionale. Una valutazione che mi trova d'accordo su una cosa: forse questa Nazionale è come lo specchio di una nazione, di un'Italia che non premia talento, fantasia e personalità. Del resto che pretendere da una nazione che ieri ha incoronato in consiglio regionale Renzo Bossi e Nicole Minetti, uno perchè è il figlio del "capo", come lo chiama Luca Zaia, l'altra perchè è l'igienista del premier Silvio Berlusconi e ha un passato da ballerina a Colorado. Giusto ieri sera ho visto un documentario illuminante: si chiama "Videocracy - Basta apparire" opera svedese del 2009 di Erik Gandini sul potere della televisione in Italia. Quando il film uscì fece scalpore perchè Rai e Mediaset si rifiutarono di mettere in onda il trailer. Ora capisco perchè: è la prova provata che l'Italia non è il paese che premia, talento, fantasia e personalità...





martedì 11 maggio 2010

Lucareli, Galli, la strage, il sangue e la memoria

Carlo Lucarelli, emiliano romagnolo di Faenza, classe 1960, ricorda la strage di Bologna, rivede quelle drammatiche immagini televisive del 2 agosto 1980, nelle cicatrici di tanti amici che, quel giorno, erano alla stazione in attesa di un treno che li avrebbe portati in vacanza.
Alessandra Galli, milanese, classe 1960, oggi magistrato, rivive l'uccisione, ad opera dei terroristi "rossi" di Prima linea, del padre Guido Galli, giudice istruttore al Tribunale di Milano e docente di criminologia alla Statale di Milano, nel ricordo, quel 19 marzo 1980, di una corsa a perdifiato fino al secondo piano della facoltà di Giurisprudenza (lei giovane studentessa di legge, stava seguendo le lezioni due rampe di scale sotto), e in quel ciuffo di capelli tanto famigliare su quel corpo a cui, gli assassini, avevano inferto anche il colpo di grazia alla nuca.
La memoria siamo noi, siamo noi e la nostra volontà di ricordare e capire, di trovare le storie semplici all'interno di trame aggrovigliate come nidi; di recuperare i fatti dalla muffa dei depistaggi e delle interpretazioni politiche. Carlo Lucarelli, che di professione fa il giallista e cura molti programmi televisivi e radiofonici, ha parlato di memoria ieri a Brescia: al mattino agli studenti, in serata, accanto ad Alessandra Galli, a quanti (sempre troppo pochi, purtroppo)  hanno voluto aderire ad una iniziativa della Casa della Memoria di Brescia in occasione della giornata in ricordo delle vittime di stragi e terrorismo  . Agli studenti Lucarelli aveva detto di allenare la memoria informandosi sulle stragi  e sulla strage di Brescia, il cui processo è in corso da tempo in Corte d'assise e che sta facendo opera di sintesi, attraverso le parole dei protagonisti, della "Strategia della tensione" che va da Piazza Fontana a Milano alla Stazione di Bologna. Agli adulti, in serata, ha ricordato come l'Italia sia un paese strano che tra mafia e terrorismo ha un morto da ricordare quasi per ogni giorno dell'anno e come in ogni caso, in ogni delitto o in ogni strage, ci sia un pezzo mancante, dall'agenda rossa di Borsellino, ai reperti preziosi lavati via da piazza Loggia la mattina del 28 maggio '74 per ordine di un vicequestore di polizia.
"E' un paese strano - ha ribadito lo scrittore, riferendosi anche ai 13 episodi accertati di depistaggio e finiti con delle condanne relativi a quegli anni - in cui i servitori dello Stato si comportarono come nei gialli si muovono gli assassini: nascondendo dei pezzi importanti per arrivare alla verità". La deposizione di Gianaledio Maletti , generale del Sid, condannato, latitante e riparato in Sudafrica, è ancora fresca di verbale al processo di Piazza Loggia, così come gli ammonimenti del presidente della Corte per "invitare" a fare ordine nei ricordi i carabinieri che in quegli anni erano i più stretti collaboratori dell'ex generale Francesco Delfino. Si sapeva - ha spiegato Maletti - che sarebbe successo qualcosa a Brescia, ma lo Stato non ha reagito, non ha prevenuto. "La nostra memoria - ha ribadito Lucarelli - deve indignarsi per questo, lo deve fare ogni giorno, deve attivarsi, fare pressione, far discutere. Cercare di far capire che le stragi degli anni '70 fanno ancora notizia. E poi fra un anno dobbiamo ritrovarci per capire se è cambiato qualcosa. Altrimenti queste Giornate della Memoria sono giornate senza un senso".
Ma ormai, ha osservato ieri sera qualcuno dalla sala, non ci si indigna più nemmeno se un politico senza memoria promette proiettili per le toghe (frase che raggelò, quando fu pronunciata, il sangue di Alessandra Galli). "C'è sempre qualche studente, quando vado nelle scuole - ha spiegato Lucarelli - che mi dice, alla fine di tutto e davanti agli inutili sforzi per arrivare alla verità: "Ma allora avevano ragione quelli che sparavano e mettevano le bombe". Ecco, dobbiamo lavorare sulla memoria, quella collettiva come quella individuale, perchè un domani non ci sia più uno studente che faccia riflessioni di questo tipo, perchè lui stesso capisca che no, non avevano ragione".
Coltivare la memoria per capire e far capire quanto quella stagione fosse una stagione a perdere, senza futuro. Coltivare la momoria per non ricadere negli stessi errori.  "Vedo tanta rabbia in giro - ha osservato Lucarelli -, rabbia strana, anche se penso che rispetto a quegli anni vedrei in azione più serial killer terroristichi che assassini inseriti in organizzazioni. Certo è che se continuiamo a non dare alcune risposte, il pericolo che ritorni una tensione simile a quegli anni non è poi così lontano".

CARLO LUCARELLI E LA PUNTATA SU PIAZZA LOGGIA A BLU NOTTE

lunedì 10 maggio 2010

Cultura, veline e analfabeti di ritorno

Quanto investiamo realmente in cultura, non dico in grandi eventi, ma in scuole, docenti, progetti? In Italia, lo dice Eurostat (dati 2006) veniamo dopo Lettonia e Lituania per percentuale sul Pil destinato alla spesa pubblica per la formazione. E non è solo una questione dello Stato, visto che le famiglie spendono per ricreazione e cultura percentuali sotto il 6 percento del loro bilancio famigliare (assai meno di Estonia e Slovacchia). Insomma, per gli esperti (c'è una bella analisi in proposito sull'ultimo numero dell'Espresso) stiamo costruendo come cittadini e come classe dirigente un futuro sempre più ai margini della stanza dei bottoni perchè senza cultura, senza investimenti in formazione e istruzione si perde la sfida nella modernità e nell'innovazione.
Siamo analfabeti di ritorno: conosco laureati che bisticciano con i congiuntivi e faticano a capire quando usare la "ha" con l'acca. Capisco quando la professoressa di mio figlio insiste a valutare l'ortografia anche nelle verifiche di storia e geografia, sfidando i mugugni generali. Troppo abituati ai dibattiti di "Uomini e donne" siamo spesso incapaci a mettere insieme mezza cartella di idee senza ingaggiare un match con la correttezza lessicale. La qualità è un optional, la cultura e l'istruzione sono un orpello  che non paga e che quindi è inutile: meglio analfabeti con i soldi (magari in nero) che laureati che faticano ad arrivare alla fine del mese. Così diventiamo sempre più ignoranti e anche chi ci governa ha da tempo abbassato l'asticella della qualità professionale e culturale e spesso la laurea non è più sinonimo di buona preparazione (mi capita di leggere lettere di giovani procuratori legali che sono un insulto ai fondamentali del diritto appresi non dico all'università, ma al quarto anno di un istituto tecnico).
Insomma, anche culturalmente stiamo andando alla deriva e i nostri politici continuano a spendere parole senza senso invece di spendere risorse, idee, impegno. Tempo fa ho sentito un professore di lungo corso pedere le staffe davanti ad una intervista nella quale il ministro Gelmini spiegava di aver tagliato gli insegnanti per poter pagare meglio i docenti più bravi. Fino ad ora - osservava - l'insegnante "la mia busta paga è rimasta quella di sempre, quella donna mi sta tirando in giro". Non così il mondo della scuola che non ha più  - letteralmente - "gli occhi per piangere", soldi in cassa e docenti per fare uno straccio di progetto. Ma nel mondo delle veline e degli analfabeti di ritorno forse a qualcuno va bene così. Va bene un'Italia ignorante che frana verso quello che una volta chiamavano con un pizzico di superiorità: terzo mondo.

venerdì 7 maggio 2010

Pedofilia a Brescia: la parola fine che lascia tutti sconfitti e gli errori da non ripetere

La notizia è uscita nel cuore della notte: la Cassazione ha confermato l'assoluzione nei confronti di otto imputati (un sacerdote, sei maestre e un bidello) accusati di abusi sessuali su alcuni bambini di una scuola materna del quartiere Carmine di Brescia. I giudici della Suprema Corte hanno chiuso definitivamente un fasciolo aperto da sette anni, con tre processi, innumerevoli ricorsi e un anno di carcerazione preventiva per due maestre. Una vicenda che aveva diviso la città  tra strumentalizzazioni politiche, mobilitazioni su entrambi i fronti e tanta, tanta confusione, spesso alimentata ad arte sulla pelle di presunte vittime e dei presunti carnefici.
Ho avuto modo di conoscere sufficientemente a fondo questa storia, gli atti processuali e i suoi protagonisti per dire che la parola fine sancita dalla Cassazione ha lasciato dietro di sè solo macerie. Le macerie di famiglie finite (non ho elementi per dubitare della loro buona fede) in un vortice che i giudici non hanno trovato altro modo che definire di psicosi collettiva. Le macerie di una vita distrutta e di sette anni di inferno di chi è finito da imputato nel tritacarne di questo processo, è stato incarcerato o aggredito per strada semplicemente perchè la tensione era talmente alta che in tanti su questa storia hanno mandato al macero la propria coscienza e il proprio autocontrollo.
A nessuno di loro potrà essere restituita la tranquillità rubata in questi sette anni, rapiti da una storia da paese degli orchi che con qualche apriorismo di meno e spirito critico in più avrebbe forse potuto essere disinnescata molto prima. Penso alle maestre finite in una cella del carcere di Verziano per un reato (l'abuso su minori) dove da quelle parti non fanno sconti. Penso a loro e alle parole di una ormai ex detenuta che un giorno mi disse: "All'inizio eravamo diffidenti nei loro confronti, poi quando le abbiamo conosciute meglio abbiamo scoperto delle persone fantastiche, che hanno saputo aiutarci anche nella loro difficoltà. Qui dentro non si mette la mano sul fuoco per l'innocenza di nessuno, ma, conoscendole, sono pronta a scommettere che loro con la pedofilia non c'entrano".
Sì, perchè, scorrendo gli atti di questa storia (in pratica si è ipotizzato l'esistenza di una sorta di organizzazione grazie alla quale i bambini venivano portati fuori dall'asilo per diventare protagonisti di feste a sfondo pedopornografico) si arriva ad una conclusione che non lascia spazio a sfumature: o è una di quelle vicende di depravazione collettiva da chiudere tutti in carcere e buttar via la chiave o è una ricostruzione dei fatti talmente suggestiva da non essere credibile. Una vicenda simile, dunque, avrebbe dovuto presentarsi davanti ad un tribunale (per rigore professionale nei confronti di tutti) talmente blindata e completa da non lasciare spazio ad interpretazioni alternative. Invece gli atti dicono il contrario, parlano di zone d'ombra non secondarie che non sono state colmate, come se al puzzle dell'orrore mancassero i pezzi principali, come il movente per un comportamento tanto depravato o i riscontri oggettivi fatti di luoghi, mandanti, fruitori finali di questo mercato pedopornografico (appurato che gli indagati avrebbero, secondo l'accusa, rappresentato il mezzo di promozione di questi abusi, chi erano gli autori e gli spettatori delle violenze?)
Lacune non secondarie sulle quali qualcuno dovrebbe fare qualche esame di coscienza. "Si sono sentire cose fuori controllo sopratutto da parte dei professionisti dell'anti pedofilia - lamentano gli avvocati degli imputati che ieri hanno rotto la consegna del silenzio -. C'è stato poca attenzione per gli imputati-vittime e poi poca professionalità dei pm che hanno insistito a dispetto dei fatti provocando un danno irreparabile di professionalità e levando sette anni di vita a persone innocenti. Se come primo filtro non c'è la professionalità dei pm che rinunciano all'approccio critico che sarebbero chiamati ad avere tutti i processi posssono durare tanto a lungo". La critica si fa ancora più circonstanziata: "i pm non si sono preoccupati di evitare di portare avanti accuse infondate cercando nella fase preliminare prove a contrario". Contestazioni pesanti che, sette anni dopo, restituiscono tutto il clima respirato a Brescia ai tempi dell'inchiesta, un clima che ha creato solo macerie, lacerazioni, psicosi al limite del ridicolo (negli asili si arrivò a vietare le uscite e le foto alle feste di fine anno). Contestazioni che invitano un po' tutti (anche noi giornalisti, che su storie come queste dobbiamo usare un rigore doppio) ad una riflessione pesante perche certi errori non si ripetano. Sul fatto che qualcuno faccia autocritica, che qualcuno, quanto meno, corregga l'approccio al problema non ci conterei molto (ad iniziare, ripeto, dalla mia categoria). Una prova: i silenzi dei politici che allora chiedevano la testa di mezza giunta cavalcando il disagio e la tiepida presa d'atto di chi in quei giorni era a fianco, da esperto, alle famiglie dei bambini.

giovedì 6 maggio 2010

Il dibattito sulle carceri: ma quanta confusione

Leggo sui giornali: Maroni è scettico sul provvedimento svuota carceri del Ministro Alfano che prevede la possibilità per i detenuti di scontare in detezione domiciliare l'ultimo anno di pena. "Peggio dell'indulto" dice il ministro leghista. "Nessuno tornerà libero" ribatte il responsabile della Giustizia. Maroni da reggente degli Interni, quindi responsabile delle forze di Polizia, spiega come sia difficile un efficace controllo a tappeto dei detenuti a casa. Un dibattito che forse i ministri avrebbero dovuto fare a Palazzo Chigi al momento in cui si è parlato del provvedimento, ma si sa che la propaganda, sopratutto per chi sulla paura miete consensi, può essere più forte del buon senso. Certo è che la confusione, in tema di carcere, regna sovrana dalle parti dell'esecutivo, al di là della politica degli annunci. Viene da chiedersi, ad esempio: che fine ha fatto il "piano carceri"? E il tanto pubblicizzato braccialetto elettronico, costato undici milioni di euro l'anno?
A mettere un po' d'ordine, sul Corriere ci ha pensato il solito Luigi Ferrarella ricordando che solo 4 detenuti su mille che beneficiano delle pene alternative violano le condizioni imposte dalla misura, mentre tornano a delinquere, a pena alternativa scontata, il 19%, contro il 67% dei casi di quelli che scontano l'intera condanna in cella. Le pene alternative, quindi funzionano anche se chi ci governa da sempre pare non accorgersene, visto che lo stanziamento nel bilancio della giustizia è solo di un misero 2%, mentre a questo settore si dedica solo il 3,5% del personale. Ovviamente numeri che ci collocano abbondantemente lontano da paesi come Francia e Inghilterra. Tutto normale in un Paese dove si pensa di curare la sicurezza con una sola medicina: il carcere.

Antigone, rapporto carceri 2009

mercoledì 5 maggio 2010

Quando ci vogliono giornalisti impiegati... il caso Scajola

Ieri discutevamo di giornalisti-giornalisti e di giornalisti-impiegati, oggi sul Corriere della sera mi ha colpito una foto a scavalco tra pagina due e pagina tre. E' la foto di una sedia vuota e di un grappolo di microfoni orfani dell'interlocutore: il ministro Scajola che dopo aver annunciato le sue dimissioni non ha voluto rispondere alle domande dei cronisti.
Insomma: ci vogliono giornalisti - impiegati, magari di quelli che hanno anche un filo di compassione per quel ministro che, a suo dire, è finito vittima di una macchinazione. Insomma ci vogliono giornalisti flautati come Bruno Vespa al quale l'ormai ex ministro ha affidato le sue considerazioni senza riuscire a convincerci fino in fondo della sua buona fede, tenendo conto che un politico del suo calibro dovrebbe attivare una serie di "procedure di sicurezza" per non prestare il fianco a comportamenti che un domani potrebbero rivelarsi fonte di potenziali ricatti, o, quanto meno, di attacchi politico-giudiziari.
I giornalisti-giornalisti, invece, ci hanno raccontato di un gruppo d'affaristi senza scrupoli che tra massaggi, regali e altro ancora cercavano di tenere in scacco una classe politica con l'asticella dell'etica un po' troppo bassa per una paese come l'Italia dove il senso della correttezza è come l'aria condizionata sulle auto di un tempo: un optional.
E i giornalisti-giornalisti come Luigi Ferrarella sul Corriere suonano già un campanello d'allarme su come vogliono impiegatizzare (scusate il neologismo) la stampa italiana. "Con la nuova legge neppure una riga sul caso Scajola" avverte Ferrarella nel suo commento che mette in luce come sarebbe stata vietata ogni indiscrezione sul caso anche se gli atti, depositati per un'udienza davanti al tribunale del riesame e quindi noti alle parti, sono coperti da un segreto quasi unanimamente ritenuto più blando.
"Eppure - scrive Ferrarella -, se fosse già in vigore la legge proposta dal ministro Alfano sulle intercettazioni, gli italiani nulla saprebbero ancora della casa di Scajola. E nulla gli italiani ancora saprebbero perché nulla i giornali avrebbero potuto scriverne in questi 12 giorni, e ancora fino a chissà quanti altri mesi. Al contrario di quello che i promotori della legge raccontano, e cioè che con essa intendono impedire la pubblicazione selvaggia di intercettazioni segrete, l’attuale testo in discussione alla Commissione Giustizia del Senato vieta, con la scusa delle intercettazioni, la pubblicazione — non solo integrale ma neanche parziale, neanche soltanto nel contenuto, neanche soltanto per riassunto — degli atti d’indagine anche se non più coperti dal segreto, e questo fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza. In più, aggancia la violazione di questo divieto a un’altra legge già esistente (la 231/2001 sulla responsabilità amministrativa delle imprese per reati commessi dai dipendenti nell’interesse aziendale), e per ogni pubblicazione arbitraria fa così scattare non solo ammende maggiorate per i cronisti (da 2 a 10 mila euro, dunque con oblazione a 5 mila euro), ma soprattutto maxi-sanzioni a carico delle aziende editoriali fino a 465 mila euro a notizia".
Mettere le mezze maniche da impiegati ai giornalisti, con questa legge, è un gioco da ragazzi. Ma del resto, lo dice lo stesso Premier Silvio Berlusconi, "in Italia abbiamo sin troppa libertà di stampa". Anche se un recente studio dell'osservatorio "Freedom House" colloca l'Italia fra i "Partly Free", i paesi parzialmenti liberi unico stato in zona euro in queste condizioni.
E' la destra che ci vuole giornalisti-impiegati? Non direi che sia una sua esclusiva, piuttosto di una politica bipartisan che, come gli allenatori delle squadre di calcio, ha sempre avuto rapporti difficili con i giornalisti che non siano giornalisti impiegati. Il "vada a farsi fottere" pronunciato ieri da Massimo D'Alema nei confronti di Alessandro Sallusti del Giornale è li a dimostrarlo: se ci riempiamo la bocca per difendere i giornalisti- giornalisti dovremmo anche avere il coraggio di ribattere, senza insultare, a chi ricorda (magari provocando ad arte, ma pur sempre facendo il suo mestiere) al politico di turno un suo comportamento (come quello uscito da affittopoli) certo non lo aveva fatto brillare per rigore etico e coerenza. Già, la coerenza. Un modus vivendi in via di estinzione. Enzo Biagi - lo ha ricordato la figlia Bice ieri presentando il libro "In viaggio con mio padre" (Bompiani) - chiamava la coerenza "un atto di coraggio". Ma Enzo Biagi non c'è più e noi giornalisti in cerca di un futuro - lo dicevamo ieri - piangiamo la mancanza di nuovi maestri. Di nuovi giornalisti-giornalisti.



E' LA STAMPA BELLEZZA...



LA MAPPA DELLE LIBERTA' DI STAMPA

martedì 4 maggio 2010

Il dilemma: giornalisti-giornalisti o giornalisti-impiegati?

"Ci stanno i giornalisti-giornalisti e i giornalisti-impiegati"
dialogo dal film Fortapasc
(l'omaggio a Giancarlo Siano, nella foto, di Marco Risi)
Sarà un caso, ma questa frase mi frulla nella testa da qualche giorno, da quando ho visto in tv Fortapasc, il film di Marco Risi, che ricostruisce la storia professionale di Giancarlo Siani, giovane giornalista del "Mattino" di Napoli ucciso dalla camorra il 23 settembre 1985 a 26 anni compiuti da poco. Giancarlo Siani aveva l'età in cui anche io (quache anno dopo) ho iniziato a pestare sui tasti della macchina da scrivere, raccontando certo storie meno cruente delle sue (Brescia non era Napoli), ma, mi piace pensare, con uguale passione. Quella passione l'ho rivissuta ieri nelle parole di Lirio Abbate e Rosaria Capacchione due colleghi (lui siciliano, lei campana) che ora vivono sotto scorta dopo aver scritto di mafia e camorra. A Colpire, nelle loro parole, non era la vocazione al martirio, ma la forza di chi continua a fare con umiltà il proprio lavoro: quello di scrivere senza reticenze. Ieri per noi giornalisti era la giornata della memoria per i colleghi uccisi dalle mafie e dal terrorismo, una ricorrenza celebrata nella giornata mondiale della libertà di stampa e nel nome di Walter Tobagi, ucciso dal terrorismo a 33 anni nel 1980. Non siamo in guerra ma di giornalismo, in Italia, sono morti in tanti e in tanti ancora oggi sono minacciati, dai nuovi potenti e dai nuovi criminali.
A noi che facciamo questa professione da oltre 20 anni viene da chiedersi che razza di giornalisti siamo: "giornalisti- giornalisti" o "giornalisti-impiegati" per usare le categorie coniate nel film dal caporedattore di Giancarlo Siani  alla redazione di Castellammare di Stabia?
Non è una risposta facile, non è una risposta che corrisponde ad una mansione (c'è chi scrive gli articoli, chi porta le notizie e chi fa lavoro di coordinamento) e uno categoria dello spirito, è una pentola in cui ci metti l'entusiamo, l'indipendenza di pensiero, la voglia di capire, la testimonianza sociale e qualche discreta rottura di scatole. E' una stato d'animo sempre più raro: vuoi per mancanza di maestri veri, vuoi per mancanza di editori puri e liberi (troppo stretti tra profitto, pubblicità e poteri forti), vuoi per carenza di lettori esigenti.
Vuoi perchè i tempi passano, il potere ammalia  e alle scarpe consumate dal giornalista-giornalista sui marciapiedi della cronaca si preferiscono negli anni quelle confezionate su misura del giornalista - impiegato (e gli esempi, su questo fronte, non mancano: da Augusto Minzolini ai tanti colleghi cresciuti sulle colonne di Lotta Continua e persisi nei corridoi del Palazzo).
Tentazioni da paradiso terrestre, dilemmi di chi sta perdendo un'identità, di chi dovrebbe ricostruirla dalle fondamenta, dal rigore della testimonianza all'etica delle piccole cose, di chi si fa piccolo davanti ai grandi e arrogante davanti ai piccoli. Ricordare i colleghi che non ci sono più, forse può aiutare a riscoprire il "richiamo della foresta", sfogliare i giornali in questi giorni forse può aiutare a comprendere la nostra identità vera, a capire che se non ci fossero stati i giornali, forse ora non avremmo un ministro chiamato a giustificare davanti all'opinione pubblica l'acquisto di una casa con degli strani assegni...
Ma io sono un giornalista-giornalista o un giornalita-impiegato? Predico bene e razzolo male? Sinceramente non lo so, anche perchè non mi faccio domande per darmi delle risposte. Mi resta la consolazione di quella scena (che ripropongo qui sotto) girata su una spiaggia sgarruppata, di una società in lento degrado. Mi resta la consolazione che quella domanda mi fa ancora pensare, mi fa ancora agitare: ma che tipo di giornalista sono?




Ecco la registrazione della Giornata della memoria organizzata a Roma dall'Unione cronisti



Ecco un ricordo di Giancarlo Siani realizzato dal fratello...



La biografia filmata di Siani

lunedì 3 maggio 2010

Sanità: tra Drg, trasparenza, controlli e gruppi di potere. Report senza reticenze

L'ho vista oggi on line (ieri lavoravo) l'inchiesta di Alberto Nerazzini dal titolo "La prestazione" andata in onda ieri sera su Report e dedicata alla sanità lombarda, dove dietro l'innegabile eccellenza e un modello che invidiano in molti si nasconde poca trasparenza, più di una stortura e qualche meccanismo che andrebbe rettificato per evitare che un settore, che assimila una fetta cospicua del bilancio regionale, finisca per essere agli occhi del privato l'ultima diligenza da assaltare. Report lo fa, come al solito, a 360 gradi  (ultima parte è anche dedicata all'amore degli imprenditori sanitari per l'editoria, con il gruppo Rotelli che scala Rcs e il Corriere) e senza reticenze, pronunciando parole che nemmeno l'assessore regionale alla sanità Luciano Bresciani osa fare ("io non parlo degli alleati politici")  come Comunione e Liberazione, Compagna delle Opere e il loro ruolo all'interno della sanità lombarda.
C'è anche molta Brescia in questo lavoro ben fatto, ad iniziare da Alessandro Cè, l'ex assessossore regionale alla sanità, l'ex parlamentare leghista che denunciando i meccanismi di potere e lo sbilanciamento verso il privato del sistema sanitario lombardo si è giocato tutto: poltrona (andata al più mite cardiochirurgo del "capo", Luciano Bresciani), ruolo e persino la permanenza nel movimento di Umberto Bossi, a cui - si sa - le autonomie di pensiero piacciono fino ad un certo punto. Report, poi, è salito sino all'ospedale di Esine documentando la lotta che ha dilaniato il reparto di chirurgia (ne abbiamo parlato anche sui giornali), retto da Fabio Maria Colombo, primario ciellino, amico di Formigoni. "Una begha tra medici" si è affrettato a dire il direttore generale Foschini (che ha declinato le proprie generalità spiegando di essere un orfano forlaniano finito in Forza Italia), ma per i sindacati della Valcamonica, l'ex consigliere regionale Osvaldo Squassina e per quanti non hanno avuto un'esperienza sanitaria felice all'interno del reparto c'è qualcosa di più grave. Quel che sembra è che tutto questo ha fatto finire in basso il grado di fiducia dei pazienti verso la struttura camuna, andando ad aggravare (basta spulciare il piano sanitario dell'Asl per capirlo) una migrazione sanitaria verso Brescia e Bergamo già particolarmente consistente (la giustificazione della direzione sanitaria è legata alla bassa specializzazione del plesso di Esine).
Insomma si tratta di un viaggio che apre gli occhi su un mondo di cui vediamo spesso solo le eccellenze, senza coglierne ciò che gli sta dietro, le distorsioni, e che potrebbe, soprattutto dal punto di vista gestionale, essere molto migliorato. Se non altro per non finire come quel sacerdote di Vigevano che per una normale aritmia si è trovato in sala operatoria con una valvola cardiaca sostituita. Un intervento la cui unica giustificazione è parsa ai giudici quella di lucrare sui rimborsi regionali. Un modo con cui un certo privato e un libero professionista con pochi scrupoli cerca di fare casse sulla pelle dei pazienti.


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sabato 1 maggio 2010

Primo maggio, cassintegrati nell'isola e operai sulle gru

"Ti presento Vincenzina, vedova bianca. Suo marito è un martire del valoro: è volato giù dall'ultimo piano di un palazzo in costruzione.
Capogiro?
Capomastro".
Adriano Celentano e Renato Pozzetto in Ecco noi per esempio (1977)

Primo maggio, festa del lavoro. ma quale lavoro? La crisi morde ancora pesante, gli esperti dicono che nulla sarà più come prima, che ora dopo lo stop, la ripartenza sarà a colpi di ristrutturazioni nel nome degli utili che non devono mai venire meno. E la solidarietà? E la sbandierata attenzione per famiglie e lavoratori? Oggi il quotidiano Bresciaoggi racconta la storia di un centinaio di addetti della Tmd di Orzinuovi (in liquidazione) che da mesi non prendono un soldo della cassa integrazione nonostante gli accordi siglati per usufruire del secondo anno di ammortizzatori sociali siano stati rispettati. Si profilano tempi lunghi ma, mamme, papà e bambini mangiano tutti i giorni e le bollette scadono tutti i mesi. E per fortuna non c'è un sindaco come quello di Adro che ti bolla come "furbo" e ti lascia digiuno pure dalla mensa scolastica.Trovare delle soluzioni non è facile, ma qualcosa si può fare. Si deve fare. Un buon primo maggio di riflessione a tutti.

LE STORIE: DALL'ISOLA DEI CASSINTEGRATI



LE STORIE: DALL'ALTO DI UNA GRU (E C'E' UN PO' DI BRESCIA IN QUESTA STORIA)